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BEIRUT. IMMINENTE SOLUZIONE DELLA CRISI SIRIANA, L’EUROPA STA A GUARDARE

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Beirut. Da qui l’osservazione delle vicende siriane assume, al solito, contorni più netti. Fatti e dinamiche politiche si colgono con più lucidità e le notizie non subiscono le distorsioni alle quali i media ci hanno abituati in questi mesi.

Ormai è risaputo quante siano le ripercussioni che le vicende siriane esercitano sul Paese dei cedri, la linea di confine che separa queste due realtà è molto sottile, sia sotto il profilo strettamente geografico che dal punto di vista politico.

Gli attacchi terroristici degli ultimi giorni a Damasco, sono parsi in Libano espressione della precisa volontà di alzare la posta in gioco, nella ormai imminente trattativa fra il governo di Assad ed i suoi oppositori. Come del resto appaiono solo intimidatori i messaggi di John Kerry in merito all’invio di aiuti logistici ai ribelli; la verità è che la vicenda siriana si sta per concludere con il fallimento del tentativo di cacciare il Presidente Assad e con una imminente azione di mediazione. Si sarebbero potute evitare molte vittime se l’insipienza dei politici occidentali non avesse portato a due anni di battaglie e attentati e se non si fosse consentito ad Arabia Saudita e Qatar di foraggiare con armi e soldi i terroristi jihadisti L’accordo fra USA e Russia appare ormai prossimo e come al solito l’Europa sta a guardare, mentre l’Italia, sembra non essere stata informata delle novità in politica estera, ed il suo prossimo ex ministro degli esteri Terzi è del tutto ignaro del fatto che l’accordo sia ormai imminente. Terzi come l’ultimo soldato giapponese continua a stare in trincea a combattere una guerra solitaria, magari fra poco qualcuno lo avviserà. Ma, tornando a quel che si dice in Libano, le frontiere con la Siria in questi giorni brulicano di persone che entrano ed escono, le comunicazioni non si erano mai interrotte, ma in queste ore sono aumentate notevolmente. È  persino ricominciata la corsa ai visti da parte di giornalisti stranieri, persino italiani, ora tutti vogliono andare in Siria, come se volessero benedire questo accordo. Ieri tutti a sparare a colpi di penna contro Assad, la penna di al Jazeera ed al Arabia, oggi tutti a voler testimoniare il fallimento delle politiche ottuse dei vari Hollande, Obama e Merkel. Del resto alcuni giorni fa proprio la Merkel era andata ad avvisare il suo alleato turco, il Fratello Mussulmano Erdogan, di allentare la morsa intimandogli la necessità di chiudere la vicenda siriana.

Anche negli ambienti del partito di Dio, Hezbollah, ormai emerge che la vicenda siriana è destinata a trovare soluzione e che ora il lavoro da fare sarà quello di ricostruire relazioni. Quanto ai tafferugli tanto sbandierati in Europa fra milizie jihadiste e militari di Hezbollah, da qui è ancor più chiaro come si sia trattato di semplici schermaglie e nulla di più, ma si sa, che un colpo di fucile in Medio Oriente diventa una carneficina in Europa. Girando per le strade della periferia sud di Beirut l’unico incontro particolare è quello con un pazzo salafita di Sidone, che sponsorizzato dai Paesi del golfo fra propaganda filo jihadista contro Assad ed i suoi sostenitori qui in Libano. Ma questo è folclore.

 
Assadakah Sardegna

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Il SUCCESSO DEL M5S

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Sul Movimento Cinque Stelle (M5S) nelle ultime settimane si è scritto di tutto, ma la grande stampa italiana ha espresso perlopiù giudizi fortemente negativi, al punto da considerare Grillo un pericolo per la democrazia, un fascista, uno stalinista, un antisemita e così via. Sciocchezze, ma che rivelano l’irrimediabile ottusità della classe dirigente italiana (giornalisti e intellettuali compresi) ormai incapace di comprendere la realtà del nostro Paese. Con questo non vogliamo affermare che il M5S non sia una incognita. Indubbiamente il movimento politico di Grillo manca di un collante ideologico e di una salda dottrina politica e strategica. Perciò, tradimenti e voltafaccia vari è molto probabile che ci saranno. Ma non è affatto scontato che sarà il “trasformismo” che caratterizzerà l’operato del M5S in Parlamento.

Intanto, si dovrebbe prendere atto che il M5S è riuscito nella non facile impresa di “uscire” da internet e di togliere la “piazza” alla sinistra interpretando il malcontento e la rabbia di milioni di italiani che stanno sperimentando sulla propria pelle il fallimento della “terapia” del commissario Monti. Una “terapia” – non lo si deve dimenticare – impostaci dalla BCE (che è la longa manus della finanza angloamericana in Europa) e condivisa sia dal PD che dal PDL. E che ha portato il nostro  Paese sull’orlo del baratro e ad avere una disoccupazione giovanile ben oltre il 30%, nonostante un avanzo primario del 5% (ovvero al netto degli interessi sul debito pubblico). Durante l’anno orribile del governo Monti, però la parola d’ordine del PD e dello stesso PDL è stata una sola: privatizzare. Privatizzare come negli ultimi decenni. Ovvero (s)vendere ai “mercati” l’Italia e gli italiani, perché “lo chiede l’Europa”. Adesso che il risultato di tale politica è sotto gli occhi di tutti si tratta quindi di capire se il M5S non rimarrà prigioniero dell’”antipolitica” (cioè di una generica, benché comprensibile e condivisibile, protesta contro il sistema politico) e saprà invece interpretare la rabbia degli italiani in una nuova chiave (geo)politica che possa bloccare, o perlomeno ostacolare, il”tritacarne” della finanza angloamericana.

Certo ci aspettano mesi duri. Anzi durissimi. Monti ha dichiarato che teme la reazione dei “mercati”. E questi già fanno sentire la loro voce. Ma tutti sappiamo “chi” sono i “mercati” e che cosa vogliono. Sarebbe necessario allora elaborare una linea di “azione strategica” che permetta di opporsi con successo ai “mercati”. Vero che non è facile e che la situazione è gravissima. Guai ad illudersi. Ma margini di manovra ci sono, se strangolare l’Italia significa sfasciare Eurolandia. E questa è una “carta” che il nostro Paese dovrebbe giocare bene. Fondamentale è saper far leva sull’economia reale (PMI, settori strategici, ricerca etc.). In primo luogo, si dovrebbe ridefinire la partecipazione dell’Italia ad Eurolandia e la stessa struttura politica dell’Unione Europea. Al riguardo, però è degno di nota che Mauro Gallegati, l’esperto economico del M5S, abbia precisato che il M5S non vuole «uscire dall’euro e abbandonare l’Europa, ma le strade sono due: una vera unione politico-monetaria o due zone Euro, una per la Germania e i paesi più forti, l’altra per i Paesi più deboli». (1)

D’altronde, vi è pure da prendere in considerazione la delicata questione della politica estera, che incide sempre di più sulla realtà economica e sociale dei singoli Paesi. Da dove “proviene” la crisi  è noto; e pure perché abbia avuto inizio proprio negli Stati Uniti. Né è un caso che le “mani” che controllano i “mercati” siano tutte a “stelle e strisce”. Sicché, certe affermazioni di Grillo sull’Iran e sulla Siria e soprattutto la sua condanna della politica di potenza d’Israele, nonché il fatto che il M5S sia nettamente contrario al MUOS, giustificherebbero un certo ottimismo. Il condizionale però è d’obbligo essendoci ancora, anche sotto questo profilo, non poche “zone d’ombra”, in particolare per quanto concerne i rapporti con i nuovi attori geopolitici sullo scacchiere mondiale (BRICS, SCO etc.), che sono destinati avere un ruolo sempre maggiore nel prossimo futuro ed avere di conseguenza sempre più importanza per lo sviluppo dell’economia e della società europea. Ma è improbabile (ma non “impossibile”) che il M5S non metta in discussione la politica filoatlantista del nostro Paese, dato che insiste sulla necessità di mettere fine alle nostre missioni militari all’estero, che sono solo in funzione dei progetti di egemonia globale degli Stati Uniti.

Insomma, il successo del M5S, al di là di facili ed “superficiali” entusiasmi, non solo non è irrilevante, ma potrebbe veramente cambiare, almeno in parte, il volto politico del nostro Paese.   Comunque sia, un po’ di sabbia nel “tritacarne” ora c’è. Ed è un fatto positivo, anche se non è ancora una autentica inversione di tendenza. Peraltro, tanto i partiti del centrodestra quanto quelli del centrosinistra non solo sono in buona misura responsabili della drammatica situazione in cui si trova l’Italia, ma, come dimostra la stessa vicenda del Monte dei Paschi di Siena, sono tutti ricattabili. A tale proposito, si dovrebbe tener presente quanto scrivono Stefano Sylos Labini e Giorgio Ruffolo, ossia che «l’’attesa spasmodica del giudizio dei mercati assume i tratti di un imperscrutabile destino e rivela fino a che punto è stata compromessa la sovranità politica delle democrazie […] Da un lato c’è un mercato finanziario dominato da grandi concentrazioni di potere e perfettamente integrato a livello mondiale, che può condizionare le politiche dei governi. Dall’altro ci sono i governi che ne subiscono il ricatto».(2) E’ allora contro questo ricatto che il M5S si deve battere, se ha a cuore non gli interessi di quel 10% della popolazione che detiene quasi il 50% della ricchezza nazionale, bensì le sorti del popolo italiano. Ed è questa la “conditio sine qua non” per eliminare corruzione, malcostume e inefficienza senza distruggere la base produttiva del nostro Paese.

Tuttavia, questo lo può fare solo la “politica”. Il M5S dovrebbe pertanto, a nostro giudizio, evitare di confondere la funzione politica, oggi più che mai necessaria e decisiva, con i politicanti inetti e corrotti o con le stesse istituzioni politiche, che naturalmente non sono state delegittimate da Grillo, ma, per così dire, si sono delegittimate da sole. In ogni caso, siamo sicuri che nei prossimi mesi, se non addirittura nelle prossime settimane, molti dubbi saranno chiariti. E dato che non ignoriamo quali sono i motivi che spingono gazzettieri e politicanti ad accusare il M5S di essere un movimento “populista”, non abbiamo nemmeno difficoltà ad ammettere che non ci dispiacerebbe che tale accusa si rivelasse non del tutto infondata, pur augurandoci, per il bene degli italiani, che il M5S “cresca” il più rapidamente possibile, sia dal punto di vista della cultura politica sia da quello politico-strategico. Se invece ci fossimo sbagliati e il M5S si dovesse rivelare un movimento politico funzionale al sistema di potere “euroamericano”, è ovvio che non si tratterebbe solo di una buona occasione persa. E le conseguenze per il nostro Paese sarebbero disastrose.

 

 

 

(1) http://www.ansa.it/web/notizie/elezioni2013/news/2013/02/26/INTERVISTA-M5S-aula-Stiglitz-ma-uscita-euro-_8315461.html.

(2) http://www.syloslabini.info/online/wp-content/uploads/2013/01/risposta-giorgio.htm.

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MILLEQUATTROCENTO PAGINE SU GIUSEPPE TUCCI

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Laureato in Lettere presso l’Università di Roma dopo aver combattuto per quattro anni sui fronti della Grande Guerra, Giuseppe Tucci iniziò la sua carriera di orientalista tra il 1925 e il 1930, quando, incaricato di missione in India, insegnò cinese (oltre che italiano) presso le Università di Shantiniketan e di Calcutta. Nominato Accademico d’Italia nel 1929, nel novembre dell’anno successivo fu chiamato ad occupare la cattedra di Lingua e letteratura cinese all’Orientale di Napoli. Nel novembre 1932 passò alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma, dove fu professore ordinario di Religioni e Filosofia dell’India e dell’Estremo Oriente, finché nel 1969 venne collocato a riposo. Dal 1929 al 1948 compì otto spedizioni scientifiche in Tibet e dal 1950 al 1954 sei in Nepal. Nel 1955 iniziò le campagne archeologiche nella valle dello Swat in Pakistan, nel 1957 quelle in Afghanistan, nel 1959 in Iran.

Nel periodo del suo insegnamento in India, Tucci aveva coltivato relazioni personali con Rabindranath Tagore, che gli aveva presentato Gandhi. Inoltre aveva allacciato rapporti con un gruppo di studiosi interessati a collaborare con l’Italia; gravitava intorno a questo gruppo P. N. Roy, l’ex allievo di Tucci che, una volta diventato professore d’italiano all’università di Calcutta, pubblicò in bengalese una biografia ed una raccolta di discorsi di Mussolini. Si collocano verosimilmente in quegli anni i primi contatti di Tucci con Subhas Chandra Bose, destinati a svilupparsi in un rapporto di amicizia e di collaborazione: nel 1937, in una delle varie occasioni in cui il patriota bengalese venne ricevuto dal Duce, fu Tucci ad accompagnarlo in udienza. E sarà l’IsMEO guidato da Tucci ad incoraggiare nel 1942 la traduzione italiana del libro del Netaji, Indian Struggle.

In una relazione sulla sua missione in India, inviata il 31 marzo 1931 al ministro degli Esteri Dino Grandi, Tucci propose la fondazione di un istituto culturale finalizzato ad agevolare gli studi dei giovani Indiani in Italia e presso le istituzioni italiane, a promuovere la conoscenza dell’Italia in India, a mettere in contatto studiosi indiani e italiani con interessi affini. Mussolini, che già accarezzava l’idea di dar vita ad un istituto per le relazioni italo-indiane, ricevette in udienza il professore maceratese e rimase d’accordo con lui che avrebbe esaminato il suo progetto quando egli fosse ritornato dal viaggio di esplorazione che si accingeva ad intraprendere nel Tibet. Rientrato in Italia nel novembre del 1931, Tucci riuscì a coinvolgere nel suo progetto il presidente dell’Accademia d’Italia, Giovanni Gentile, che nel luglio dell’anno successivo ottenne dal Duce l’approvazione definitiva.

Quando l’IsMEO vide ufficialmente la luce, nel febbraio 1933, Giovanni Gentile ne fu il presidente e Tucci uno dei due vicepresidenti (l’altro fu G. Volpi di Misurata). L’evento venne celebrato nel dicembre di quello stesso anno dal geografo Filippo de Filippi nel contesto di un’iniziativa patrocinata dal GUF, la “Settimana romana degli studenti orientali” presenti in Europa. Nella sala Giulio Cesare del Campidoglio si tenne un convegno che raccolse circa cinquecento giovani asiatici e numerosi ambasciatori ed ebbe il suo momento culminante nella mattina del 22 dicembre, quando il Duce pronunciò un discorso al quale risposero una studentessa indiana, uno studente siriano e uno persiano.

“Venti secoli or sono – esordì Mussolini – Roma realizzò sulle rive del Mediterraneo una unione dell’occidente con l’oriente che ha avuto il massimo peso nella storia del mondo. E se allora l’occidente fu colonizzato da Roma, con la Siria, l’Egitto, la Persia, il rapporto fu invece di reciproca comprensione creativa”. La civiltà particolaristica e materialistica nata fuori dal Mediterraneo, – proseguì – essendo incapace per sua natura di comprendere l’Asia, ha troncato “ogni vincolo spirituale di collaborazione creativa” con essa e l’ha considerata “solo un mercato di manufatti, una fonte di materie prime”. Ecco perché la nuova Italia, che lotta contro “questa civiltà a base di capitalismo e liberalismo”, si rivolge ai giovani rappresentanti dell’Asia. E concluse: “Come già altre volte, in periodo di crisi mortali, la civiltà del mondo fu salvata dalla collaborazione di Roma e dell’oriente, così oggi, nella crisi di tutto un sistema di istituzioni e di idee che non hanno più anima e vivono come imbalsamate, noi, italiani e fascisti di questo tempo, ci auguriamo di riprendere la comune, millenaria tradizione della nostra collaborazione costruttiva”.

La visione di Mussolini coincideva con quella di Tucci, che due mesi dopo, il 13 febbraio 1934, in una lettura tenuta all’IsMEO, avrebbe auspicato tra l’Europa e l’Asia una collaborazione basata su “una comprensione aperta e franca, scevra di pregiudizi, di malintesi e di sospetti, come fra due persone leali e di carattere”.

Il Duce, da parte sua, riprese l’argomento in un articolo pubblicato sul “Popolo d’Italia” del 18 gennaio 1934 e in un discorso pronunciato due mesi dopo al Teatro Reale dell’Opera di Roma. Esaminando la situazione conflittuale esplosa in Manciuria, Mussolini, liquidata la tesi del “pericolo giallo” come una fantasia, “a condizione che si tenti una ‘mediazione’, non nel senso volgare della parola, fra i due tipi di civiltà”, ribadiva la necessità di “una collaborazione metodica dell’occidente con l’oriente” e di “una più profonda conoscenza reciproca fra le classi universitarie, veicolo e strumento per una intesa migliore fra i popoli”.

Nel 1934 l’Italia, che aveva buone relazioni con la Cina, non era ancora schierata a fianco del Sol Levante; lo stesso Tucci nutriva una certa diffidenza nei confronti della politica di Tokyo, in quanto riteneva che il Giappone progettasse di saldare i popoli dell’Asia in un blocco antieuropeo. Tuttavia il Duce seguiva gli sviluppi della politica e dell’economia giapponesi, in particolare dopo la crisi mancese, sicché è verosimile che pensasse ad una forma di incontro fra Tokyo e Roma..D’altronde l’ambasciata giapponese aveva già sollecitato l’instaurazione di scambi culturali tra le università dei due paesi ed anche Giovanni Gentile aveva caldeggiato un accordo per lo scambio di professori e studenti. Così verso la metà del 1934 l’IsMEO prese contatto con la Kokusai Bunka Shinkôkai, un’istituzione ufficiale che curava i rapporti culturali del Giappone con l’estero, e Tucci affrontò l’argomento con l’ambasciatore giapponese. In novembre il successore di quest’ultimo, Yotaro Sugimura, parlò sia con Tucci sia con Mussolini, il quale gli indicò lo studioso maceratese, vicepresidente dell’IsMEO, come la personalità incaricata di condurre i negoziati per arrivare all’accordo culturale, che venne stipulato nella primavera del 1935.

Nel 1936 l’IsMEO, sotto la guida di Tucci, funzionava ormai a pieno ritmo e contribuì in maniera determinante all’instaurazione di tutta una serie di iniziative che allacciavano le relazioni culturali tra Roma e Tokyo. Invitato in Giappone nel novembre del 1936, il professor Tucci vi fu accolto con tutti gli onori dovuti ad una personalità ufficiale: venne ricevuto dal Tennô, parlò alla Camera dei Pari, lesse alla radio un messaggio di Mussolini. Ovviamente promosse varie iniziative d’ordine culturale: in particolare, concluse un accordo per l’insegnamento dell’italiano in un’università nipponica e fondò a Tokyo un istituto di cultura. La visita di Tucci fu ricambiata nel dicembre 1937 da quella di Kishichiro Okura, presidente della Società Amici dell’Italia, che pochi giorni dopo la sigla del Patto Antikomintern lesse nei locali dell’IsMEO un messaggio per il popolo italiano. Tucci, con Gentile e Majoni, fece parte del comitato promotore di una costituenda Società degli Amici del Giappone, che dal gennaio 1941 pubblicò, presso l’Istituto geografico De Agostini, il mensile “Yamato”. Membro del comitato di redazione, Tucci collaborò alla rivista con articoli di vario argomento. Nel 1943 cessò le pubblicazioni non soltanto “Yamato”, ma anche il bimestrale “Asiatica”, che nel 1936 era subentrato al “Bollettino dell’IsMEO”. Quanto a Tucci, l’aver ricoperto la carica di presidente della Società degli Amici del Giappone gli valse, nella risorta democrazia, un provvedimento di epurazione.

Assunta nel 1948 la presidenza dell’IsMEO, Tucci diede vita ad un nuovo bimestrale, “East and West”, al quale collaborarono studiosi di fama mondiale: da Mircea Eliade a Mario Bussagli, da Franz Altheim a Francesco Gabrieli, da Henry Corbin a Julius Evola. Da allora si fece sempre più limpida in lui la consapevolezza di una essenziale unità eurasiatica. Se in precedenza Tucci aveva definito il ruolo centrale che l’Italia avrebbe potuto svolgere nei rapporti tra l’Europa e l’Asia, negli anni Cinquanta egli affermò l’esistenza di una “comunione fiduciosa” tra le due parti del Continente eurasiatico. Nel 1971, commemorando in Campidoglio il fondatore dell’impero persiano, disse che “Asia ed Europa sono un tutto unico, solidale per migrazioni di popoli, vicende di conquiste, avventure di commerci, in una complicità storica che soltanto gli inesperti o gli incolti, i quali pensano tutto il mondo concluso nell’Europa, si ostinano ad ignorare”; nel 1977 accusò come grave l’errore che si commette allorché si considerano l’Asia e l’Europa due continenti distinti l’uno dall’altro, poiché “in realtà si deve parlare di un unico continente, l’Eurasiatico: così congiunto nelle sue parti che non è avvenimento di rilievo nell’una che non abbia avuto il suo riflesso nell’altra”. Alla fondamentale unità dell’Eurasia si richiama infine quello che ci risulta essere l’ultimo intervento pubblico di Tucci, un’intervista apparsa il 20 ottobre 1983 sulla “Stampa” di Torino. “Io – dichiarò lo studioso – non parlo mai di Europa e di Asia, ma di Eurasia. Non c’è avvenimento che si verifichi in Cina o in India che non influenzi noi, o viceversa, e così è sempre stato. Il Cristianesimo ha portato delle modifiche nel Buddhismo, il Buddhismo ha influenzato il Cristianesimo, i rispettivi pantheon si sono più o meno percettibilmente modificati”.

Ora l’avventura intellettuale e politica di Giuseppe Tucci viene ripercorsa con passione e con rigore scientifico dall’indologa Enrica Garzilli in due avvincenti volumi di circa millequattrocento pagine in totale, oltre duecento delle quali contengono una bibliografia completa delle opere del grande studioso, un elenco dei documenti più importanti citati o consultati per la stesura del libro (documenti d’archivio, lettere, carteggi, diari, articoli scientifici e giornalistici, atti congressuali, interviste, ecc.), un indice biografico dei nomi ecc.

Rivendicando con legittimo orgoglio il merito di aver pubblicato il primo libro su Giuseppe Tucci, “sui suoi rapporti con il fascismo e la politica di Mussolini in India e nelle regioni dell’Himalaya”, l’Autrice dichiara di aver voluto “cogliere gli svariati aspetti dell’uomo, sia pubblici sia privati”, nonostante le difficoltà che oggi impediscono di comprendere “la mentalità e l’etica di un uomo nato alla fine dell’Ottocento, che ha fatto carriera durante il ventennio fascista: quanto più semplice sarebbe stato osannarlo, come quasi tutti in Italia, pur senza conoscerne la storia, o condannarlo, come fanno gli studiosi d’oltreoceano; quanto più sbrigativo, e diminutivo, ideologizzare una vita così ricca e complessa come la sua”.

L’auspicio di Enrica Garzilli, che riteniamo pienamente fondato, è che questo studio possa ampliare lo stato della conoscenza delle relazioni tra l’Italia fascista e l’Oriente, “sviluppando una tesi del tutto nuova sulla reale visione politica di Mussolini verso l’Asia, che va ben oltre l’interesse verso l’India”.

Sarebbe però molto riduttivo considerare questa biografia di Giuseppe Tucci un semplice contributo alla storia della politica “asiatica” del fascismo, se non altro perché l’Autrice riferisce dell’attività che il grande studioso riuscì a svolgere in Italia ed in Asia anche nel periodo postbellico, nonostante fossero venute meno le favorevoli condizioni politiche di un tempo. Ciò fu possibile grazie alla lungimiranza di Giulio Andreotti, il quale, scrive la Garzilli, “capì perfettamente il valore scientifico delle missioni e il ritorno d’immagine che con esse ne aveva l’Italia” e sostenne Tucci in tutte le sue imprese, come dimostra il lungo carteggio fra i due uomini riportato nel secondo volume.

La biografia di Tucci si presenta perciò come uno spaccato di due epoche, nel quale vediamo muoversi intorno al protagonista personaggi quali Mussolini, Gentile, Rabindranath Tagore, Gandhi, ma anche pandit indiani e lama tibetani, pellegrini e lebbrosi, tedeschi della Ahnenerbe ed orientalisti italiani.

 

 

 

Enrica Garzilli, L’esploratore del Duce. Le avventure di Giuseppe Tucci e la politica italiana in Oriente da Mussolini a Andreotti, 2 voll., Memori – Asiatica, Roma-Milano 2012.

 

 

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ITALIAN VOTE STRONG OPPOSITION TO FOREIGN-IMPOSED AUSTERITY

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The Italian vote has provided the most unexpected outcome. The center-left coalition has lost its big chance to obtain a relevant victory by taking advantage of the center-right coalition failure in 2011.

Even if Italian electoral law considers a majority as a premium which gives the winning coalition a number of deputies bigger than its real percentage, there is a significant problem of governance because the distribution of seats is different for the two branches of parliament. The Chamber of Deputies is calculated on a national scale, while the Senate is calculated according to the population in every region. Victory in the most populous and key regions of Lombardy, Lazio, Sicily and Veneto has a bigger weight in terms of seats. Moreover, only people over the age of 25 have the right to vote for the composition of the Senate.

This mechanism usually changes the situation and is able to reduce the gap between the two main coalitions at the Senate or, as in this case, can even overturn the composition between the two branches of parliament. Mario Monti’s coalition has performed below expectations, and its hypothetical agreement with Bersani’s center-left coalition won’t be sufficient to secure a solid majority in the Chamber and Senate. This means there is almost no chance to form a stable government, and the only solution seems to be the formation of a temporary government to elect a new president and come back to the polls in May or June.

During his last meetings with US president Barack Obama and German chancellor Angela Merkel, President Giorgio Napolitano was quite clear that the work done by Mario Monti’s government had to go on, but the Italian people gave a contrarian response to the austerity policy. In fact, the real outsider of this campaign is the civic movement Five Stars, led by famous comedian Beppe Grillo. In a few years he has built up this new movement from nothing, composed of simple citizens joined together by hatred for the corruption and poor governance of the traditional parties. Five Stars obtained more than 25 percent of the vote.

In his program, Grillo has no specific ideological roots or a clear political theory. Some see his rise as a positive phenomenon, able to realize a peaceful revolution, but most observers consider Five Stars as a demagogue and populist movement. This civic movement has surprisingly increased its consensus among spontaneous citizens associations who protest against financial speculation, pollution, nuclear plants, the installation of US or NATO military bases and Italian military missions abroad. It’s not hard to understand the reason why Five Stars has exceeded 30 percent in Sardinia and Sicily, the two islands where the US military presence is historically less tolerated by local populations.

There are no concrete ideas about international policy among the Italian parties, and the only perceived foreign policy plans seem to be defined by different approaches with which every party considers the EU. The center-left coalition program contains explicit concerns about how to meet the commitments taken by Italy toward the EU and NATO, while the center-right coalition program maintains a traditional Atlanticist stance and prioritizes relationships with Mediterranean partners, but keeps silence about the disaster created by the last Berlusconi’s government due to participation in the Libyan War.

That war significantly weakened the role of Italy in the Mediterranean region, destroying a strong partnership with Muammar Gaddafi’s Jamahiriya and all relevant investments made by state-owned strategic companies like Eni and Finmeccanica. Nevertheless, while Berlusconi seemed forced to intervene by allied countries, the Democratic Party immediately sided with NATO, criticizing Berlusconi for his wait-and-see policy and started to support the Arab Spring immediately. Italy is now even in a more confused situation, but the Italian people have sent politicians a clear message, clamoring for more national sovereignty, social equity and a peaceful rise.

 

 

The author is a journalist-author based in Perugia, Italy, and an analyst for Italian geopolitical magazine Eurasia.

 

* L’articolo Italian vote strong opposition to foreign-imposed austerity è stato originariamente pubblicato a pag. 15 dell’edizione del 28/2/2013 del “Global Times”, tabloid quotidiano internazionale del Partito Comunista Cinese.

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“LA CINA NUOVA POTENZA GLOBALE”

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Sabato 9 marzo alle ore 17:30 presso la Libreria Internazionale La Fenice in via Battisti 6 (Galleria Fenice) a Trieste, il Centro Studi Eurasia-Mediterraneo (www.cese-m.eu) organizza un convegno dal titolo “La Cina nuova potenza globale”.
 
Nel corso dell’incontro, introdotto da Lorenzo Salimbeni, Presidente del CeSE-M e redattore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, verranno presentati i libri “Il ruolo geopolitico, geoeconomico e geostrategico della Repubblica Popolare Cinese nel 21. secolo” di Aldo Colleoni (Edizioni Italo Svevo) e “La Grande Muraglia. Pensiero politico, territorio e strategia della Cina Popolare” di Marco Costa, Andrea Fais e Alessandro Lattanzio (Anteo Edizioni in collaborazione con il Club Economico dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai).
 
Interverranno Han Qiang, Consigliere dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia, il prof. Aldo Colleoni, già docente di Geografia Politica all’Università degli Studi di Trieste, e Marco Costa, saggista e coautore del libro “La Grande Muraglia” (Anteo Edizioni 2012)
 
Si tratterà di un’occasione per approfondire la conoscenza del gigantesco Paese asiatico, delle sue dinamiche interne, degli obiettivi che la nuova classe dirigente di recente insediatasi si è proposta e di come gli scenari geopolitici internazionali risentano dell’emergente potenza di Pechino.

 
 
Senzanome

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STORIA DELLA POLITICA ESTERA RUSSA IN ASIA CENTRALE

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La Russia, nel corso di un solo secolo, ha vissuto due profonde trasformazioni. La Rivoluzione d’Ottobre e l’implosione dell’URSS rappresentano due cambiamenti profondi e di ampia portata. Si tratta di passaggi salienti che introducono forme statuali molto diverse. Contestualmente, i tentativi fatti per affrancarsi dalla precedente fase, spesso non si sono rivelati capaci di sradicare quei fattori socio-culturali persistenti che caratterizzavano la Russia da ben più lungo tempo.

La sopravvivenza di tali fattori ha spinto la politica estera russa a porsi alcuni obiettivi geopolitici che trovano la loro genesi nella nascita dello Stato russo moderno e che sono rimasti gli stessi lungo tutta la sua storia. Essi sono stati raggiunti temporaneamente sotto l’Impero Zarista, ma si sono ridestati prepotentemente in occasione degli arretramenti territoriali avvenuti nel 1917 e nel 1991, e persistono ancor oggi. Uno di questi interessi è certamente il controllo dell’Asia Centrale.

La prima definizione della direttrice orientale dell’espansionismo russo risale al regno di Ivan IV detto il Terribile. Egli conquistò nel 1552 e nel 1556 i Khanati di Kazan’ e Astrachan’. Sconfitte le principali minacce orientali, superstiti del Khanato dell’Orda d’Oro che per due secoli aveva dominato indirettamente i principati russi, l’espansionismo verso Est divenne graduale e assunse una tendenza simile a quella del colonialismo navale delle potenze europee. Durante il regno di Alessandro I (1801-1825) e per buona parte del regno di Nicola I (1825-1855), l’attenzione degli Zar fu rivolta all’Europa e all’agonizzante Impero Ottomano, ma con la sconfitta subita durante la guerra di Crimea (1853-1856) il loro interesse si spostò in Asia Centrale. La conquista russa della zona prese il via nel 1865 con la cattura di Tashkent; quando lo Zar Alessandro II nominò il generale Konstantin Petrovič Kaufman primo governatore del Turkestan, il destino dei khanati indipendenti della regione fu scritto. Veterano della guerra del Caucaso e fine stratega, Kaufman nel 1868 prese Samarcanda e Bukhara1, mentre nel 1873 fu la volta di Khiva, seguita poi da una serie di facili successi fino alla conquista di Merv nel 1884 ad opera di Alikhanov.

L’interesse russo per l’Asia Centrale era molteplice. La zona è da sempre ricca di giacimenti minerari, ma soprattutto di terreni adatti alla coltivazione estensiva del cotone. In aggiunta le tribù locali, dedite ai saccheggi e al commercio di schiavi, costituivano un perenne rischio per le popolazioni di confine. Pietrogrado mirava poi ad avere accesso ai mercati locali e ad escluderne i prodotti inglesi molto più competitivi. Inoltre, come si è già fatto cenno, la politica imperialista russa era stata frustrata in Europa ed il desiderio di rivincita era particolarmente sentito alla corte degli Zar. Infine il valore strategico della regione era indubbio dal momento che da Merv le armate dello Zar avrebbero potuto marciare rapidamente su Herat e raggiungere l’India Britannica. Quando, nel 1885, i russi misero gli occhi sull’oasi di Pandjeh, a metà strada fra Merv ed Herat, le relazioni tra Londra e Pietrogrado si fecero tese come mai prima d’allora durante il Grande Gioco, tanto che la guerra sembrava quasi certa. Grazie anche al sangue freddo di Abdur Rahman Khan, emiro dell’Afghanistan2, l’Impero Russo e quello Britannico pervennero ad un accordo ed evitarono il conflitto. Sebbene il Grande Gioco non si concluse allora, ma si spostò verso Est lungo l’altopiano del Pamir, esso perse poco a poco intensità fino agli inizi del XX secolo, quando in Europa la Germania guglielmina si rivelò essere il vero antagonista di Londra. Nel 1907 il Ministro degli Esteri russo Aleksandr Petrovič Izvol’skij firmò un accordo con il suo corrispettivo britannico, sir Edward Grey, per il reciproco riconoscimento delle zone di influenza in Asia, accordo che sancì di fatto la fine del Grande Gioco e la nascita della Triplice Intesa.

Durante la Guerra Civile Russa nella regione dell’Asia Centrale sorsero numerosi stati indipendenti: l’Emirato di Bukhara, il Khanato di Khiva, la Repubblica Socialista Sovietica Autonoma del Turkestan, la Repubblica Transcaspiana e le Autonomie di Kokand e Alash. Alcuni di questi nuovi soggetti ottennero sostegno dalle potenze europee schierandosi con l’Armata Bianca. La Gran Bretagna inviò missioni a Tashkent e ad Ashgabat, che tuttavia si rivelarono incapaci di impedire che i bolscevichi locali ottenessero il consenso delle popolazioni native. Già nel 1921 la regione era rientrata sotto il controllo bolscevico, nonostante alcuni nuclei di resistenza basmaci sopravvissero fino al 19263. L’area, una volta stabilizzata, subì una profonda riorganizzazione, tra le repubbliche socialiste vennero delineati nuovi confini che avrebbero ricoperto una mera importanza interna per le logiche accentratrici di Mosca. Dal punto di vista economico le diverse repubbliche vennero inserite nel sistema integrato dell’URSS e dotate delle infrastrutture necessarie per il trasporto delle risorse energetiche. Vennero inoltre adottate numerose politiche per sradicare le sacche di fondamentalismo wahhabita, che tuttavia non fu mai del tutto estirpato.

Nel corso della Guerra Fredda il Cremlino riuscì ad estendere la propria influenza anche al vicino Afghanistan, che non era riuscito ad ottenere dagli Stati Uniti quegli aiuti necessari a bilanciare l’attrazione di Mosca4. Nel 1973 la stabilità politica dell’Afghanistan venne scossa quando il principe Mohammad Daoud Khan rovesciò il re. Quando nell’aprile del 1978 Daoud fece arrestare i leader delle due fazioni del Partito Democratico del Popolo Afghano (PDPA), Parcham5 e Khalq, contrarie alle aperture verso la Cina ed i Paesi islamici vicini, le forze filocomuniste all’interno dell’esercito detronizzarono e uccisero Daoud. I leader comunisti formarono quindi un nuovo governo in cui ben presto la fazione Khalq, guidata da Nur Mohammad Tarki e da Hafizullah Amin, prese il sopravvento. Il nuovo governo introdusse un programma di riforme radicale fortemente osteggiato dai militanti musulmani e tribali. Il timore che i consulenti militari sovietici, chiamati a gestire le dilaganti insurrezioni, ordissero una congiura per allontanare Amin dal governo, lo spinse ad arrestare e giustiziare Taraki e a cercare aiuti presso Cina e Pakistan. Preoccupata che la situazione potesse degenerare ulteriormente, nel dicembre 1979, cinque mesi dopo la visita esplorativa del Consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Zbigniew Brzezinski, l’URSS intervenne militarmente in Afghanistan insediando un governo guidato da Babrak Karmal, capo del Parcham, e rimanendo invischiata in un conflitto contro la guerriglia islamista, finanziata dalla CIA e dall’Arabia Saudita, che si trascinerà fino al febbraio del 1989.

Nel 1991 l’Asia Centrale divenne formalmente indipendente dal Cremlino, tuttavia Mosca uscì vittoriosa, almeno nell’immediato futuro, nel riaffermare la propria influenza sulla zona. Infatti, nonostante la politica verso l’estero vicino si fosse rivelata talvolta confusa, le repubbliche indipendenti necessitavano ancora di mantenere forti legami con la Federazione Russa, data l’eredità di sistemi economici e infrastrutturali profondamente integrati.

Con l’elezione di Vladimir Putin nel 2000 si è aperta una nuova fase nella politica estera russa in Asia Centrale, infatti egli è tornato a considerare vitali gli interessi nazionali nell’area. Questi, tuttavia, erano ormai ampiamente minacciati dai costanti tentativi delle cinque repubbliche di affrancarsi da Mosca e dal sempre più incisivo intervento di nuovi attori nell’area: Stati Uniti, Cina e Turchia. Impossibilitata ad adottare una politica imperialista, a causa dell’ambiguo processo di ridefinizione come Stato-nazione, delle difficoltà nella modernizzazione economica e soprattutto militare, e dell’oggettiva maturità degli maggioranza degli Stati post-sovietici, la Federazione Russa ha intrapreso una difficile politica di doppio binario, da un lato promuovendo l’integrazione dell’area e dall’altro rafforzando le relazioni bilaterali con i governi locali.

Sul piano multilaterale le reazioni delle repubbliche asiatiche alle iniziative russe sono state diverse. Il Kazakhstan, a causa della vicinanza e dell’interconnessione infrastrutturale, il Tagikistan ed il Kirghizistan, data la loro debolezza economica e militare, si rivelarono più favorevoli alla politica di Mosca. Al contrario furono restii a partecipare al processo di integrazione il Turkmenistan, che aveva adottato una politica di neutralità positiva, e l’Uzbekistan, che stava tentando di allacciare legami con l’Occidente ed era entrato nel 1999 a far parte del gruppo dei GUAM (Georgia, Ucraina, Azerbaigian e Moldavia), considerato da Mosca un elemento della strategia statunitense per ridurne l’influenza sui Paesi post-sovietici.

Il contesto internazionale era però in mutamento, il terrorismo islamista e la situazione afghana dell’inizio del nuovo millennio costituivano una seria minaccia per i governi dell’Asia Centrale, rafforzando da un lato la necessità di una collaborazione con la Russia per la difesa, dall’altro richiamando l’intervento statunitense nella regione. Nel maggio del 2000 il Trattato di Sicurezza Collettiva (CST) venne rafforzato e dopo due anni ristrutturato con l’istituzione dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO). Se Mosca fu in grado di modernizzare le strutture di sicurezza collettiva, tuttavia dovette fare i conti con l’apertura nel 2001 delle nuove basi statunitensi nei territori uzbeki e kirghisi.

A seguito del rapido aumento della presenza statunitense in Asia Centrale dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, il rischio che essa potesse ridurre il peso russo nell’area venne in parte bilanciato dal malcontento dei governi locali circa le continue sollecitazioni al rispetto dei diritti civili provenienti da Washington e dal suo sostegno indiretto alle “rivoluzioni colorate” del triennio 2003-2005. Ma fu soprattutto la collaborazione con Pechino, che condivideva con Mosca i timori di una troppo scomoda ingerenza statunitense in Asia Centrale, a garantire al Cremlino di mantenere un solida influenza sulla regione. Nel 2001 i capi di Stato di Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan costituirono l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, finalizzata a combattere il terrorismo, il fondamentalismo e il separatismo, nonché a incentivare la cooperazione politica ed economica. Nel corso degli ultimi anni l’Organizzazione di Shanghai si è rivelata un importante attore dell’area, andando a regolare gli interessi dei due maggiori membri, ma ne ha anche evidenziato le contrapposizioni. Mosca e Pechino hanno infatti progetti diversi riguardo al processo di integrazione di Shanghai: da un lato la Russia privilegia la cooperazione in ambito militare e di difesa, dall’altro la Cina vorrebbe invece promuovere la collaborazione economica e commerciale. Il Cremlino è cauto nel sostenere l’ipotesi cinese sapendo di non poter confrontarsi ancora con la competitiva economia del vicino. In tal senso può essere motivata la continua pressione di Putin, nell’ambito dell’EurAsEc, affinché le repubbliche centrasiatiche entrino a far parte dell’Unione Doganale6, che ostacolerebbe ulteriormente il commercio dei prodotti cinesi.

Anche sul piano delle relazioni bilaterali la politica di Mosca si è fatta più sicura, ottenendo alcuni importanti risultati. Nel 2003 la Federazione Russa ha firmato col Kirghizistan un accordo bilaterale per l’istallazione di proprie truppe nella base di Kant, nel 2004 il Cremlino si è assicurato il riavvicinamento dell’Uzbekistan, che ha concluso la partnership strategica con gli Stati Uniti, e, un anno più tardi, ha firmato un accordo di reciproca difesa con la Russia ed è formalmente uscito dal gruppo GUAM; infine, sempre nel 2005, il Tagikistan ha concesso ai russi una base a Dušanbe. Più di recente Mosca si è impegnata, tramite accordi bilaterali con Dušanbe e Biškek, ad investire ingenti somme di denaro in aiuti militari.

Oltre che nell’ambito militare, Mosca punta al mantenimento del suo sostanziale monopolio nel trasporto e nella commercializzazione delle risorse energetiche dell’Asia Centrale. Tale monopolio era garantito dalla rete di infrastrutture, gasdotti e oleodotti ereditati dall’URSS che fanno della Russia un inevitabile Paese di transito. La progettazione di nuove pipeline che bypassino il territorio russo costituisce la principale minaccia, posta dalle potenze occidentali e dalla Cina, agli interessi del Cremlino. Tra il 2006 e il 2007 sono stati costruiti l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhanm (BTC), il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum (BTE), l’oleodotto sino-kazako e il gasdotto sino-turkmeno. Per vincere la partita energetica Mosca sta cercando di rafforzare le relazioni bilaterali con i principali Paesi estrattori e soprattutto di modernizzare ed incrementare le capacità della rete di pipeline di cui dispone. Il principale successo ottenuto dal Cremlino è stato l’accordo siglato nel 2007 con il Kazakhstan e il Turkmenistan che ha garantito il controllo russo sull’esportazioni di gas turkmene, a fronte dell’impegno a modernizzare il gasdotto CAC e di costruirne uno nuovo lungo il Caspio.

La politica estera russa non ha ottenuto solo facili successi negli ultimi anni. Il rischio di destabilizzazione della zona, l’interferenza delle potenze vicine ed i governi locali, sempre più orientati a politiche multivettoriali, hanno spesso frenato il raggiungimento degli obiettivi del Cremlino. Nel dicembre del 2012 si è tenuto ad Ashgabat l’ultimo vertice della CSI, durante il quale la Federazione Russa ha visto posticipare l’ingresso nell’Unione Doganale di Tagikistan e Kirghizistan (il presidente kirghiso Almazbek Atambaev non ha peraltro partecipato all’incontro) e respinta la proposta di unificare i mercati finanziari della regione. Un altro duro colpo alla politica di Putin è stato l’abbandono della CSTO da parte di Taškent lo scorso luglio.

La politica estera russa in Asia Centrale, pur avendo maturato con l’avvento di Putin maggiore consapevolezza dei propri interessi, procede quindi tra alti e bassi in un contesto che la obbliga nello stesso tempo a confrontarsi e a collaborare con i suoi principali competitor. Tra manovre diplomatiche, iniziative di grandi aziende, successi economici e defezioni politiche il paragone con il Grande Gioco ottocentesco è quanto mai calzante, sebbene oggi il Cremlino sia limitato nell’uso dell’hard power rispetto al XIX secolo. Se Mosca vuole quindi mantenere ed accrescere il potere che ha acquisito nell’area nel corso di più di due secoli di storia, dovrà farsi promotrice di una politica pragmatica e profondamente assertiva.

 

 

 

  1. All’Emiro fu permesso di mantenere il trono a condizione che onorasse il trattato che prevedeva oltre ad un indennizzo la cessione ai russi della valle di Zaravsan, essenziale per l’approvvigionamento idrico della capitale. Hopkirk P., The Great Game. On Secret Service in High Asia, Kodansha International, 1992. p. 358.
  2. Ivi pp. 477-479.
  3. Riasanovsky N.V., A History of Russia, Oxford University Press, Oxford, 1984. p. 484.
  4. A metà degli anni ‘50 l’indifferenza degli Usa verso Kabul era dovuta alla decisione dell’amministrazione Eisenhower di includere il Pakistan nei sistemi di alleanza antisovietica di SEATO e del Patto di Baghdad. Re Zahir dell’Afghanistan aveva rifiutato di riconoscere il confine tra i due Paesi quando nel 1947 vi fu il ritiro britannico dall’India ed emise l’unico voto contrario all’ammissione del Pakistan nelle Nazioni Unite. Keylor W.R., A World of Nations, Oxford University Press, Oxford, 2003. p. 387.
  5. Parcham era la fazione filo moscovita del locale Partito comunista, guidata da Babrak Karmal e inizialmente inserita nel governo del principe Daoud. Ivi p. 388.
  6. L’Unione Doganale è stata istituita nel gennaio del 2010 tra Bielorussia, Federazione Russa e Kazakistan. Nel 2011 sia il Tagikistan che il Kirghizistan si sono dichiarati favorevoli ad aggiungersi all’Unione.

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IL G20 RICONOSCE IL FALLIMENTO DEL SISTEMA ECONOMICO MONDIALE PROMOSSO DALL’FMI

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Nell’ultima riunione dell’organizzazione, gli esperti del G20 hanno dichiarato il fallimento dell’attuale modello del sistema economico. Le mobilitazioni della popolazione civile dimostrano, in concreto, l’inefficacia del libero mercato nei diversi paesi sviluppati.  

L’idea del libero mercato e della competizione sfrenata sono stati i migliori propulsori dell’economia e son serviti per tanto tempo come cura di tutti i mali finanziari. Ciò nonostante, la situazione è cambiata non appena la tempesta [della crisi, ndt] è entrata nelle case statunitensi ed europee. Così un gruppo di economisti del G20, analizzando le ultime crepe nell’economia mondiale, ha riconosciuto il fallimento dell’idea dell’autoregolazione dei mercati che si vede di riflessa nelle crisi che passano dagli Stati Uniti e che arrivano fino alla Grecia e alla Spagna.

L’assenza di qualsiasi tipo di controllo provoca una condotta irrazionale da parte di alcuni “giocatori” del mercato: corruzione totale, evasione fiscale e una continua corsa al conseguimento della ricchezza. La principale ragione del fallimento di questo sistema, secondo gli esperti, è che funziona in certi paesi a discapito delle economie di altre nazioni.

Secondo quanto esposto da un gruppo di economisti del G20, è necessaria una riforma immediata del sistema finanziario globale senza alcun procrastinamento, cosa che non era mai stata neppure menzionata quando i problemi erano lontani dalle grandi economie sviluppate.

Per esempio, in Ruanda, dopo due anni di cattivo raccolto, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) offrì i suoi prestiti di denaro solo a condizione che lo stato smettesse di dar man forte alle industrie agricole nazionali, dal momento che era una contraddizione con le regole del libero mercato.

Come risultato si ottenne una caduta drastica del reddito reale della popolazione e come conseguenza ci fu una sanguinosa guerra civile. Si possono trovare molti esempi di paesi con la stessa storia in comune, tra questi, molti fanno parte dell’area Latinoamericana.

“L’FMI è diventato, soprattutto a partire dagli anni ’80, uno strumento per la diffusione delle politiche neoliberali e del monetarismo. I risultati che possiamo apprezzare al giorno d’oggi sono il moltiplicarsi delle bolle speculative, l’esplosione di queste bolle, l’impoverimento di massa, le misure drastiche di austerità contro i popoli e così via …” ha dichiarato lo scrittore Juan Domingo Sánchez nelle sue dichiarazioni a Russia Today.

In seguito ha aggiunto: “Riguardo all’America Latina gli esempi sono molti. Basta pensare all’Argentina di Menem, che fu sottomessa ad un vero saccheggio, una vera e propria razzia”.

 

(Traduzione di: Marco Nocera)

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LE RELAZIONI TRA IRAN E RUSSIA. INTERVISTA AL CONSOLE IRANIANO A KAZAN

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I rapporti e le relazioni tra Iran e Russia, all’indomani del crollo dell’URSS, per via della vicinanza geografica dei due Paesi, dei legami storici, delle caratteristiche economiche e delle altre peculiarietà di queste nazioni, hanno sempre caratterizzato la politica internazionale. Alcune questioni internazionali, sia a livello regionale, sia a livello globale, hanno avvicinato notevolmente i due Paesi creando una comunanza di vedute su molti temi. Per comprendere meglio questi temi abbiamo deciso di contattare il sig. Rasul Shaian, console della Repubblica Islamica dell’Iran presso la città russa di Kazan, e di porgli alcune domande.

 

 

Egregio sig. Shaian, partendo dal presupposto che sono passati due anni dall’inizio del suo incarico a Kazan, come considera le relazioni tra Russia e Iran?

Le relazioni bilaterali si stanno espandendo in vari ambiti, soprattutto in ambito politico, economico, culturale, per le questioni regionali, in Medio Oriente e nello spazio russo-eurasiatico, e lo stesso dicasi per le questioni internazionali e globali. La comunanza di vedute su molti temi ha fatto aumentare le nostre relazioni. Per ciò che concerne poi le prerogative del consolato iraniano a Kazan, debbo dire che noi copriamo i rapporti specifici tra Tehran e 13 regioni e repubbliche della Federazione Russa. Quando due anni fa iniziò il mio mandato, mi accorsi che in queste regioni di nostra competenza non vi era una informazione onesta e veritiera sulla situazione economica della Repubblica Islamica dell’Iran, e ciò soprattutto per la pesante propaganda dei media occidentali, seguiti anche in Russia. Allora abbiamo deciso di pubblicare una rivista (“Bollettino mensile economico”), grazie alla quale, informiamo in modo corretto gli imprenditori e gli enti influenti nelle zone di nostra competenza, e abbiamo organizzato anche dei convegni e degli incontri con varie personalità influenti. Per non dire poi dei viaggi che facciamo in diverse zone di queste 13 repubbliche per informarci e informare, direttamente sul territorio. Discutiamo spesso anche coi presidenti di queste repubbliche della Federazione, soprattutto di temi economici, scientifici, accademici, culturali, artistici. Circa diciotto anni or sono, per via dei legami con la regione di Kazan e del Tatarstan, la Repubblica Islamica decise di intraprendere i negoziati  per aprire il consolato di cui oggi io sono il responsabile. Il consolato quindi è stato aperto ufficialmente nel 2007. Da allora i rapporti bilaterali in tutti i campi si sono espansi notevolmente. In alcuni ambiti però i legami sono molto forti, ed in particolare per ciò che concerne l’acquisto di elicotteri, le collaborazioni in importanti industrie della città di Tabriz in Iran (produzione di camion e tir) e nel settore energetico. Colgo quindi l’occasione per ringraziare anche i miei predecessori e i consoli che mi hanno preceduto a Kazan. Negli ultimi due anni poi, abbiamo avuto un importante viaggio in Iran del presidente della Repubblica del Tatarstan e anche importanti colloqui con il ministro degli esteri iraniano, il dott. Ali Akbar Salehi, per affrontare i temi riguardanti i rapporti bilaterali. D’altronde i responsabili russi nei loro viaggi in Iran hanno visitato anche Asaluieh, nell’Iran meridionale, uno dei più importanti centri e giacimenti di gas naturale nel mondo. Il viaggio della delegazione russa originaria della regione di Kazan, tenutasi nell’autunno del 2011 in Iran, si è poi concluso con colloqui anche col presidente Ahmadinejad.

 

In questi due anni in cui lei è stato console, i rapporti bilaterali su cosa si sono concentrati?

Noi, nei nostri legami con la Russia e con la regione di Kazan in particolare, non abbiamo limitazioni. In molti ambito negli ultimi anni le relazioni sono migliorate, ad esempio posso citare la collaborazione ottima che abbiamo avuto nell’estrazione del rame a Tabriz, con aziende russe che hanno investito molto in quell’ambito. Lo stesso dicasi per il settore energetico e industriale. Indubbiamente le sanzioni occidentali provocano dei problemi, visto che alcune aziende di Kazan hanno dei partner occidentali, e ciò ha un’influenza negativa sulle relazioni tra Russia e Iran. Ma visto lo stretto legame storico che abbiamo, queste politiche non fermano le collaborazioni, e recentemente in una importante fiera a Tehran, concernente la nanotecnologia e il settore dell’alta tecnologia, vi è stata una massiccia presenza di delegazioni del Tatarstan. Queste presenze si moltiplicheranno in futuro per le prossime fiere internazionali, in ambito energetico e non solo.

 

Secondo lei, la vicinanza culturale, storica, religiosa, esistente tra Tatarstan e Iran, che ruolo può avere nel miglioramento costante delle relazioni russo-iraniane?

Come sapete, in passato in questa regione si scriveva usando i caratteri arabo-persiani, e i popoli di questa macroarea sono vicini a noi dal punto di vista religioso. Nel 922 d. C., un certo Ibn ul-Fazlan, di origini iraniche e abitante di Baghdad, si trasferì nel Tatarstan con una delegazione, e diffuse in queste zone la religione islamica, oltre all’alfabeto e ai caratteri arabo-persiani. Questo alfabeto era in uso fino al 1926. In queste zone si sono scritti molti libri in lingua persiana o comunque usando la variante persiana dell’alfabeto arabo. Ancora oggi in molte parole della lingua locale vi sono tracce del persiano, come i giorni della settimana, e altre parole di uso comune. Poi bisogna sottolineare una cosa fondamentale. La nostra visione islamica e quella degli abitanti del Tatarstan è molto vicina, in quanto entrambi siamo contrari all’estremismo e al settarismo massimalista. Tutto questo ha creato un potenziale formidabile per l’espansione dei rapporti bilaterali tra noi e il Tatarstan, base fondamentale per migliorare giorno dopo giorno le relazioni tra Repubblica Islamica dell’Iran e Federazione Russa.

 

Il Tatarstan ha una posizione geografica molto importante e centrale, sia per le comunicazioni via terra, sia per quello che riguarda le linee aeree. Che programmi avete per sfruttare queste potenzialità?

La grande forza del Tatarstan consiste appunto nella sua centralità nella Federazione Russa. Tutto ciò che si deve muovere qui, da est a ovest, da nord a sud, e viceversa, deve passare da questa regione. Inoltre qui abbiamo la possibilità di raggiungere il Mar Caspio attraverso il fiume Volga, e come sapete il trasporto marittimo è più conveniente di altri. Bisogna indubbiamente sfruttare tutto ciò, ma bisogna anche considerare che per alcuni mesi questi tipi di mezzi non sono utilizzabili, viste le condizioni atmosferiche e il ghiacciamento del fiume. Inoltre cercheremo di avviare i negoziati per creare una linea aerea diretta, tra l’Iran e Kazan, affinché i turisti possano viaggiare e conoscere le località meravigliose. A Kazan ci sono bellissime moschee e altri monumenti meravigliosi, e la popolazione ha una cultura molto vicina alla nostra.

 

L’aumento delle relazioni bilaterali tra Russia e Iran, è al centro dei dibattiti tra i dirigenti delle due nazioni; concretamente nel futuro prossimo cosa avete in mente per sviluppare le relazioni, almeno per quello che riguarda la sfera di sua competenza, nella regione di Kazan e nelle zone limitrofe?

Il nostro obiettivo è sempre quello di aumentare le relazioni e di migliorare rispetto allo “status quo”. A dire il vero negli ultimi anni ciò è sempre avvenuto, anche se nelle statistiche ufficiali non vengono riportati tutti gli scambi commerciali. Nella zona di nostra competenza ad esempio posso dire che una parte consistente della frutta, dagli agrumi ad altri tipi di frutta e verdura, sono di origine iraniana, per non dire poi di molti prodotti del nostro artigianato, molto apprezzati qui. Un’altra presenza importante iraniana a Kazan è quelle delle aziende del settore alimentare “halal”.

 

Lei, essendo console della Repubblica Islamica dell’Iran a Kazan, che consigli può dare per aumentare il livello delle collaborazioni tra i due Paesi?

Dobbiamo impegnarci nelle varie commissioni economiche tra Russia e Iran, per alzare il livello della cooperazione, in quanto noi abbiamo legami storici reciproci, ed essendo i nostri Paesi vicini geograficamente, è importante che i legami si rafforzino. In molti temi di politica regionale e mondiale noi abbiamo punti di vista molto vicini, e spero che le relazioni economiche e commerciali possano espandersi ulteriormente. Oggi possiamo dire che le relazioni politiche, scientifiche e culturali sono buone, ma dobbiamo sviluppare ulteriormente le relazioni economiche; ciò è una cosa fattibile. Oggi noi e la Cina abbiamo raggiunto un interscambio commerciale intorno ai 45 miliardi di dollari, e abbiamo importanti legami commerciali con la Turchia. Anche con la Russia possiamo fare lo stesso.

 

Come valuta il futuro delle relazioni tra Iran e Russia?

Io sono ottimista, visto che il potenziale dei due Paesi è enorme, e spero che le imprese iraniane possano venire qui, e vedere da vicino le opportunità per gli investimenti. Questa regione è molto sicura, e sono sicuro che gli iraniani rimarranno colpiti positivamente. La Repubblica del Tatarstan, è abitata da un popolo profondamente spirituale, e le relazioni tra le varie etnie e confessioni religiose sono ottime. Qui vivono circa 4 milioni di persone, e il 53 percento sono di religione islamica; qui i musulmani vivono in pace ed armonia con gli aderenti ad altre confessioni. Inoltre le relazioni tra Iran e Repubbilca del Tatarstan si sviluppano anche grazie ai parlamentari iraniani, che hanno buone relazioni coi parlamentari russi, soprattutto quelli originari di Kazan e delle zone limitrofe. L’anno scorso ci sono state collaborazioni importanti tra vari gruppi parlamentari iraniani e russi.

 

 

 

(Traduzione di A. R. Jalali dal sito in lingua persiana iras.ir)

http://www.iras.ir/vdcjhxe8.uqeaozsffu.html

 

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UN CAPITALE STRATEGICO: LA FALDA ACQUIFERA GUARANI

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Da oltre 4.000 milioni di anni non è cambiata la quantità d’acqua che abbiamo sulla Terra. Il ciclo dell’acqua illustra meravigliosamente la frase di Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.

Il sistema acquifero guaranì, conosciuto fino ad oggi come il terzo più grande serbatoio sotterraneo di acqua dolce del pianeta, comprende quattro paesi sudamericani (Brasile, Paraguay, Uruguay e Argentina) ed è in grado di fornire acqua potabile all’intero pianeta per i prossimi 200 anni.

Il sistema acquifero guaranì, a causa del suo potenziale socioeconomico e strategico, è stato considerato un fiore all’occhiello dei paesi circostanti e di molte imprese  internazionali, che possono beneficiare di grandi affari, e di alcuni paesi sviluppati interessati  all’uso di tali acque.

In assenza di una legge specifica per quanto riguarda l’utilizzo delle acque sotterranee, si è palesata una mancanza di controllo e di vigilanza che ha permesso l’uso irrazionale e il rischio di degrado a causa dell’attività umana al di sopra della falda acquifera o tramite l’eccessivo sfruttamento mediante pozzi abusivi. Con ciò aumenta il rischio di contaminazione della falda acquifera.
Occorre ricordate che l’acqua è un bene pubblico, un diritto umano, patrimonio di tutti gli esseri viventi. Cercare di controllare l’acqua vuol dire cercare di controllare la vita, poiché nessun essere vivente può vivere senza di essa.

Diventa essenziale stimolare politiche educative che consentano una maggiore partecipazione della società civile e delle università per favorire una conservazione più efficace di questa ricca fonte di acqua sotterranea e l’attuazione di politiche pubbliche più adeguate per proteggere le acque sotterranee. Si calcola che per gli attuali 6.250 milioni di abitanti del pianeta sarebbe necessario un 20% in più di acqua. L’acqua si profila quale maggior conflitto geopolitico del  XXI secolo, visto che oggi è una merce rara in Europa e negli Stati Uniti; si prevede che entro il 2025 la domanda di questo bene sarà del 56% superiore alla sua somministrazione e potrebbe essere oggetto di un saccheggio forzato.

In tale contesto, tra tutti gli scenari possibili gli specialisti ne scelgono due. Il primo è basato sull’appropriazione territoriale attraverso l’acquisto di terre provviste di risorse naturali. Il secondo,  per il quale nel futuro e nella peggiore delle ipotesi non si esclude un’ invasione militare.

Questa ipotesi traccia un parallelo con la recente guerra in Iraq e l’attuale appropriazione delle ricchezze irakene da parte delle maggiori società petrolifere statunitensi. Lo scrittore nordamericano Norman Mailer ha aggiunto qualcos’altro: “L’amministrazione di George W. Bush non è stata in Iraq solo per il petrolio, ma anche per l’Eufrate e il Tigri, due fiumi di una delle zone più aride del pianeta”.

La lotta è tra coloro che credono che l’acqua deve essere considerata un bene commerciabile e chi sostiene che è un bene sociale collegato al diritto alla vita.

Dal novembre 2001 la Banca Mondiale, attraverso il GEF (un suo comparto specializzato in questioni ambientali), finanzia le specifiche ricerche e le attività per il raggiungimento dello “sviluppo sostenibile” della falda acquifera. In tal modo i governi coinvolti mettono in mani extranazionali lo studio della risorsa. Organismi tedeschi, olandesi e programmi delle Nazioni Unite hanno partecipato al progetto.

 

La base giuridica internazionale

Il diritto internazionale ci permette di riconoscere che non esiste un vuoto giuridico nelle norme e se esistono norme giuridiche applicabili alla gestione delle risorse naturali condivise, la falda acquifera guaranì è accomunabile a queste. È vero che non abbiamo regole specifiche create ad hoc per il sistema acquifero guaranì. La conseguenza è che non è vero che non abbiamo alcuna norma giuridica applicabile a questo sistema di acque sotterranee, ma anche che, se non abbiamo regole per questo sistema in particolare, sono applicabili le norme generali del diritto internazionale consuetudinario e le norme convenzionali applicabili tra gli Stati in cui si trova la falda acquifera.

Il fatto che la risorsa appartiene ai quattro Stati non significa che si dispone di un condominio sulla risorsa. Questa è una risorsa nazionale soggetta ad un sistema di sfruttamento e di gestione dal carattere multilaterale limitato agli Stati titolari  della risorsa. Non si tratta di un regime di comproprietà, ma di cogestione.

Nell’agosto 2010 i quattro paesi hanno firmato a San Juan, in Argentina, “l’Accordo sulla falda acquifera guaranì”, tenendo conto della risoluzione 1803 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite relativa alla sovranità permanente sulle risorse naturali, della risoluzione 63/124 dello stesso organismo e di altre risoluzioni menzionate nell’accordo.

 

 

Articolo pubblicato sul sito dell’ente di studi in relazioni internazionali Equilibrium Global (http://www.equilibriumglobal.com.ar)

 

Traduzione: William Bavone

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L’ECUADOR SCEGLIE LA “RIVOLUZIONE CITTADINA”

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“Questa rivoluzione non la ferma niente e nessuno”. Con queste parole Rafael Correa ringrazia i suoi elettori, attestati al 56.7% dei votanti, che hanno permesso al Presidente di essere confermato nella propria carica alla prima tornata elettorale. Niente ballottaggio dunque e il consenso appare sempre più simile a un plebiscito, soprattutto se si considera che il secondo risultato migliore si ferma a quota 23,3% – questa la percentuale ottenuta dal partito CREO (Creando Oportunidades), di orientamento liberale, guidato da Guillermo Lasso.

Appare rilevante che in Ecuador il dovere di votare non sia certo un’enunciazione di principio fine a se stessa; i cittadini maggiorenni che decidano di non esercitare il proprio diritto/dovere, si vedono comminare una sanzione, che quest’anno si traduce in una multa di 39,8$ (1). Inoltre è prevista la possibilità di esercitare il diritto di voto volontario per i cittadini che abbiano compiuto il sedicesimo anno di età.

Si può dunque affermare che i risultati elettorali siano davvero specchio della realtà politica nazionale e delle preferenze dell’intera popolazione; il 17 febbraio il popolo ecuadoriano ha scelto, con una maggioranza assoluta, di confermare la fiducia al proprio Presidente Rafael Correa, alla guida del Paese già dal 2007.

Si tratta di un risultato storico per l’Ecuador, Paese in cui l’ instabilità politica e di governo sono state una costante quantomeno negli ultimi quindici anni. Basti ricordare che dal 1996 al 2007 si sono succeduti ben sette Presidenti (2). La conferma di Correa rappresenta una svolta verso la continuità; se portasse a termine il secondo mandato, raggiungerebbe i dieci anni di governo consecutivo. Una tale situazione politica permette certamente al governo in carica di realizzare il proprio programma e di percorrere la linea politica enunciata in campagna elettorale.

Appare fondamentale allora domandarsi quali forze coesive Correa abbia saputo mettere in campo, quali sono le proposte catalizzatrici del suo successo e quale sia la ricetta per un consenso ampio e duraturo.

Correa, capo del partito di ispirazione socialista Alianza Pais, ha saputo consolidare progressivamente il proprio consenso facendosi promotore del programma denominato “Rivoluzione Cittadina” ossia di una strategia complessiva di riduzione della povertà, i cui ambiti di intervento sono trasversali: la crescita economica, l’accesso universale all’educazione e alla sanità, la lotta alla corruzione, l’attenzione all’ambiente, la salvaguardia delle diversità culturali e linguistiche del Paese.

Dopo cinque anni (2007-2012) i risultati sono positivi e il verdetto delle elezioni del 17 febbraio ne conferma il successo popolare. La povertà è diminuita di 12 punti percentuali, anche la povertà estrema si sta riducendo. Un altro capo saldo della politica correista è la dura lotta alla disuguaglianza, che rimane uno degli ostacoli maggiori al benessere delle popolazioni sudamericane. L’America Latina infatti detiene lo storico primato di continente più diseguale del mondo (la Colombia occupa il primo posto). Anche su questo fronte l’impegno dell’attuale governo sembra non essere rilegato ai pochi mesi di campagna elettorale, ma al contrario ha visto l’incremento degli investimenti in alcuni settori cruciali. Uno su tutti quello dell’educazione, in cui la spesa pubblica è passata da 90 milioni di dollari nel 2006 a 763 milioni nel 2011: un incremento di oltre otto volte. Sempre in ambito educativo, grandi sforzi e successi sono stati ottenuti nell’aumento dell’accesso degli indigeni e degli afroamericani in tutte le tappe del processo educativo, dall’educazione primaria all’istruzione superiore (3).

La spinta propulsiva del presidente ecuadoriano e l’entusiasmo dei suoi cittadini non si sono esauriti con il primo mandato. Al contrario, il Presidente ha saputo confermare il consenso della popolazione tramite le trentacinque proposte contenute nel programma di governo per il quinquennio 2013-2017, finalizzato ad approfondire il cambiamento della società per la realizzazione del socialismo del XXI secolo (obiettivo dichiarato dal capo di Alianza Pais). Il programma è un piano di intervento a 360°: sociale, educativo, economico, ambientale.

L’impegno nella lotta alla disuguaglianza, nelle migliorie in ambito educativo e sanitario, riflettono l’istanza di cui il governo si è fatto portatore: la riduzione della povertà. A tale proposito il vicepresidente Jorge Glas si esprime dal Palazzo Presidenziale riconfermando che l’obiettivo di Governo, tramite la Rivoluzione Cittadina, è: “Sradicare il vero nemico, che è la povertà”.

 

Un altro aspetto cruciale del programma di Governo è legato all’approccio verso la politica estera, affrontata in maniera specifica nelle proposte 30 e 31 del programma 2013-2017. Tali punti si riferiscono rispettivamente all’integrazione dei popoli del sud e alla necessità di incrementare l’integrazione regionale.

“Stiamo costruendo la patria piccola, l’Ecuador, e la patria grande, il Sud America”. Queste le affermazioni rilasciate da Correa poco dopo la conferma dei risultati elettorali il 17 febbraio scorso.

Si rafforza dunque il fronte dei presidenti bolivariani in America Latina (ALBA), di cui L’Ecuador è diventato membro il 24 giugno 2009, in occasione del Settimo Vertice dell’Alianza bolivariana para Nuestra America tenutasi a Maracay, in Venezuela. Attualmente tale strumento di integrazione regionale, nato su iniziativa di Chavez (Venezuela) nel 2004, sta aumentando la propria pervasività all’interno del continente anche grazie alla crescita del numero dei suoi membri e che ad oggi sono: Venuezuela, Cuba, Bolivia, Nicaragua, Dominica, Ecuador, San Vicente, Granadinas e Antigua e Barbuda.

Nel testo della Dichiarazione congiunta redatta da Chavez e Castro, istitutiva dell’Alba, si legge che “il principio cardine che deve guidare l’Alba è la solidarietà più ampia tra i popoli dell’America Latina e dei Caraibi […] senza nazionalismi egoisti che neghino l’obiettivo di costruire una Grande Patria nell’America Latina, come lo sognarono gli eroi delle nostre lotte per l’emancipazione”.

In occasione dei risultati elettorali del 17 febbraio ne troviamo un’espressione e la solidarietà politica viene reciprocamente confermata.

Correa dedica il proprio trionfo elettorale a Chavez, appena rientrato in Venezuela dopo aver ricevuto importanti cure mediche a Cuba. Da parte propria, gli altri esponenti bolivariani esprimono le più vive congratulazioni al “compagno” Rafael Correa, nel cui successo individuano la volontà del popolo ecuadoriano di proseguire sulla strada dell’integrazione e della cooperazione regionale. Si parla perfino di “cambio di epoca”, permesso dall’instaurarsi e dal mantenimento di numerosi governi “progressisti e di sinistra”, il cui obiettivo sarebbe il raggiungimento del benessere dei propri popoli e dello sviluppo economico necessario per porre fine alla povertà e ridurre le disuguaglianze (4).

L’ideologia sottostante all’Alleanza bolivariana comprende un netto rifiuto del neocolonialismo, che si esprime tramite la rivendicazione  della sovranità e dell’indipendenza nazionale. Tali principi cardine del diritto internazionale, sedimentati storicamente in ambito europeo, sono stati troppo spesso ignorati in molte parti del mondo; le critiche sudamericane al neocolonialismo statunitense, ma anche europeo, non nascono certo con l’Alba, né si esauriscono in essa.

In questa prospettiva si può leggere anche il noto caso Assange. Rispetto a questo episodio si è recentemente espresso il Presidente Correa, in un’intervista rilasciata alla televisione RT¡Sepa mas! il 18 febbraio. L’ecuadoriano ha affermato che la scelta di accogliere Assange presso la propria Ambasciata a Londra, in attesa degli sviluppi del procedimento giudiziario nei suoi confronti, è un atto di esercizio della sovranità nazionale dell’Ecuador e ribadisce con forza come essa sia una prerogativa di uno Stato indipendente e per la quale l’Ecuador non chiederà il permesso, né si scuserà con nessuno. Comportarsi in maniera differente corrisponderebbe a sottomettersi a una logica di neocolonialismo, che né Correa, né nessun componente dell’Alba intendono permettere. La presa di posizione appare spiccatamente ideologica.

 

Una riflessione di insieme permette di trarre alcune importanti conclusioni.

Il consenso interno di Correa è senza dubbio molto ampio, consistendo in una maggioranza assoluta (in secondo mandato) e distanziando il più diretto avversario di oltre 33 punti percentuali.

A livello internazionale, il Presidente può vantare un forte appoggio da parte degli altri Presidenti bolivariani, che si sostanzia sia tramite accordi economici e commerciali, sia a livello di retorica e comunicazione.

Numerosi sono i risultati ottenuti dalla Rivoluzione Cittadina durante il primo mandato correista, per quanto riguarda la lotta alla povertà e alle disuguaglianze. Bisogna anche segnalare che tali successi vengono costantemente esaltati dalla propaganda del governo. Non possono certo passare inosservate le decine, forse centinaia, di cartelli disseminati sul territorio dell’intero Paese, a ricordare come le infrastrutture di cui si sta facendo uso (in particolare le grandi strade di recente costruzione) siano state finanziate dalla Rivoluzione Cittadina. Lo slogan “¡Avanzamos patria!” è ovunque e a caratteri cubitali. Il medesimo inno viene ribadito da numerose radio; a nessun ecuadoriano è permesso dimenticare o ignorare la Rivoluzione Cittadina e i suoi successi.

 

 

*Rachele Pagani, laureanda in Diritti dell’uomo ed etica della cooperazione internazionale, presso l’Università degli Studi di Bergamo

  

 

1  Cfr. www.eleccionesenecuador.com

2  Cfr. Www.ecured.cu

3 Per dati e grafici relativi ai risultati della Rivoluzione Cittadina cfr il documento Cien logros de la Revolucion Ciudadana

4  Cfr.Www.alianzabolivariana.org

 

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L’IDEA GEOPOLITICA DEI COMUNISTI RUSSI

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Lo scorso 25 febbraio è andato in archivio il XV Congresso del Partito Comunista della Federazione Russa. L’intero corpo congressuale, composto dalla Segreteria Generale, dal Comitato Centrale e dai delegati delle federazioni locali, ha riconfermato all’unanimità Gennadij Zjuganov alla guida del partito, secondo un copione ormai piuttosto consolidato. Tuttavia l’evento ha attirato un’attenzione particolare. La stampa russa, come di consueto, ha dedicato ampio spazio al Congresso di quello che è ancora oggi il secondo più grande partito del Paese, forte di 92 seggi alla Duma di Stato e dotato di una struttura istituzionale, associativa e giovanile pressoché unica in un panorama politico nazionale dove, molto spesso, i partiti risultano “leaderistici”, “oligarchici” o sono meramente collegati a pochi nomi di peso della politica, della cultura o dell’economia. Il partito di governo “Russia Unita” esiste unicamente in funzione dell’attività politica e della presenza carismatica del presidente Vladimir Putin, il partito “Russia Giusta”, guidato da Sergeij Mironov, nasce dalla fusione tra alcuni partiti popolari e socialisti minori e alcune componenti del vecchio partito social-nazionalista “Rodina” (col malcelato scopo di erodere una parte del consenso comunista), mentre il Partito Liberaldemocratico è un contenitore vuoto quasi unicamente messosi in luce grazie alle bizzarrie televisive del nazionalista Vladimir Žirinovskij. Fuori dal Parlamento, spuntano una miriade di partiti e movimenti minori tra i quali Jabloko (liberale) di Sergeij Mitrokhin e il Fronte di Sinistra (sinistra radicale) di Sergeij Udaltsov, più volte arrestato dalle autorità per violenze e attentati all’ordine pubblico. Il Partito Comunista della Federazione Russa è, al contrario, l’ultimo vero partito tradizionale presente in Russia.

 

 

DA SERGEIJ SEMANOV AL “COMUNISMO PANRUSSO”

Unico erede di rilievo della tradizione politica, ideologica ed istituzionale dell’Unione Sovietica, la stampa occidentale si era occupata con particolare attenzione di Gennadij Zjuganov già nel 1996 quando, da candidato presidente, sfidò Boris Eltsin perdendo un confronto che, a detta di molti, fu pesantemente segnato da brogli elettorali. Dopo aver ricostruito un partito di massa dalle ceneri della dissoluzione sovietica, il Partito Comunista della Federazione Russa ha raccolto attorno a sé gli ambienti legati ad un variegato insieme ideologico e culturale definito posteriormente con il nome di “partito russo”. Si trattava di un movimento non-ufficiale, trasversale agli organi istituzionali, sorto in Unione Sovietica durante gli anni Sessanta e composto da personalità di spicco del PCUS, dell’Armata Rossa, della lega giovanile comunista del Komsomol, dei sindacati e dei circoli scientifici, artistici e letterari. Il filo comune che connetteva questo movimento a vasti strati della popolazione e dei militanti di base era un sostanziale ribaltamento teorico rispetto al dogmatismo ideologico di alcuni intellettuali e quadri intermedi: anteporre il rafforzamento del sistema statale russo al consolidamento del socialismo e alla sua evoluzione verso il comunismo1. Sul finire degli anni Sessanta, le posizioni espresse dal cosiddetto “partito russo” acquisirono un’ampia eco grazie a riviste come Oktjabr, Ogonëk, Moskva, Žurnalist, Naš Sovremennik e, soprattutto, il mensile del Komsomol, Molodaja Gvardija2.

Durante l’era Brežnev, le alte gerarchie del potere sovietico si mantennero per lo più equidistanti da entrambe le tendenze e spesso sembravano muoversi nel mezzo, sospese tra un orientamento e l’altro, in un’incertezza ideologica e politica che venti anni più tardi sarebbe risultata fatale per le sorti di un Paese ormai vittima del revisionismo storico e del cosiddetto “auto-sciovinismo”, cioè della lugubre e drammatica autoconvinzione di una propria presunta inferiorità rispetto all’Occidente.

Nell’agosto del 1970 proprio il mensile Molodaja Gvardija fu al centro di un’aspra polemica, scoppiata in seguito alla pubblicazione del saggio Valori Relativi e Valori Eterni. L’autore, l’intellettuale Sergeij Semanov, fu accusato di aver esaltato l’era staliniana e di aver descritto l’Unione Sovietica in termini di “potenza imperiale”3. L’articolo aveva destato evidenti preoccupazioni tra quei quadri del PCUS maggiormente orientati verso l’apertura della società sovietica e la normalizzazione dei rapporti con l’Occidente, pronti ad utilizzare strumentalmente la retorica marxista-leninista per condannare quelle posizioni. Del resto, l’operazione di rivisitazione teorica portata avanti dal “partito russo” era evidente: l’internazionalismo proletario fu integrato dallo spirito di fratellanza universale dell’uomo russo esaltato da Dostoevskij4; lo scontro mondiale tra capitalismo e socialismo fu parzialmente reinterpretato come momento dell’eterna lotta tra la spiritualità russa e il “materialismo borghese” del mondo occidentale, secondo i parametri sintetizzati nell’idea slavofila di Ivan Kireevskij e Alekseij Chomjakov5; l’obiettivo della scomparsa delle classi sociali nella fase di transizione verso il comunismo fu integrato nell’escatologia comunitaria slavo-ortodossa contenuta nel concetto di sobornost’6.

È dunque facile capire come il cosiddetto “fenomeno Zjuganov” non costituisca un’anomalia o una stravagante rielaborazione in termini teorici rispetto alla storia sovietica né, per dirla con termini eltsiniani, una “degenerazione rossobruna” rispetto ad un paradigma storico-politico che in realtà non fu mai adeguatamente conosciuto e approfondito in Occidente durante la Guerra Fredda. La positiva affermazione elettorale del Partito Comunista della Federazione Russa alle ultime elezioni parlamentari (20% dei consensi) e la completa messa in minoranza dei partiti più dogmatici (VKPB, RKRP, RPK), hanno spiegazione proprio nella formazione socio-culturale della popolazione dei Paesi ex sovietici, dove a partire dal 1991 le tematiche relative alle tradizioni religiose e popolari hanno assunto un significato estremamente importante in termini politici. Circa dieci anni fa il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko, ex membro del PCUS ed ex ufficiale dell’Armata Rossa, ha firmato un accordo di cooperazione con la Chiesa Ortodossa di Minsk destinando parte dei progetti giovanili di Stato alla manutenzione e al restauro dei monumenti e degli edifici dall’alto significato patriottico e spirituale. Il presidente kazako Nursultan Nazarbaev, ex segretario generale del Partito Comunista della RSS del Kazakhstan, ha annunciato molti anni fa di aver sempre professato la fede musulmana e di voler fare del suo Paese un luogo di dialogo e di incontro la civiltà cristiana e quella islamica, come ben delineato nel discorso che ha tenuto durante il vertice dei Capi delle Religioni Tradizionali del mondo svoltosi ad Astana nel 2011. Nel novembre del 1992, Eduard Shevardnadze, ex ministro degli Esteri dell’URSS ed ex presidente della Georgia, annunciò alla stampa il suo battesimo e la sua conversione al cristianesimo ortodosso di rito georgiano7.

Crollate le certezze dell’ideologia ufficiale del PCUS e smarriti i punti di riferimento collettivi dell’era precedente, l’appiglio sociale per gran parte della popolazione dell’ex Unione Sovietica sarebbe stato costituito dall’eredità culturale presovietica. Un processo politico e culturale del tutto naturale portò dunque il Partito Comunista della Federazione Russa a rafforzare presso l’opinione pubblica la convinzione secondo cui proprio la sconfitta storica del “partito russo”, sancita dalla perestrojka e dal golpe fallito del 1991, aveva determinato la deflagrazione dell’URSS e l’ascesa di Boris Eltsin alla guida della neonata Federazione Russa. Secondo Gennadij Zjuganov, la mancanza di una chiara ridefinizione dell’assetto dello Stato in termini teorici ed il revisionismo adottato nei confronti dell’operato di Stalin a partire dal 1956, avevano provocato un vuoto ideologico e culturale che ormai nemmeno il pur presente richiamo al patriottismo era in grado di colmare. Scriveva Zjuganov nel 1994: «La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha dimostrato, indubbiamente e nitidamente, che l’ideologia denazionalizzatrice dei tempi della ‘stagnazione’ non è stata in grado di opporsi agli influssi distruttori e antistatali, ostili alla forza della Russia […] Le ragioni di quanto è successo sono sotto gli occhi di tutti. Lo stato si è dissolto perché si sono dimenticate le plurisecolari e profonde radici che sono state il fondamento dell’unità statale, culturale e religiosa di tutto il popolo»8. L’Unione Sovietica sarebbe dunque crollata perché incapace di focalizzarsi sulla sua peculiare matrice integrativa eurasiatica e sui principi geopolitici e geoantropici fondanti della storia imperiale russa. L’assenza di una chiara e definita “idea russa” in seno al socialismo sovietico non aveva perciò semplici ripercussioni di carattere estetico e folkloristico, ma pesantissime implicazioni sul piano strettamente politico, strategico ed economico. Il primo compito del Partito Comunista della Federazione Russa è stato pertanto quello di ridefinire a posteriori l’esperienza sovietica come una forma di civiltà inserita nel contesto della Russia storica, riconsiderando tutta una serie di autori e intellettuali del XVIII e del XIX secolo, senza dimenticare il contributo di Lev Nikolaevic Gumilëv, l’etnografo pietroburghese che ispirò la nuova scuola eurasiatista russa degli anni Novanta.

 

 

CAPOVOLGERE BELOVEŽA CON LO SGUARDO ALLA CINA

La decentralizzazione del potere avviata dalla Dottrina Sinatra di Mikhail Gorbacëv ha ben presto rivelato la sua natura distruttiva, traducendosi nella definitiva disintegrazione dell’Unione e nella separazione stabilita durante gli accordi di Beloveža. Ribaltando i risultati del referendum indetto nel marzo 1991, dove il 76,4% degli elettori si dichiarò favorevole alla conservazione di un’Unione riformata, le dirigenze politiche affermatesi nella fase della glasnost’ a Mosca, Minsk e Kiev si riunirono nel dicembre dello stesso anno e dichiararono la fine di ciò che restava dell’Unione Sovietica.

Zjuganov sostiene che senza l’Unione la Russia non è tale e non può essere considerata uno Stato di pieno valore, perché «parlando propriamente, la Russia è quell’ampia Unione che si è formata nel corso dei secoli e che ha raggiunto circa cento anni fa (fine del XIX secolo, ndt) i propri confini geopolitici naturali»9. Secondo i piani previsti da Zjuganov, la riunificazione, su basi volontarie, dovrà avvenire tra i «tre popoli fraterni» della «Grande Russia, della Piccola Russia e della Russia Bianca», ovvero tra le popolazioni di Russia, Ucraina e Bielorussia che condividono quasi interamente le stesse origini slavo-orientali e ortodosse.

Il Partito Comunista Ucraino, guidato da Pëtr Simonenko e risalito al 15% dei consensi proprio nel 2012, prevede un percorso di ripristino paritario del bilinguismo (ucraino e russo) e l’adesione del suo Paese alla già esistente Unione Doganale formata da Russia, Bielorussia e Kazakhstan. Nel programma del partito è esplicitamente sostenuto che: «La lezione derivante dal ventennio 1960-1980 dovrebbe essere quella in base a cui non sono state prese misure sufficienti per fermare la sovversione delle potenze imperialiste e i loro agenti in URSS. È stato sottovalutato il pericolo borghese del nazionalismo sciovinista, in particolare in Ucraina. Guidati e sostenuti dai servizi segreti delle potenze imperialiste, le forze dislocate tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta hanno avviato ingenti attività per cancellare il potere sovietico in Ucraina e per provocare il crollo dell’URSS e la separazione dell’Ucraina dalla Russia, cioè uno degli scopi principali dell’imperialismo»10. Il Partito Comunista Bielorusso, guidato da Igor Karpenko e presente in parlamento tra i banchi della maggioranza che sostiene il presidente della Repubblica Aleksandr Lukašenko, è stato indebolito dalle divisioni interne ma continua a svolgere un ruolo importante nel quadro politico-sociale del Paese. Nel suo programma viene ribadito che «il corso della storia rivela come la genesi del valore spirituale dei bielorussi ha avuto luogo nel contesto della mentalità slava orientale […] ciò ha determinato la tendenza al principio dell’organizzazione collettiva del lavoro e il suo contributo alla vita. Vale a dire che l’identità slavo-russa dei bielorussi è chiaramente evidente dal loro desiderio di unirsi con la Russia»11. Sia Simonenko che Karpenko erano presenti al XV Congresso del Partito Comunista della Federazione Russa e hanno ribadito la solida alleanza dei tre partiti, che ricalca in linea di massima i progetti economici, tecnologici e strategici già sussistenti tra i tre Paesi (Unione Doganale, Unione di Stato Russia – Bielorussia, Accordi di Sebastopoli ecc. …), conferendo loro maggior forza politica, ideologica e culturale qual’ora le istanze da essi promosse dovessero affermarsi definitivamente.

Il generale italiano Carlo Jean suddivide la nuova scuola geopolitica russa in tre distinti filoni12. Il primo sarebbe quello europeista o atlantista, dominante durante la fase gorbacioviana, ispirato al riformismo di Pietro il Grande, secondo cui la Russia dovrebbe guardare agli Stati Uniti e all’Europa per fuoriuscire dalla sua arretratezza in termini tecnologico-industriali. Il secondo sarebbe quello panslavo o “eurasista nazionalista”, dove la Russia viene inquadrata come centro di una civiltà eurasiatica, unica ed irriducibile, espressione del mito della Terza Roma, contrapposta alle potenze della NATO e a qualunque progetto di integrazione occidentale del Paese, spostando dunque il baricentro della nazione verso Est poiché «la Russia non ha conquistato la Siberia; è stata creata dalla Siberia»13. Il terzo sarebbe quello “eurasista internazionalista”, che intende il concetto di Eurasia in senso più ampio coinvolgendo anche Cina, India e Iran nella lotta contro l’intromissione anglo-americana nel continente.

Malgrado la forte unità politica tra i partiti comunisti delle tre repubbliche “sorelle” della Russia, dell’Ucraina e della Bielorussia e nonostante il fatto che Jean consideri uno dei testi fondamentali di Gennadij Zjuganov, ossia Geografia della Vittoria. I fondamenti della geopolitica russa, come la massima espressione del secondo filone, cioè quello panslavo, in realtà la visione geopolitica del Partito Comunista della Federazione Russa non è riducibile ad un ristretto panslavismo ma unisce nei propri documenti politici alcuni elementi del secondo e del terzo filone, adeguatamente adattati alla dialettica e alla prassi di un partito che resta, almeno nelle sue basi, un movimento di ispirazione leninista. L’internazionalismo socialista viene infatti ancora considerato da Zjuganov un parametro fondamentale nell’analisi geopolitica del pianeta e nello studio politico, economico e militare dell’imperialismo, secondo la declinazione operata da Stalin ne I Principi del Leninismo in base alla quale la natura dello scontro di classe tra forze capitalistiche e forze socialiste assume significati diversi in relazione alla funzione geopolitica svolta dai singoli Paesi nell’arena internazionale.

Inoltre l’idea di un fronte “eurasiatico” di Paesi non-allineati alla NATO composto da Russia, Cina e India non è di esclusiva pertinenza del filone neoeurasiatista né tanto meno rappresenta una novità recente nel dibattito strategico nazionale dal momento che fu addirittura introdotta alla fine degli anni Novanta dall’ex primo ministro Evgenij Primakov, al quale potrebbe persino essere attribuita la primogenitura teorica del cosiddetto gruppo dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), poi divenuto BRICS con l’integrazione del Sud Africa. Infine, la Repubblica Popolare Cinese è stata spesso considerata da Zjuganov un fondamentale interlocutore politico col quale i comunisti russi avrebbero dovuto recuperare il dialogo interrotto bruscamente dalla crisi sino-sovietica degli anni Sessanta e Settanta. Già nel 1998 Gennadj Zjuganov rimarcò:«Con la Cina abbiamo il più lungo confine in comune, circa seimila chilometri di frontiera, e vogliamo avere con essa anche ottimi rapporti di vicinato a lungo termine. La Cina è un partner strategico indispensabile a Oriente, un Paese che ospita sul proprio territorio un miliardo e duecento milioni di persone e che è già entrata nella trojka delle più grandi potenze mondiali. Il mio partito è molto sensibile ai rapporti tra i due Paesi e ci stiamo dando molto da fare per intesserne degli altri»14. Secondo il politico russo, in particolare, la vera arma segreta che ha permesso al Partito Comunista Cinese di mantenere una sostanziale stabilità interna sarebbe stata proprio la capacità – riassunta nella formula del “socialismo con caratteristiche cinesi” – di abbinare le caratteristiche culturali tradizionali con il marxismo evidenziando una duttilità notevole anche per quanto concerne l’integrazione tra le diverse forme di proprietà (pubbliche e private) ed impedendo al contempo che il ruolo dominante dello Stato e la funzione sociale dell’economia fossero messi in discussione15.

 

 

POTENZIARE LA DIFESA

Elemento ricorrente in tutto il pensiero geopolitico dei comunisti russi è l’esercito. Non è un caso che il XV Congresso sia cominciato il 23 febbraio, ovvero nel giorno dei Difensori della Patria (Den’ Zaščitnika Otečestva), una ricorrenza nazionale che celebra la data del primo arruolamento nelle file dell’Armata Rossa, avvenuto il 23 febbraio 1918. Il Partito Comunista della Federazione Russa ha sempre cercato di rappresentare un baluardo di riferimento politico per le Forze Armate, al punto che non pochi ufficiali di medio e alto grado sono iscritti al Partito. Nel documento congressuale pubblicato pochi giorni prima dell’avvio dei lavori, la denuncia dell’atavica corruzione interna al sistema federale russo, sempre più difficile da estirpare, non ha tuttavia risparmiato il comparto difensivo nazionale, recentemente sconvolto dallo scandalo legato alla società Oboronservice. Le critiche all’ex ministro della Difesa Anatolij Serdjukov e alla sua controversa riforma militare hanno evidenziato l’attenzione che il Partito Comunista dedica all’esercito.

L’analisi del corso postsovietico intrapreso dal pianeta e dalla Russia è spietata. Secondo Zjuganov, dopo il 1991 l’espansionismo verso Est della NATO ha dimostrato definitivamente la vera natura imperialista degli Stati Uniti e dei loro alleati. Dopo la conclusione della Guerra Fredda, la NATO non soltanto non è mai stata smantellata ma ha addirittura spostato i confini della sua area geostrategica di ben 1.000 km verso Est, accerchiando la Russia da Nord (Mar Baltico) e da Sud (Mar Nero). Se l’Ucraina e la Bielorussia dovessero essere nuovamente sconvolte da moti politici esterni o interni – sanzioni, pressioni internazionali, rivoluzioni colorate, golpe o ribaltamenti politici – esiste la seria possibilità che anche questi due Paesi possano avviare iter di integrazione nella NATO, senza considerare quelli relativi alla Finlandia e alla Georgia, già in fase di dibattimento presso il Consiglio dell’Alleanza Atlantica. A quel punto la Federazione Russa sarebbe completamente accerchiata lungo tutti i suoi confini occidentali. Inoltre, secondo quanto emerge dal documento congressuale del Partito, «gli Stati Uniti e i loro alleati stanno velocemente sviluppando nuove tipologie di armi, compresi i sistemi antimissile e le strumentazioni d’attacco ipersoniche […] la forza delle truppe dell’Alleanza nel teatro europeo è quantificabile in un volume 10-12 volte più grande di quello dell’Esercito Russo»16.

La decisione di alcuni governi europei, tra i quali anche l’Italia, di stabilire nuovi piani di riassetto strategico e militare ha dimostrato che la crisi economica non impedisce il massiccio riarmo ai Paesi occidentali e lascia supporre che i sacrifici cui i popoli europei sono e saranno chiamati attraverso la cosiddetta politica di “austerità” serviranno proprio a questo, come intuibile anche dalle frasi di circostanza con cui Robert Gates e Leon Panetta hanno presentato la dottrina della Smart Defense tra il 2011 e il 2012. Il documento del Partito Comunista della Federazione Russa lamenta con seria preoccupazione un’evidente sproporzione di forza tra la Federazione Russa e la NATO: «L’Aviazione Russa possiede circa 1.500 aeroplani intercettori e di prima linea. Ma solamente un po’ più della metà di questi possono svolgere e compiere le loro missioni di combattimento. La flotta dell’Aviazione Militare ha non più di 1.330 elicotteri da combattimento e da trasporto. Al contrario, l’Aviazione della NATO detiene circa 4.000 cacciabombardieri e più di 9.000 elicotteri. Soltanto circa il 30% della già modesta flotta dell’aviazione di lungo-raggio (denominazione che indica l’aviazione strategica in URSS e in Russia, ndt) è idoneo al volo. Tra i gravi problemi vi sono carenze catastrofiche di motori, un insignificante numero di aerei da rifornimento, la mancanza di campi d’aviazione operativi nella regione artica e la loro copertura dai possibili attacchi aerei e spaziali. Tutto ciò porta la capacità dell’aviazione strategica vicino allo zero»17.

Nello scorso mese di dicembre, una delegazione del Partito ha chiesto ed ottenuto un’urgente incontro a porte chiuse con il nuovo ministro della Difesa Sergeij Shoigu. Il contenuto di quella conversazione è ovviamente sconosciuto ma le parti si sono dette soddisfatte del confronto. Non è difficile ipotizzare cosa potrebbe aver richiesto la delegazione capeggiata da Zjuganov in quel vertice. Come ribadisce il documento congressuale: «Il Partito Comunista della Federazione Russa sta sostenendo con decisione il rafforzamento della capacità difensiva del nostro Paese. I nostri deputati stanno lavorando con solerzia su questo in Parlamento. I nostri compagni hanno un ruolo attivo nelle discussioni alla Duma di Stato sulle questioni relative alle Forze Armate e all’industria della difesa. Il Partito Comunista della Federazione Russa ha avviato una serie di dibattiti e tavole rotonde all’interno del Parlamento coinvolgendo parecchi esperti militari. I problemi di tutti i reparti militari sono stati discussi e valutazioni professionali sullo stato delle Forze Armate sono state intraprese. Specifiche raccomandazioni sulle vie da percorrere per migliorare le condizioni attuali sono state fornite»18.

 

 

 

 

 

NOTE:

 

1. R. Medvedev, La democrazia socialista, Vallecchi, Firenze, 1977, p. 105.

2. Ibidem, p. 63.

3. Ibidem, p. 105.

4. A. Walicki, Una utopia conservatrice, Einaudi, Torino, 1973, p. 541.

5. W. Giusti, Il panslavismo, Bonacci Editore, Roma, 1993, pp. 52-53.

6. Si veda M. Costa, Soviet e Sobornost. Correnti spirituali nella Russia Sovietica e Postsovietica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2011.

7. Ocala Star-Banner, Shevardnadze claims Christian religion, 24 novembre 1992.

8. G. Zjuganov, Stato e Potenza, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1999, pp. 64-65.

9. Ibidem, p. 106.

10. Komunistychna Partiya Ukrayiny, Programma, 2013.

11. Komunistychnaya Partyia Belarusi, Programma, 2013.

12. C. Jean, Manuale di Geopolitica, Editori Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 224-227.

13. F. Thom, Eurasisme et néo-eurasisme, 1994, p. 308.

14. G. Zjuganov, Così rifaremo l’Urss, intervista di M. De Bonis, Limes n. 4/1998.

15. CNC World, Interview of Gennady Zyuganov – China’s Development Experience, 26 ottobre 2012.

16. Partito Comunista della Federazione Russa, Rapporto Politico del Comitato Centrale al XV Congresso del PCFR, Mosca, Febbraio 2013.

17. Ibidem.

18. Ibidem.

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I DUE GIGANTI ASIATICI SULL’ORLO DI UNA CRISI DIPLOMATICA

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Le isole Senkaku (o Diaoyutai secondo i Cinesi), sono un arcipelago di cinque isole situate nel Mar Cinese orientale, all’interno di un’area pari a 7 km²; oggetto di una disputa territoriale che contrappone il Giappone, la Repubblica Popolare Cinese e Taiwan, esse si trovano attualmente sotto la giurisdizione giapponese.

La controversia ha acquisito maggiore importanza sulla scena internazionale con la fine della guerra fredda, ma le origini del conflitto risalgono al XIX secolo. Per comprendere a fondo la questione è quindi necessario indagarla innanzitutto dal punto di vista storico, analizzando le differenti tesi presentate dagli antagonisti. Secondo la versione di Tokyo, il Giappone ha acquisito la sovranità delle isole nel 1895, in seguito alla vittoria nel primo conflitto sino-giapponese, in osservanza delle norme del diritto internazionale che riguardano l’occupazione di terre disabitate. I rilievi effettuati avevano infatti confermato che le isole erano disabitate e che non erano mai state sotto l’autorità cinese. Nel 1945, in seguito alla sconfitta giapponese nella seconda guerra mondiale, le isole furono poste sotto l’amministrazione degli Stati Uniti, pur rimanendo formalmente soggette alla sovranità giapponese.

La controversia si riaccese con maggior vigore nel 1969, quando la Commissione economica e sociale per l’Asia e il Pacifico delle Nazioni Unite identificò potenziali riserve di petrolio e gas in prossimità delle isole. Nel ’72, in osservanza del Trattato di pace di San Francisco del ’51[1], le isole tornarono sotto il controllo dell’amministrazione giapponese. Ma la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica di Taiwan non riconobbero la sovranità giapponese sulle isole, non essendo firmatarie del trattato di pace e non riconoscendone quindi la validità.

Taiwan protestò ufficialmente contro gli Stati Uniti per l’assegnazione delle Senkaku al Giappone e gli Stati Uniti si mantennero formalmente neutrali, affermando che non vi erano state pronunce sul diritto di sovranità, ma che era solo stato restituito a Tokyo il diritto di amministrazione.

La sovranità sulle isole garantirebbe il diritto esclusivo di sfruttamento delle riserve di gas e olio minerale, nonché il controllo sulle rotte nautiche della zona. È chiaro che la controversia presenta un aspetto economico rilevante, poiché secondo le stime più recenti al largo del Mar Cinese Orientale si troverebbero ingenti riserve di petrolio,stimate pari a 100-200 miliardi di barili, che assicurerebbero risorse energetiche ad entrambi i paesi almeno per i prossimi 50 anni[2].

Nel settembre dello scorso anno, l’ex Primo ministro giapponese Yoshihiko Noda ha nazionalizzato tre delle cinque isole dell’arcipelago, riaccendendo la crisi diplomatica. La Cina ha denunciato il carattere anticinese di tale mossa, che mira a rafforzare il controllo dell’arcipelago da parte di Tokyo.  Il governo giapponese sostiene invece che l’atto di acquisizione territoriale rientra in un normale trasferimento di proprietà da un privato allo Stato ed è conforme quindi alle leggi del paese.

Col crescere delle tensioni, nello scorso dicembre velivoli giapponesi e cinesi hanno sorvolato contemporaneamente gli spazi aerei sovrastanti le isole. La situazione ha messo in allarme il governo statunitense, che ha assunto il ruolo di intermediario. Gli Stati Uniti tuttavia non possono esercitare un semplice ruolo di mediazione, essendo vincolati al Giappone da un Trattato di sicurezza sottoscritto nel ’60. L’articolo 5 del trattato prevede infatti l’intervento militare statunitense nel caso in cui Tokyo subisca un attacco armato.

È chiaro che gli Stati Uniti guardano con particolare attenzione alla situazione del Pacifico, ipotizzando il loro ingresso in un eventuale conflitto armato, nonostante abbiano sempre affermato di non volersi pronunciare sul diritto di sovranità e di non voler entrare nel merito della controversia.

Lo scorso 30 gennaio, stando a fonti militari giapponesi, una nave militare cinese avrebbe navigato per 14 ore nelle acque che circondano l’arcipelago. Il Giappone ha parlato di un’intrusione “assolutamente inaccettabile” e ha prontamente convocato l’ambasciatore cinese.

La disputa assume quindi una rilevanza fondamentale sul piano della sicurezza, potendo influire sugli equilibri geopolitici della regione nel caso di un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti.

Attualmente gli effetti più negativi si stanno registrando dal punto di vista economico. Diverse aziende giapponesi operanti in Cina hanno deciso infatti di sospendere la produzione dopo le proteste esplose nel paese e dopo i ripetuti inviti al boicottaggio contro i prodotti provenienti dal Giappone.

In seguito agli episodi degli ultimi mesi la rottura diplomatica sembra essere sempre più vicina e il ruolo degli Stati Uniti appare più determinante.

Lo scorso 22 febbraio il presidente degli Stati Uniti si è incontrato con il Primo ministro giapponese Shinzo Abe, allo scopo di rafforzare l’alleanza con gli Stati Uniti sia dal punto di vista economico sia della sicurezza. Lo stesso Abe, in un’intervista rilasciata al “Washington Post” prima della partenza, ha affermato che l’incontro bilaterale con gli Stati Uniti è di fondamentale importanza per il futuro equilibrio in Asia. Durante l’incontro il primo ministro giapponese, Abe ha riaffermato di non essere disposto a tollerare attacchi da parte cinese sull’arcipelago delle Senkaku, e che qualsiasi attacco provocherebbe inevitabilmente l’alleanza difensiva del  Giappone con gli Stati Uniti, evocando in tal modo un conflitto dalle proporzioni inimmaginabili.

Nonostante i toni diplomatici, Abe ha sostenuto la sovranità giapponese sul territorio ed ha presentato l’alleanza tra Giappone e Stati Uniti come un fattore di stabilità per l’intera regione.  Anche il presidente Obama si è ancora una volta dichiarato “neutrale” circa la disputa territoriale nella regione, ma ha sostenuto la sovranità giapponese sulle isole.

In ogni caso, la controversia evidenzia la sempre maggior fermezza con cui la Cina difende le proprie rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Orientale.

 

 


[1] Trattato sottoscritto a San Francisco l’8 Settembre 1951 da 49 Paesi firmatari della pace con il Giappone. Con questo trattato inizia formalmente il protettorato degli Stati Uniti sul Giappone e viene sancita la fine della Seconda Guerra Mondiale in Asia.

[2] http://www.policymic.com/articles/11175/senkaku-islands-dispute-pushes-japan-and-china-closer-to-war-and-america-may-get-sucked-in

 
http://www.washingtonpost.com/world/japans-prime-minister-shinzo-abe-chinese-need-for-conflict-is-deeply-ingrained/2013/02/20/48adbc80-7a87-11e2-9a75-dab0201670da_story.html

 
http://www.economist.com/news/leaders/21569740-risks-clash-between-china-and-japan-are-risingand-consequences-could-be

 
http://www.globalsecurity.org/military/world/war/senkaku.htm


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INFORMAZIONE, COMUNICAZIONE E CULTURA. COSÌ PECHINO SFIDERÀ L’EGEMONIA STATUNITENSE

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Uno dei più importanti strumenti nelle relazioni internazionali dei nostri giorni è il soft-power e in generale tutto quanto collegato alla sfera della comunicazione e dell’attrattiva culturale. A partire dalla fine degli anni Ottanta, l’informazione e la comunicazione sono diventati fattori sempre più importanti all’interno delle strategie politiche delle maggiori nazioni. Molti analisti sono soliti riferirsi alla Guerra del Golfo come all’inizio di una nuova epoca. Per la prima volta nella storia dell’umanità, infatti, una guerra fu completamente filmata e proposta dal vivo in diretta televisiva. Il significato del termine “guerra simultanea” divenne immediatamente chiaro, non soltanto per la contemporaneità tattico-operativa tra le tre classiche dimensioni del conflitto moderno (terra, aria e mare) ma anche per l’integrazione, sempre più evidente, tra la guerra e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). Come per qualsiasi trasformazione nell’alveo del pensiero strategico, anche in quel caso la pratica anticipò la teoria e le nuove condizioni storiche produssero una delle più discusse teorie dei nostri tempi: quella del network-centric warfare.

Nel loro libro del 1999 Network-Centric Warfare. Developing and Leveraging Information Superiority, David Alberts, John Gartska e Fred Stein definirono l’era informatica come un’era dove «le armi non sono i soli strumenti del potere», poiché «l’informazione, come si è spesso osservato, è potere […] le tecnologie informatiche stanno oltremodo migliorando la nostra capacità di acquisire e memorizzare dati, elaborandoli ed analizzandoli per creare informazione e distribuirla su larga scala». In poche parole, «l’informazione si sta trasformando da prodotto relativamente raro in uno abbondante;  da bene costoso sta diventando assolutamente economico; da risorsa sottoposta al controllo di pochi sta diventando un mezzo quasi universalmente accessibile». Malgrado un generale ottimismo, i tre autori sollevarono anche diversi dubbi circa i possibili pericoli principali collegati a queste nuove condizioni storiche, quali ad esempio la proliferazione delle armi di distruzione di massa nel mondo, l’emersione di nuove imprevedibili minacce in termini di sicurezza collettiva e il crimine informatico.

Tale quadro generale fu effettivamente capace di descrivere in modo quasi perfetto lo scenario asimmetrico sorto qualche anno dopo la fine della Guerra Fredda. La caduta dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia lasciarono la massa eurasiatica (dai Balcani alle steppe dell’Asia Centrale) priva di qualsiasi controllo politico e militare, aumentando in maniera allarmante le capacità di guerriglia del terrorismo in Afghanistan, in Uzbekistan, in Tagikistan, in Cecenia, in Azerbaigian e nelle regioni a maggioranza islamica dei Balcani (Bosnia e Kosovo). Durante gli anni Novanta, il terrorismo di matrice wahabita e salafita acquisì capacità logistiche sempre maggiori e l’Undici Settembre fu la terribile logica conseguenza di una situazione mondiale così profondamente caotica.

Tuttavia, le numerose crisi regionali nei Balcani e nello spazio postsovietico hanno prodotto non soltanto un crescendo dei fenomeni legati al terrorismo internazionale ma anche una tendenza relativamente nuova, connessa alla cosiddetta geopolitica del caos: le rivoluzioni colorate. Malgrado l’apparente carattere democratico e libertario delle rivendicazioni annunciate dai loro protagonisti, queste ribellioni, spesso promosse da organizzazioni non governative occidentali, hanno in realtà diffuso violenza, estremismo e sciovinismo nazionale all’interno di moltissimi Paesi dell’Europa Orientale e dell’Asia, mettendo drammaticamente in evidenza il profilo più pericoloso delle tecnologie informatico-comunicative. Durante quegli anni l’evidente differenza di percezione politica tra Occidente e Oriente ha riprodotto un clima da Guerra Fredda su basi del tutto diverse dal passato. Non più missili balistici o eserciti contrapposti nelle strade di Berlino ma una nuova dimensione psicologico-mediatica dove, secondo la vulgata occidentale, la Russia di Vladimir Putin poteva essere tratteggiata come una versione moderna del vecchio “Orso Sovietico”, pronta ad inghiottire l’Ucraina, la Georgia o il Kirghizistan, nazioni dove alcuni giovani sarebbero stati pronti a manifestare pacificamente per ottenere libertà e democrazia contro governi “corrotti” e “dipendenti da Mosca”. Durante una visita negli Stati Uniti d’America, l’ex presidente georgiano Mikheil Saakashvili, salito al potere proprio durante la “rivoluzione delle rose” di Tbilisi nel 2003, ha recentemente accostato l’intervento russo in Ossezia del Sud agli interventi sovietici in Cecoslovacchia e in Afghanistan, senza ricordare che per gli ultimi quattro anni il suo partito ha governato in condizioni di democrazia sospesa per effetto di un parlamento semideserto a causa del boicottaggio organizzato dalle opposizioni. Allo stesso modo, il governo cinese viene regolarmente accusato di essere responsabile per il presunto massacro di Piazza Tien An Men del 1989 – un avvenimento che in realtà non si è mai verificato – o di non rispettare i diritti umani in Tibet e nello Xinjiang, proprio dove – al contrario – le popolazioni locali stanno in realtà godendo di progressi sociali, economici e culturali mai visti prima del 1949.

Nel 1997, il presidente Jiang Zemin ha affermato che l’ideologia dei diritti umani è diventata un’arma geopolitica usata per interferire negli affari interni dei Paesi in via di sviluppo. Non era affatto lontano dalla verità. Nonostante l’incessante manipolazione della realtà, queste forze oscure continuano ad utilizzare la loro falsa propaganda filantropica con lo scopo di destabilizzare le società, servendosi del determinante sostegno dei più importanti mezzi di comunicazione di massa. Negli anni Ottanta, il presidente Deng Xiaoping ha sottolineato che il Partito Comunista Cinese non condanna a priori alcuna forma di sviluppo nei Paesi capitalisti come negativa e che le politiche di riforma e apertura sarebbero state indirizzate all’acquisizione di tecnologia avanzata, scienza e gestione efficiente, ovverosia elementi fondamentali anche in un Paese ad orientamento socialista.

Tra questi ovviamente le applicazioni legate al mondo delle tecnologie di informazione e comunicazione assumono un’importanza estremamente significativa. Durante il 17° Congresso del Partito Comunista Cinese (2007), il presidente Hu Jintao affermò: «La cultura è diventata una risorsa via via più importante per la coesione nazionale e per la creatività, e rappresenta un fattore di crescente rilevanza nello sviluppo della forza nazionale complessiva». Durante il 18° Congresso (2012), il presidente Hu ha invece rimarcato l’importanza delle tecnologie dell’informazione e del piano di modernizzazione dei sistemi della difesa e della comunicazione.

Già nel 2011 il supercomputer Tianhe-1 è stato classificato come l’elaboratore più sofisticato del mondo ed il primato raggiunto dalla Repubblica Popolare Cinese nel campo della tecnologia informatica è apparso in tutta la sua chiarezza. Dal 2012, con la messa in attività di Sunway BlueLight, che utilizza processori nazionali, i supercomputer di livello petaflop operanti in Cina sono diventati tre: Tianhe-1 a Tianjin, Nebulae a Shenzhen e Sunway BlueLight a Jinan. L’importanza strategica di questi sistemi operativi speciali non risiede soltanto nella scontata capacità gestionale in termini strettamente computazionali ma anche nella loro applicazione ai più significativi campi dei settori ingegneristico-militari, economico-manageriali e meccanico-industriali.

Sul lato delle tecnologie della comunicazione, invece, il lancio del canale radiotelevisivo CCTV-News nel 2000 e la fondazione degli Istituti Confucio in numerosi atenei di tutto il mondo, avviata nel 2004, costituiscono primi essenziali passi nella direzione dell’aumento del soft-power. Oggi molti cittadini occidentali hanno la possibilità di conoscere la percezione politica della Cina e il punto di vista del Paese asiatico in relazione ai principali fatti internazionali, tuttavia il lavoro è solo all’inizio. I pregiudizi sono ancora forti e la maggior parte della classe dirigente e della popolazione in Europa non riescono a vedere nella Cina una potenza mondiale pienamente matura e responsabile. Sarà, invece, importante capire che la Cina non è semplicemente un mercato emergente, ma può avvantaggiarsi di un’eredità culturale e filosofica unica, seconda a nessuno e mai seriamente indebolita dal recente sviluppo economico.

 

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EMIGRAZIONE DAL MAGHREB ALL’UNIONE EUROPEA. UNA VISIONE D’INSIEME ALL’INIZIO DEL SECOLO XXI

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 Riassunto

Le relazioni tra il Maghreb e l’Europa sono di lungo periodo e caratterizzate da molteplici aspetti. Vari elementi possono comprovare ciò: il Mediterraneo come spazio condiviso dove influssi culturali differenti si incontrano durante i secoli, la dominazione coloniale, gli interessi strategici ed economici europei nell’Africa del nord, l’attenzione che l’Unione europea ha nei confronti di quest’ultima regione. In ogni caso, al fine di osservare le relazioni tra Maghreb ed Unione europea nel contesto contemporaneo, è possibile identificare altri – meno “ufficiali”, ma non meno importanti – legami tra le due sponde del Mar Mediterraneo. A tal riguardo, l’emigrazione gioca un ruolo importante e lo scopo del presente articolo è quello di fornire una visione d’insieme di tale fenomeno agli inizi del secolo corrente.

 

 

 

Introduzione

«La regione mediterranea è cruciale per l’UE»[1]. La seguente chiarificazione – anno 2008 – potrà essere utile: «L’area coperta dalla Partnership Euro-Mediterranea dell’UE (Processo di Barcellona) e dalla Politica Europea di Vicinato comprende Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Autorità Palestinesi, Siria e Tunisia, con la Libia come osservatore. In quanto tale, ciò che l’UE classifica come Mediterraneo include anche molti paesi normalmente considerati come situati in Medio Oriente»[2].

Una parte essenziale della regione è composta dai paesi del Maghreb che si affacciano sul Mare Nostrum. Tra questi stati ed il continente europeo vi è, prima di tutto, un legame storico rilevante, essendo il potere coloniale stato, per decadi, elemento decisivo nella storia contemporanea dell’area geografica maghrebina. Oggi, l’Europa ha in tale regione interessi strategici ed economici. Non possiamo, ad esempio, dimenticare le risorse di idrocarburi a sud del Mediterraneo. A tal riguardo, è possibile far riferimento ad un aspetto dei rapporti tra un paese europeo come l’Italia ed alcuni stati nordafricani: «L’Italia, quarto importatore mondiale di gas naturale, ricava il 33% del suo fabbisogno dalle riserve algerine e libiche (dati ENI), e la presenza di aziende italiane operanti nel settore è particolarmente forte. I legami energetici con l’Algeria sono pluridecennali: il primo gasdotto, il Transmed, fu costruito tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, ed è gestito dall’ENI e dalla Sonatrach, la compagnia petrolifera statale algerina»[3].

Al di là delle questioni legate alle risorse naturali[4], tra il Maghreb ed i paesi europei, ci sono importanti relazioni commerciali e, certamente, l’Unione europea ha dato vita ad iniziative concernenti aspetti disparati ed indirizzate anche – ma non solo – alla parte di Africa settentrionale sulla quale concentreremo – in questa sede – la nostra attenzione. Nel 1995, viene lanciato il Processo di Barcellona, formando «la base della Partnership Euro-Mediterranea che si è ingrandita ed evoluta nell’Unione per il Mediterraneo»[5]. Le tre principali dimensioni del partenariato sono: Dialogo Politico e Sicurezza; Partnership Economica e Finanziaria; Partnership Sociale, Culturale ed Umana. In campo economico abbiamo l’attività più concreta, con l’obiettivo della «graduale creazione di un’area di libero scambio»[6]. Chiaramente, la maggior forza dell’industria europea, come i limiti alle importazioni di prodotti agricoli nell’UE, hanno portato al Vecchio Continente i benefici maggiori. Nel 2004 viene introdotta la PEV[7]. «La Politica Europea di Vicinato (PEV), istituita ufficialmente nel 2004, mira ad armonizzare le politiche di vicinato degli stati membri, facendo da complemento alle politiche nazionali con una politica dell’UE, ed iniziando una strategia completa di buon vicinato, specialmente verso l’Europa mediterranea ed orientale»[8].

Vi è, in ogni caso, un importante fenomeno che lega la sponda settentrionale e quella meridionale del Mar Mediterraneo. Un fenomeno da non dimenticare se si intende considerare seriamente le “connessioni” reali tra le due regioni. Le prossime pagine serviranno a fornire un quadro d’insieme dell’emigrazione dal Maghreb all’Unione europea all’inizio del secolo ventunesimo.

 

 

 

 

 

Unione europea, Maghreb ed emigrazione

Nel contesto del Processo di Barcellona e della PEV, dal 2005, l’emigrazione è inclusa  «come quarto pilastro chiave della Partnership»[9]. In ogni caso, I flussi migratori da paesi terzi del Mediterraneo non sembrano essere ancora oggetto di una reale politica comune europea.

Per avere un’idea sull’importanza della presenza in Europa di persone originarie del Maghreb, sul finire del secolo trascorso, possiamo dare uno sguardo alla seguente tabella:

 

 

Presenza dei Maghrebini nei principali paesi europei (in migliaia, fine 1990)[10]

 

Nazionalità

Belgio

Francia

Germania

Paesi Bassi

Italia

Spagna

Algerini

10,7

619,9

7,4

0,6

4,0

1,1

Marocchini

141,7

584,7

69,6

156,9

78,0

28,2

Tunisini

6,4

207,5

26,1

2,6

41,2

0,4

 

Fonte: Eurostat

 

 

Per quanto attiene all’immigrazione nell’UE, il Maghreb ha una doppia importanza: è un’area di transito ed una regione di emigrazione esso stesso, chiaramente con differenze tra i paesi che lo compongono. Il Marocco, ad esempio, per la sua posizione geografica e per la sua storia, appare come un «trait-d’union, un punto di equilibrio tra influenze del nord e del sud»[11]. Allo stesso modo di altri paesi mediterranei, il Marocco è percepito dall’UE come zona di origine di emigranti ed, allo stesso tempo, come area di passaggio. Si tratta di un tipo di percezione che porta l’Unione europea ad incoraggiare gli stati del Mediterraneo a sviluppare alcune politiche concernenti asilo e flussi migratori simili a quelle europee[12].

L’emigrazione nordafricana alla quale intendiamo prestare, in tal sede, attenzione non è un fenomeno recente. Osserviamo la seguente tabella, riguardante il numero di «Algériens» in Francia a partire dagli anni Venti del Novecento:

 

 

  Algé-

riens*

Total

Général**

1921 38 000 1 532 000
1926 72 000 2 505 000
1931 105 000 2 714 697
1936 87 000 2 198 236
1946 22 114 1 743 619
1954 211 675 1 765 298
1962 305 484 2 169 665
1968 471 020 2 664 060
1975 710 690 3 442 415
1982 795 920 3 680 100

 

 

* «Fino alla Seconda guerra mondiale, le cifre indicano il totale degli individui originari dell’Africa (dal 1926 al 1936, questo gruppo costituisce la quinta comunità immigrata in Francia, la quale non è però contabilizzata nel totale 1, tenuto conto della sua eterogeneità giuridica ed etnica).
Dal 1946 al 1962, si tratta dei musulmani di origine algerina, ma giuridicamente francesi».
Fonte: Gérard Noiriel, Population, immigration et identité nationale en France XIX-XX siècle, Hachette, Paris 1992, p. 70.

** Il «Total général» concerne tutti gli abitanti che non hanno la cittadinanza francese ma vivono nell’Esagono (Francia).

 

 

E’ importante considerare che l’emigrazione dal Maghreb all’Europa affonda una delle prime radici nel passato coloniale. A. Sayad lega al sistema di tal periodo l’emigrazione algerina in Francia, considerando che, prima dell’indipendenza, i flussi migratori erano gestiti da Parigi sulla base delle esigenze del mercato del lavoro francese[13]. Chiaramente, il vincolo di dipendenza creato durante le decadi precedenti, da un punto di vista culturale ed economico, non può sparire in breve tempo e continua a tradursi, anche, in flussi di emigrazione verso l’antico paese colonizzatore.

B. Hamdouch and M. Khachani spiegano che, dagli anni Sessanta del Novecento, l’emigrazione dal Maghreb assume la forma di un vero fenomeno di massa, con un’importante evoluzione e dinamiche differenti tra i paesi dell’area[14]. Secondo la linea interpretativa suggerita dai due autori e dalla prima tabella da essi proposta, la scelta di lasciare il Maghreb per l’Europa esprime disparità economiche tra le due rive del Mediterraneo.

 

 

Reddito per abitante dei  principali paesi di arrivo di  migranti nel 2000

(in migliaia di dollari)[15]

 

Gran Bretagna

Paesi Bassi

Germania

Belgio

Francia

Italia

Spagna

Algeria

Marocco

Media mondiale

23,80

23,00

22,60

22,10

21,80

18,60

14,50

1,59

1,18

5,20

 

Fonte : Rapporto della Banca Mondiale, 2002

 

 

All’inizio del Millennio, il PIL (prodotto interno lordo) pro capite di paesi come Marocco ed Algeria è nettamente più basso rispetto a quello medio di importanti paesi europei di immigrazione[16]. In Marocco, ad esempio, le province del nord costituiscono un’importante area di emigrazione a causa di una situazione economica precaria.

In ogni caso, nonostante una certa instabilità economica[17] (ed una conseguente instabilità del mercato del lavoro), la regione maghrebina continua a presentare una demografia forte. Ciò si traduce in una offerta di lavoro maggiore rispetto alle esigenze dei mercati nazionali. Il risultato è un alto tasso di disoccupazione, che colpisce principalmente le persone giovani[18].

Al di là delle carenze riguardanti lo sviluppo economico da cui un paese è normalmente colpito dopo anni di governo coloniale, le economie del Maghreb hanno conosciuto gli effetti di periodi difficili come la crisi della fine degli anni Settanta e le conseguenze economiche della crisi del Golfo. Inoltre, la progressiva liberalizzazione del commercio ha posto maggiori ostacoli alle imprese locali ed ha contribuito alla perdita di posti di lavoro.

In Maghreb, l’emigrazione è connessa ad un tasso di povertà significativo. A titolo di esempio, è possibile osservare la seguente tabella, riguardante il contesto marocchino tra la metà degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta:

 

 

Proporzione dei Marocchini che vivono al di sotto della soglia di povertà[19]

 

1984-85 1990-91 1998-99
Urbain 13,8 7,6 12,0
Rural 26,7 18,0 27,2
Total de la population 21,1 13,1 19,0

 

                                         Fonte: Direction de la statistique

 

Il 70% degli emigranti marocchini risulta andare via per ragioni economiche[20]. Queste persone decidono di partire per trovare un lavoro meglio retribuito o, semplicemente, per cercare un’occupazione e migliorare il proprio standard di vita. In tale contesto, il contributo delle rimesse acquisisce una forte importanza.

Nelle relazioni tra Europa e Maghreb, l’elemento geografico ha la sua rilevanza. La prossimità tra le due regioni spiega una parte degli interessi europei nel voler includere il Maghreb in un’efficace politica di vicinato, in particolar modo al fine di promuovere il libero mercato e la stabilità politica.

La prossimità spaziale gioca un ruolo anche nelle dinamiche migratorie. E’, infatti, usuale che delle persone che decidono di emigrare siano attratte da una regione vicina e più ricca. La distanza tra l’Europa e le coste marocchine è di circa 14 chilometri[21]. Molte sono le persone giovani che si assumono il rischio di attraversare lo Stretto di Gibilterra con imbarcazioni di fortuna ed elevato risulta essere il numero di vittime[22]. Inoltre, in un simile quadro, reti organizzative strutturate – cui gli emigranti pagano somme molto elevate – danno un forte impulso all’emigrazione illegale.

Come detto in precedenza, l’immigrazione proveniente da paesi terzi del Mediterraneo non si presenta ancora come l’oggetto di una reale politica comune europea. Esistono degli accordi bilaterali: «Come parte del processo di partenariato euro-mediterraneo, è stata fondata una nuova generazione di accordi bilaterali tra la Comunità europea ed i suoi Stati membri, da un lato, ed i paesi della partnership mediterranea dall’altro. Questi rimpiazzano la prima generazione di accordi, ad esempio gli accordi di cooperazione degli anni Settanta»[23]. Tra il 1998 ed il 2005, l’Unione europea ha concluso sette Accordi euro-mediterranei di associazione. Tra questi, c’è un accordo con la Repubblica algerina democratica e popolare, uno con il Regno del Marocco ed uno con la Repubblica tunisina. Se diamo uno sguardo agli accordi con Algeria e Marocco, notiamo che un sistema di non discriminazione (in merito a condizioni di lavoro, remunerazione, licenziamento) è previsto per le persone originarie di questi paesi e che vivono negli stati dell’UE. Si tratta di una non discriminazione reciproca[24] e che fa riferimento anche ai sistemi di welfare. Rispetto a quest’ultimo punto, ad esempio, si prevede che i lavoratori provenienti da Algeria e Marocco che vivono in uno stato membro dell’UE, come i membri – conviventi – delle loro famiglie, godano, da parte del sistema previdenziale, di un trattamento caratterizzato dall’assenza di qualsiasi discriminazione basata sulla cittadinanza[25]. Inoltre, i lavoratori algerini e marocchini stabilitisi negli stati europei membri beneficiano del libero trasferimento nel loro paese d’origine di pensione o assegno di disabilità.

In termini generali, gli accordi menzionano il dialogo sui flussi migratori e sull’immigrazione illegale; il dialogo e la cooperazione per migliorare le condizioni di vita e creare lavoro ed opportunità di formazione professionale nelle aree di provenienza degli emigranti.

In ogni caso è possibile osservare come, in merito all’emigrazione dal sud al nord del Mediterraneo, il Processo di Barcellona e gli Accordi di associazione rimangano ad un livello generale. Il fenomeno migratorio necessiterebbe di una maggiore attenzione e di un serio approccio politico, al fine di dare a coloro che arrivano nell’Unione europea concrete opportunità professionali e di integrazione e di non lasciare queste persone nei circuiti dell’emigrazione illegale. Per quanto attiene al Partenariato euro-mediterraneo, questi dovrebbe costituire, a nostro avviso, un punto di partenza per stimolare lo sviluppo economico nei paesi mediterranei non europei, dando alle persone una reale opportunità di scegliere dove vivere e lavorare (nella propria regione d’origine o altrove). Ciò contribuirebbe ad evitare che persone provenienti da aree meno ricche continuino ad alimentare una forza lavoro sfruttabile – e più vulnerabile – atta a svolgere lavori più duri e meno pagati.

 

 

 

 

Bibliografia

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Hassan Bousetta, Sonia Gsir et Marco Martiniello, Les migrations marocaines vers la Belgique et l’Union européenne. Regards croisés, Actes de la journée d’étude organisée dans le cadre du Pôle d’Attraction Interuniversitaire (PAI) par le CEDEM le 17 février 2004, Hummanitariannet-CEDEM-IMISCOE, Publications de l’Université de Deusto, Bilbao 2005.

Abdellatif Fadloullah, Colonizzazione ed emigrazione in Maghreb, in  R. Cagiano de Azevedo, “Migration et coopération au développement, études démographiques n° 28″, Direction des affaires sociales et économiques, edizioni del Consiglio d’Europa, 1994, http://www.cestim.it/argomenti/11devianza/carcere/due-palazzi/studi_explorer_%201%20-%204/pagine%20web/colonizzazione_ed_emigrazione_in.htm

B. Hamdouch, M. Khachani, Les déterminants de l’émigration internationale au Maghreb, in Les migrations internationales. Observations, analyse et perspectives, Colloque international de Budapest (Hongrie, 20-24 septembre 2004), Numéro 12, Association internationale des démographes de langue française, AIDELF.

Larbi Jaidi, Statut avancé entre l’UE et le Maroc: un nouveau mode de partenariat ?, in Afkar/idées. Revue trimestrielle pour le dialogue entre le Maghreb, l’Espagne et l’Europe, http://www.afkar-ideas.com/fr

Stephan Keukeleire and Jennifer MacNaughtan, The foreign policy of the European Union, Palgrave and McMillan, 2008.

Maghreb. Altra sponda dell’Europa, ICEI Istituto Cooperazione Economica Internazionale, ong del Cocis, I fascicoli dell’Icei n. 2 – Gennaio 2002.

Maghreb: i rapporti economici con l’Italia, in Equilibri.net, 25/01/2010.

Andrew Mold (ed.), EU Development Policy in a Changing World. Challenges for the 21st Century, Amsterdam University Press, 2007.

Gérard Noiriel, Population, immigration et identité nationale en France IX-XX siècle, Hachette, Paris 1992.

Reimund Seidelmann, The EU’s neighbourhood policies, in Mario Telo (edited by) The European Union and Global Governance, Rotledge, 2009.

P.-J Thumerelle, A propos de l’immigration algérienne en France, in «Espace, population, société», II, 1983.

Euro-Mediterranean Agreement establishing an association between the European Communities and their Member States, of the one part, and the Kingdom of Morocco, of the other part (2000).

Euro-Mediterranean Agreement establishing an association between the European Communities and their Member States, of the one part, and the People’s Democratic Republic of Algeria, of the other part (entered into force in 2005).

 

 

 

* Angelo Tino. Laurea specialistica in Studi Europei presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Master complémentaire en analyse interdisciplinaire de la construction européenne presso l’Institut d’Études Européennes dell’Université Libre de Bruxelles.

 

 

 


 

[1] Andrew Mold (ed.), EU Development Policy in a Changing World. Challenges for the 21st Century, Amsterdam University Press, 2007, p. 87.

[2] Stephan Keukeleire and Jennifer MacNaughtan, The foreign policy of the European Union, Palgrave and McMillan, 2008, p. 274.

[3] Maghreb: i rapporti economici con l’Italia, in Equilibri.net, 25/01/2010.

[4] Riguardo le risorse naturali del Maghreb, è importante tenere in considerazione che «le terre del Maghreb vantano risorse minerarie significative che rappresentano per l’Algeria il 23,7% del prodotto interno lordo (PIL), l’11% per la Tunisia, e il 5% per il Marocco» (Maghreb. Altra sponda dell’Europa, ICEI Istituto Cooperazione Economica Internazionale, ong del Cocis, I fascicoli dell’Icei n. 2 – Gennaio 2002, p. 15).

[5] European Union External Action, http://eeas.europa.eu/euromed/barcelona_en.htm .

[6] Ibidem.

[7] «Con l’introduzione della Politica Europea di Vicinato (PEV) nel 2004, il Processo di Barcellona è divenuto essenzialmente il forum multilaterale di dialogo e cooperazione tra l’UE ed i suoi partner mediterranei mentre le relazioni bilaterali complementari sono gestite principalmente sotto la PEV ed attraverso gli Accordi di associazione firmati con ogni paese partner» (ibidem).

[8] Reimund Seidelmann, The EU’s neighbourhood policies, in Mario Telo (edited by) The European Union and Global Governance, Rotledge, 2009, p. 261.

[9] Ibidem. In ogni caso, se leggiamo il documento del First Euro-Mediterranean Ministerial Meeting on Migration, (Algarve – 18, 19 November 2007), http://www.eu2007.pt/NR/rdonlyres/8D86D66E-B37A-457E-9E4A-2D7AFF2643D9/0/20071119AGREEDCONCLUSIONSEuromed.pdf , non troviamo decisioni molto energiche.

[10] Abdellatif Fadloullah, Colonizzazione ed emigrazione in Maghreb, in  R. Cagiano de Azevedo, “Migration et coopération au développement, études démographiques n° 28″, Direction des affaires sociales et économiques, edizioni del Consiglio d’Europa, 1994, http://www.cestim.it/argomenti/11devianza/carcere/due-palazzi/studi_explorer_%201%20-%204/pagine%20web/colonizzazione_ed_emigrazione_in.htm

[11] Larbi Jaidi, Statut avancé entre l’UE et le Maroc : un nouveau mode de partenariat ?, in Afkar/idées. Revue trimestrielle pour le dialogue entre le Maghreb, l’Espagne et l’Europe, p. 22, http://www.afkar-ideas.com/fr

[12] Si può fare riferimento ad Hassan Bousetta, Sonia Gsir et Marco Martiniello, Les migrations marocaines vers la Belgique et l’Union européenne. Regards croisés, Actes de la journée d’étude organisée dans le cadre du Pôle d’Attraction Interuniversitaire (PAI) par le CEDEM le 17 février 2004, Hummanitariannet-CEDEM-IMISCOE, Publications de l’Université de Deusto, Bilbao 2005, p. 106. E’ possibile trovare il lavoro menzionato in rete.

[13] Cfr. P.-J Thumerelle, A propos de l’immigration algérienne en France, in «Espace, population, société», II, 1983.

[14] Cfr., B. Hamdouch, M. Khachani, Les determinants de l’émigration internationale au Maghreb, in Les migrations internationales. Observations, analyse et perspectives, Colloque international de Budapest (Hongrie, 20-24 septembre 2004), Numéro 12, Association internationale des démographes de langue française, AIDELF.

[15] Nostra fonte: ibidem, p. 210

[16] Chiaramente, in ogni paese ci sono differenze tra le varie categorie sociali e regioni.

[17] Hamdouch and Khachani osservano: «E’ il settore primario che condiziona il ritmo della crescita economica, gli idrocarburi in Algeria e l’agricoltura in Tunisia e Marocco. Le fluttuazioni del prezzo del petrolio sul mercato mondiale, da una parte, e la ricorrenza degli anni di siccità per gli ultimi due decenni, dall’altra, hanno avuto un impatto negativo sul ritmo di crescita» (B. Hamdouch, M. Khachani, Les determinants de l’émigration internationale au Maghreb, cit., p. 210).

[18] Hamdouch and Khachani riportano i seguenti dati: «Nei tre paesi del Maghreb, la proporzione di popolazione disoccupata aumenta. In un decennio, dal 1990 al 2000, i tassi sono passati dal 19,8% al 29,9% in Algeria, dal 12,1% al 13,7% in Marocco e dal 16,2% al 15,9% in Tunisia. Lo Stato, tradizionalmente creatore d’impiego, ha ridotto enormemente il proprio contributo al mercato del lavoro, e questa riduzione ha generato una diminuzione degli investimenti pubblici e, di conseguenza, degli impieghi» (ibidem, p. 210).

[19] Ibidem, p. 212.Dunque, il 12% parte per ragioni familiari (raggiungere i membri della famiglia all’estero), il 9% per motivi di studio, il 6% per ragioni “sociali” (ad esempio, la tendenza ad imitare e raggiungere amici che si trovano all’estero, oppure l’insoddisfazione nei confronti della situazione nella quale vivono in Marocco) [cfr., ibidem, pp. 216-217].

[20] Cfr., ibidem, p. 216.

[21] Cfr., ibidem, p. 213.

[22] Cfr., ibidem.

[23] Treaties Office Database of the European External Action Service, http://ec.europa.eu/world/agreements/prepareCreateTreatiesWorkspace/treatiesGeneralData.do?step=0&redirect=true&treatyId=229
N. Berger spiega come, nel 1976, la Comunità europea concluse due accordi di cooperazione con Algeria e Marocco. L’obiettivo generale era quello di promuovere una cooperazione globale al fine di contribuire allo sviluppo economico e sociale dei due paesi del Maghreb. Concretamente, la cooperazione è fornita in tre settori: settore economico, finanziario e tecnico; scambi commerciali; lavoratori. Per quanto riguarda i lavoratori interessati, gli accordi parlano di un regime «caratterizzato dall’assenza di ogni discriminazione fondata sulla cittadinanza per ciò che attiene alle condizioni di lavoro e di remunerazione» (N. Berger, La politique européenne d’asile et d’immigration. Enjeux et perspectives, Bruylant, Bruxelles, 2000, p. 78). Inoltre, vi è una “clausola di uguaglianza di trattamento” in merito al sistema previdenziale.

[24] La non discriminazione è valida anche per i lavoratori europei in questi paesi del Maghreb.

[25] Si tratta di non discriminazione rispetto ai cittadini degli stati europei membri nei quali i lavoratori provenienti da Algeria o Marocco sono impiegati.

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IL VENEZUELA DOPO CHAVEZ

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Guida del Venezuela è scomparsa a 58 anni. Non ha avuto il tempo sufficiente per completare neanche la metà dei suoi piani. Un uomo d’azione che ha dato l’esempio alle forze di sinistra del continente. La sua scomparsa certamente rallenterà, forse temporaneamente, le riforme nell’emisfero occidentale associate al suo nome. Recatosi a Cuba per un nuovo intervento chirurgico nel dicembre 2012, ha invitato i sostenitori a restare uniti. Uniti, ha ripetuto la parola tre volte di proposito, perché è l’unità che può garantire la continuazione del suo percorso politico e la sconfitta storica delle forze guidate dall’impero degli Stati Uniti d’America. E’ stato spesso chiamato il libertador del XXI.mo secolo, in riferimento a Simon Bolivar, che combatté contro il giogo coloniale spagnolo. Ha fatto molto per liberare il Venezuela dalla dipendenza economica e politica dagli Stati Uniti: l’industria petrolifera è stata nazionalizzata, il processo d’integrazione dell’America Latina è stato accelerato. Il significato storico di Chavez sarà sempre più distinto col passare del tempo…

Il fatto che il presidente Obama abbia offerto le condoglianze al Venezuela per la morte di Chavez ed espresso la speranza per la costruzione di un rapporto costruttivo bilaterale, è stato percepito da molti come un segnale ai leader bolivariani. Una volta che Obama parla di cooperazione, non è interessato al confronto, in modo che Caracas non dovrebbe rifiutare una stretta di mano. E’ tempo per il dialogo, l’interazione e la riduzione della tensione. Ma la tranquillità ostentata di Obama va di pari passo con l’euforia vendicativa sorta a Washington. I sentimenti prevalenti nei circoli del regime statunitense sono evidenti: finalmente l’odiato caudillo è morto! La causa della sua morte deve essere ancora precisata, ma apre la strada a nuove azioni sovversive in Venezuela, per esempio, sviluppando contatti con gli avversari di Nicolas Maduro, l’uomo che Chavez ha nominato come suo successore. L’obiettivo principale dei servizi speciali degli Stati Uniti è inserire un cuneo di discordie tra i leader venezuelani, destabilizzare la situazione, rafforzare l’opposizione, in particolare l’ala radicale, e farle cercare vendetta. Le note di pacificazione nelle parole di cordoglio di Washington non sono altro che una cortina di fumo per un’operazione multifase volta a tenere lontano dal potere i “successori di Chavez”… Tutto il resto non sono altro che parole vuote.

La punizione pubblica di un Paese governato da un “regime populista” è da lungo tempo un’idea fissa di alcuni ambienti al vertice della leadership degli Stati Uniti. Pensano che sia il momento giusto per un attacco esplorativo, per verificare la stabilità del regime bolivariano. L’elezione imminente apre promettenti prospettive. L’opposizione ha la possibilità di prendere l’iniziativa. Tutti i sondaggi dicono che Nicolas Maduro è avanti a Capriles Radonsky del 15-20%. Capriles ha perso con Chavez nell’ottobre 2012, ma coloro che tirano i fili da Washington non rispettano le regole. E sarà una dura lotta. Sabotaggi, provocazioni, sovversioni, omicidi politici, tutto è lecito in amore e in guerra, tutto andrebbe fatto per raggiungere l’obiettivo. Se Maduro sarà un chiaro vincitore nelle elezioni, istigheranno disordini nelle città, bloccando le vie di trasporto, accendendo il confronto e poi alzando i toni e il pianto sulle “vittime della repressione del governo”. L’uso della forza per arrivare al potere non è escluso, ma si può tentare con l’aiuto di mercenari e unità per operazioni speciali straniere. Tali scenari hanno già avuto luogo nella storia contemporanea del Venezuela. L’altra opzione è agire mentre i voti vengono contati. I media e gli attivisti pro-USA diffonderanno informazioni su “falsificazioni di massa”, per colpire Maduro. Tali accuse hanno accompagnato tutte le campagne elettorali che Chavez ha vinto, ma sempre con un ampio margine. Ma ora, riguardo Maduro?

Naturalmente, la leadership bolivariana conta sul sostegno di amici e alleati. E’ già stata riconosciuta dall’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América, o ALBA), dalla Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños, CELAC), dall’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unión de Naciones Suramericanas, UNASUR) e altri. Nicolas Maduro ha un disperato bisogno del sostegno di Cina, Brasile e Russia, Paesi su cui contava Chavez durante l’assunzione di decisioni in politica estera. Igor Sechin, il presidente esecutivo di Rosneft, guiderà la delegazione russa al funerale. Ha fatto molto per promuovere le relazioni Russia-Venezuela. La squadra russa comprende anche Denis Manturov, ministro del Commercio e dell’Industria della Federazione Russa, e Sergej Chemezov, direttore generale della Russian Technologies State Corporation. La composizione della delegazione mostra chiaramente che la visita non sarà limitata  solo a funzioni rappresentative. La delegazione ha l’obiettivo di impedire lo svolgersi degli eventi secondo il piano di destabilizzazione di Washington, e dare ogni possibile aiuto a Nicolas Maduro.

I liberali già prevedono che la Russia soffrirebbe grandi perdite finanziarie e materiali in Venezuela. Dando alle previsioni una tinta artificialmente drammatica: gli Stati Uniti raggiungeranno il loro obiettivo, gli investimenti della Russia nel bacino dell’Orinoco e in altre zone del Venezuela andranno persi, e l’enorme prestito per l’acquisizione di armi russe svanirà nel nulla. L’opposizione al potere spazzerebbe via tutti coloro che non hanno il favore di Washington, come cinesi, russi,  brasiliani… Queste prospettive oscure sono viste da coloro che credono in un solo modello di politica: chi offrirà più soldi ai successori di Chavez sarà il vincitore. Ma Chavez ha costituito una squadra vera e propria. Quindi, non importa quanto duri potranno essere i tempi, non ci saranno disertori nelle file di coloro che lottano per la vittoria della rivoluzione bolivariana.

 

 

La ripubblicazione è gradita in riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation.


Traduzione di Alessandro Lattanzio

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UN NUEVO NOMOS MULTIPOLAR QUE LIBERE AL MUNDO DE LA PREPOTENCIA GLOBAL DE LA TALASOCRACIA ESTADOUNIDENSE

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El director de “Eurasia”, Claudio Mutti, ha concedido a Natella Speranskaja una breve entrevista que ha sido publicada en algunos portales rusos. Ofrecemos aquí la traducción castellana.

 

 

D-¿Cómo ha llegado a tener conocimiento de la cuarta teoría política?¿Cómo valora la posibilidad de que ésta llegue a convertirse en una importante ideología del siglo XXI?

R-Habiendo prestado una constante atención a la actividad desarrollada en los últimos 20 años de Aleksandr Dugin, considero que la Cuarta Teoría Política, que él trata de elaborar representa un éxito coherente de su pensamiento. Por lo que respecta a las posibilidades de afirmarla quería recordarles las palabras de Maquiavelo: “Todos los profetas armados vencen, y los desarmados fracasan” (Il Príncipe, VI, 5)

 

D-Comentando la obra fundamental de Carl Schmitt “El concepto de lo político”, Leo Strauss observa que, por más radical que sea la crítica del liberalismo que ésta contiene, Schmitt permanece dentro del horizonte liberal, que no resulta superado; esto, según el propio Schmitt, a pesar de todos sus defectos no puede ser sustituido por algún otro sistema en la Europa actual. ¿Cuál es la solución al problema de la superación del discurso liberal?¿Se puede considerar que la solución de tal problema sea representada por la Cuarta Teoría de Dugin, que se encuentra más allá de las tres principales ideologías del siglo XX (liberalismo, comunismo y fascismo) y se opone al liberalismo?

R-La crítica de Leo Strauss muestra como el pensamiento de la Revolución Conservadora, que alcanza sus logros más elevados también gracias a Carl Schmitt, debe ser aplazado en función de las actuales circunstancias históricas. Por ello la Cuarta Teoría Política de Dugin constituye una preciosa tentativa de dar vida a una doctrina antiliberal que, después de la derrota de los “enemigos de la sociedad abierta” en el pasado siglo, puede oponerse eficazmente al individualismo y la idolatría del mercado, así como a los “derechos humanos” y el unipolarismo.

 

D-¿Está de acuerdo con el hecho de que hoy existen dos Europas? Una es aquella liberal, que comprende la idea de la “sociedad abierta”, los derechos humanos, el registro de “matrimonios” homosexuales etc; la otra Europa (una “Europa diferente”) es aquella políticamente comprometida, intelectual, espiritual, que considera que el status quo y la hegemonía del discurso liberal como un verdadero y justo desastre, y como una traición a la tradición europea ¿Cómo evalúa las posibilidades de victoria de la “Europa diferente” sobre la anterior?

R-El encuentro entre las “dos Europas” (aunque yo diría más bien entre Europa y Occidente) es una lucha por la vida y por la muerte, porque la instauración definitiva del totalitarismo liberal, con los monstruos creados por su antropología atea, con su culto a la ganancia, con su concepto prometaico de la tecnología, equivaldría a la caída en una barbarie subhumana nunca vista en la historia de la humanidad. No sé si Europa encontrará en sí las energías necesarias para invertir la tendencia liberal, ni si ve la intervención de Oriente hipotetizado en su día por René Guénon, de modo que estaría intentando repetir que “solo un dios nos puede salvar”. En cada caso, los “buenos europeos” deben cumplir su deber y continuar luchando independientemente de las posibilidades de victoria.

 

D-“No hay nada más trágico – dice Alain de Benoist – que el error de comprensión del momento histórico que estamos atravesando actualmente, este es el momento de la globalización postmoderna”. El filósofo francés pone de relieve la importancia del nacimiento de un nuevo Nomos de la tierra, de un nuevo modo de instituir las relaciones internacionales. ¿A qué cree que será parecido el cuarto Nomos?¿Está de acuerdo con el hecho de que el nuevo Nomos será euroasiático y multipolar (transición deluniversum al pluriversum)?

R-Un nuevo Nomos der Erde multipolar, que libere al mundo de la prepotencia global de la talasocracia estadounidense, puede ser instituido por un solo Estado o por un frente de Estados en posesión de los mismos requisitos que han permitido a los Estados Unidos instaurar su hegemonía mundial: dimensiones continentales, peso demográfico, armamento atómico, desarrollo tecnológico, prestigio cultural, ordenamiento político fuerte, voluntad de potencia. En tal caso se podría prever el nacimiento de un unpluriversum, constituido por seis o siete “grandes espacios”: Asia Oriental, la India, Irán, Rusia, Europa, América latina y Norteamérica.

 

D-¿Está de acuerdo con el hecho de que la época de la raza blanca europea ha terminado y que el futuro será determinado por las culturas y sociedades asiáticas?

R-Después de la segunda guerra mundial, la noción de “raza blanca” ha sido sustituida por otras categorías, más antirracistas y políticamente correctas: “el Mundo Libre”, “Occidente”. Ahora, dado que Occidente ha hegemonizado a algunos pueblos pertenecientes a la raza amarilla y está tratando de someter al mundo árabe, la idea del “ocaso de Occidente”, parece archivada, tal es así que cualquiera ha podido hablar de “occidentalización del mundo”. Sin embargo, la realización de esta perspectiva es obstaculizada por la persistencia de culturas no occidentales, inspiradas en valores de autoridad, orden, jerarquía y supremacía de la comunidad sobre el individuo. He aquí porque el ideólogo norteamericano del “choque de civilizaciones” ha imaginado un futuro “eje islámico-confuciano” como el máximo obstáculo al triunfo final de la hegemonía occidental.

 

D-¿Piensa que Rusia forme parte de Europa o acepta la concepción según la cual Rusia y Europa representan dos civilizaciones distintas?

R-El susodicho teórico del “choque de civilizaciones” considera que Rusia es un “país en equilibrio” hasta la época de Pedro el Grande, porque entre los rusos algunos piensan que su país forma parte de Europa, mientras que según otros ellos serían el fruto de una peculiar civilización euroasiática. En efecto, nadie puede negar que, después del fin del dominio tártaro, instituciones civiles y militares rusas han mantenido su naturaleza mongolo-tártara, de modo que la civilización rusa puede ser considerada una síntesis de elementos eslavos, romanos (bizantinos) y turco-mongoloides.

 

D-Las ideologías contemporáneas se fundan sobre el principio del secularismo. ¿Usted deja entrever el retorno de la religión, el retorno de lo sagrado? Siendo así, ¿bajo que forma? Considera que esto pueda sobrevenir bajo formas islámicas, cristianas, paganas o bajo otras formas religiosas?

R-En lo que concierne a las ideologías modernas, se necesita considerar que tras el carácter aparentemente secular, a veces se ocultan elementos de origen religioso degenerados, desviados y falsificados, como por ejemplo sucede en el caso americano, donde se puede descubrir fácilmente un mesianismo secularizado, fundado sobre un pretendida investidura divina. En el mundo moderno las religiones son expuestas bajo un análogo riesgo de profanación, de modo que el “retorno de lo sagrado” puede tener lugar bajo formas espurias y de parodias: el sionismo, el fundamentalismo cristiano estadounidense y la heterodoxia wahabita-salafita pertenecen a una fenomenología de profanación de este tipo.

 

Traducido del italiano por Ángel Fernández para TdE

http://www.tribunadeeuropa.com/?p=15527

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ALLE ORIGINI DELLA PRASSI GEOPOLITICA DI CHAVEZ: IL PENSIERO GEOPOLITICO DI NORBERTO CERESOLE

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Tra i limiti e le debolezze più gravi del pensiero iberoamericano vi è stata la scarsa importanza attribuita allo studio della geopolitica, e questo atteggiamento ci ha fatto perdere di vista le vere origini dei nostri problemi culturali, sociopolitici ed economici; in altre parole, volendo occultare il fatto che il problema che principalmente ci assilla è un problema di natura geopolitica, si sono volute consapevolmente escludere una prognosi veridica e un’autentica via di liberazione.

Questa strategia è stata abilmente patrocinata e diretta dalla talassocrazia nordamericana, la quale, all’epoca del conflitto con l’Asse, diffuse un’immagine della geopolitica quale “scienza nazista”, scienza dell’aggressione, sicché gli Stati iberoamericani devono opporsi ad ogni progetto che miri a favorirne gl’insegnamenti. E’ chiaro che questa tattica si fonda sulla conoscenza di ciò che Carlo Terracciano ha messo in evidenza riguardo a questa scienza umana, difendendola come “l’avvio per una presa di coscienza che porti alla liberazione dei popoli sottomessi”, in quanto la pratica della geopolitica metterebbe a rischio l’egemonia statunitense su tutto il continente americano. Ciò si inscrisse nella propaganda yankee promossa in quella medesima congiuntura bellica, quando su tutti i governi latinoamericani vennero esercitate forti pressioni affinché dichiarassero guerra all’Asse; in tal modo si voleva “dar forma all’integrazione politica dell’emisfero” (Spykman), ossia controllare direttamente tutta quanta la regione iberoamericana, ma anche questo tentativo terminò con un fallimento.

Mentre gli USA sviluppano inizialmente la loro geostrategia da una prospettiva emisferica per poi passare ad una fase globale, la maggior parte dei governi latinoamericani finora non ha capito che la tattica applicata dai rispettivi circoli militari e politici, fondata su una geopolitica frammentaria che non vede oltre i ristretti limiti di ciascun paese, non condurrà a nessun tipo di indipendenza e sovranità le nazioni sudamericane; si tratta di una grave miopia, nonostante in questa materia esistano precursori illustri nella Prima Guerra d’Indipendenza (1), nel cosiddetto Patto de ABC (2) ispirato da Peròn e, per venire all’attualità, nella Rivoluzione Bolivariana guidata da Chàvez, uomini che, con limiti più o meno grandi, non hanno mai cessato di “pensare in termini di geocontinenti” (Von Lohausen).

C’è un fatto poco conosciuto specialmente in Europa, che riguarda gl’inizi della lotta politica di Chàvez. Nel 1995, nel corso di una visita fatta in Argentina allo scopo di stringere rapporti coi militari ribelli noti come carapintadas, Chàvez conosce il sociologo argentino Norberto Ceresole e lo invita ad unirsi al suo gruppo ristretto di consiglieri. A partire da questo momento e fino alla sua seconda espulsione, Ceresole accompagnerà Chàvez in quei viaggi e in quelle campagne all’interno del Venezuela che sfoceranno nel trionfo elettorale del 1998. Amici ed avversari riconoscono che fu Ceresole colui che riuscì ad accumulare e dirigere il carisma e la capacità di guida del capo venezuelano, destando quell’intima relazione tra Caudillo e Pueblo (3) che lo ha mantenuto alla guida del Venezuela.

Militante peronista, legato al gruppo dirigente della linea radicale montonera, l’Argentino fu uno scrittore prolifico, docente universitario e conferenziere internazionale; ha al suo attivo più di trenta opere che riguardano soprattutto la geopolitica e la geostrategia latinoamericana, ma anche, negli ultimi anni della sua attività, la questione del Vicino Oriente e il problema ebraico.

Ceresole fu anche consigliere del governo nazionale rivoluzionario peruviano del generale Velasco Alvarado; fu interlocutore di Peròn a Madrid; entrò in contatto con Salvador Allende e con alcuni capi della rivoluzione cubana. Alla fine degli anni Settanta venne eletto membro dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, dipartimento di studi latinoamericani. Sul piano culturale, instaurò relazioni di amicizia e di scambio d’idee con Garaudy (4), Faurisson e Nolte.

In seguito all’implosione dell’impero sovietico e al successivo riordinamento globale, il suo pensiero strategico si riorienta ed egli si sente stimolato ad approfondire lo studio dei pensatori geopolitici classici, specialmente di Haushofer; così nella sua analisi viene ad occupare un posto di rilievo il concetto di un blocco continentale eurasiatico: egli considera l’unità del continente asiatico e della sua penisola europea come un fattore determinante per la nascita di un mondo multipolare. A suo parere, i poli di questa unità dovranno essere la Germania e la Russia, ma è a quest’ultima che egli attribuisce un peso determinante, poiché alla caduta del neoliberalismo in Russia è legata la fine inesorabile del Nuovo Ordine Mondiale.

Nel quadro di questo generale cambiamento di prospettiva, devono essere presi in grande considerazione due nuovi fattori di grande importanza nelle relazioni internazionali. Il primo fattore è la rifondazione ideologica dell’entità sionista, che consiste nella sostituzione del sionismo laico col messianesimo fondamentalista biblico (“nazionalgiudaismo”); ciò ha avuto come risultato il consolidarsi – nel cuore stesso della Comunità Islamica – di una grande capacità strategica, dovuta all’alleanza coi progetti globali dell’ideologia puritana messianica che ispira la prassi imperialista degli USA. Il secondo fattore, che esercita un peso determinante sullo scacchiere globale ed ha uno stretto rapporto col primo, corrisponde alla vastissima zona dell’Asia Centrale, che mostra in maniera evidente i segni considerevoli della crescita e della vitalità dell’Islam e sta creando un contrappeso all’influenza mondiale della talassocrazia nordamericana (5).

Il suo interesse geopolitico rivoluzionario si focalizzò sulla branca islamica sciita. Ciò lo indusse a recarsi nella zona “calda” del Vicino Oriente e a stringere relazioni con i dirigenti di Hezbollah e coi capi della rivoluzione iraniana, i più grandi baluardi attuali nella lotta per l’indipendenza dei popoli, che incarnano lo spirito di resistenza contro la dialettica mondialista tra i paesi “arroganti”e i popoli “umiliati” (Mohammed Hussein Fadlallah), tra la civiltà del denaro e la civiltà della Fede.

Non dimentichiamo che Ceresole proviene dalla “periferia occidentale” del mondo, cioè dall’America Latina, punto nevralgico della sua cosmovisione e delle sue azioni rivoluzionarie; per questo le sue avventure, i suoi viaggi e il suo esilio obbligato in Europa, in Russia, nel Vicino e nel Medio Oriente gli consentono di constatare quale sia la vita religiosa, culturale, politica e storica che accomuna questa grande area continentale e di verificare la validità dell’idea eurasiatica (6). L’aspetto rivoluzionario delle sue tesi consiste nel fattoche egli è il primo a prospettare la necessità di “stabilire connessioni e complementarità fra Eurasia e America Latina, ossia progettare meccanismi che facciano crescere le rispettive potenze” (7); infatti è imprescindibile articolare i due fronti per erigere una “barriera invalicabile” continentale ed oceanica, allo scopo di ottenere in tal modo la grande vittoria finale sulle potenze talassocratiche. A tale conclusione, paradossalmente, egli giunge attraverso l’analisi delle raccomandazioni esposte da Mackinder al termine del suo celebre studio The Geographical Pivot of History (1904), dove il geografo inglese indica il pericolo che correrebbero gli USA qualora, in seguito ad un accordo tra Sudamerica e Germania, si presentasse al blocco eurasiatico tutta una serie di possibilità marittime (8).

Per cominciare a progettare questa coalizione, Ceresole deve respingere quella visione della geopolitica classica e “accademica” che suddivide il mondo in zone “verticali” (centro/periferia); egli propone un deciso cambiamento di prospettiva per gettare le fondamenta di una “geopolitica di liberazione” che si configuri attraverso allineamenti “orizzontali” (periferia/periferia), cosa che, in termini ideologici, equivale al rifiuto totale dell’eurocentrismo, matrice di ogni pratica colonialista. Riteniamo che sia il caso di evidenziare l’esatta concordanza di questo ragionamento con quanto sostenuto da una delle grandi figure del neoeurasiatismo italiano, il già menzionato Carlo Terracciano (9).

Se riepiloghiamo a grandi linee le direttrici della politica estera di Chàvez, possiamo affermare che – in generale – egli ha seguito le indicazioni del suo amico e compagno di lotta Ceresole. La rifondazione dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio, preconizzata dal presidente venezuelano, è una delle strategie chiave propugnate dal geopolitico argentino; l’obiettivo è quello di dar forma ad una nuova organizzazione del mercato internazionale del petrolio, non solo per estendere la rete degli accordi economici, ma anche per instaurare nuove intese, nuove vie di scambio culturale, attraverso le quali si potrà pervenire ad una modifica radicale del “centro di gravità della totalità del sistema internazionale” (10).

Un’altra strategia di ispirazione chiaramente ceresoliana consiste nell’instaurazione di stretti rapporti politici, militari ed energetici con la Russia, con la Cina, con l’Iran in particolare (11) e, in misura minore, coi paesi arabi, al fine di far nascere un mondo multipolare. C’è convergenza anche nella posizione antisionista, nella denuncia dei crimini commessi dall’entità sionista contro il popolo palestinese, cosa che ha portato all’espulsione dal Venezuela dell’ambasciatore israeliano. Per comprendere ed affrontare le sfide e i comportamenti che comportano la completa assunzione di consapevolezza di questo nuovo riordinamento globale, Ceresole raccomandò la creazione di un Centro de Inteligencia Estratégica, che sorse in Venezuela un anno dopo la sua espulsione.

Quanto all’America Latina, l’unico pensiero strategico valido preso in considerazione dal nostro autore per una vera opposizione ai predoni nordamericani è il pensiero continentalista di Bolìvar e Perón, chiaramente ispirato alla tradizione classica.  Perché questa opposizione sia efficace, secondo il sociologo argentino è imprescindibile che l’unità di tutte le nazioni che formano la Patria Grande sia non solo politica ed economica, ma anche militare; in quest’ambito la cooperazione deve procedere di pari passo con lo sviluppo economico, poiché il potenziamento delle forze armate sudamericane è l’unico modo per rendere vitale il Continente nel quadro del futuro mondo multipolare.  Questa idea, che Chávez cominciò a formulare nell’anno 2000, si è poi affermata in seno alla UNASUR.

Analogamente, è interessante notare che tra i vettori politici primordiali di Ceresole vi è l’obiettivo del consolidamento di uno spazio di potenza equilibrato nell’emisfero occidentale, che potrà concretarsi soltanto con l’integrazione dell’America Centrale (il “mediterraneo americano”) e dell’America Meridionale. Questa strategia si è manifestata con la creazione della CELAC e non è un caso che uno dei principali promotori di questa iniziativa è stato il governo bolivariano del Venezuela per il tramite dei membri dell’ALBA, senza trascurare l’azione diplomatica del Brasile. Fin dagli anni Novanta il Brasile considera questa zona come di interesse strategico, il che per esso comporta la necessità di riannodare le relazioni diplomatiche   con l’Avana.

Concludendo la presente analisi, sarebbe illogico sostenere ad oltranza la tesi secondo cui tutte le decisioni di Chávez che sono state menzionate sarebbero state ispirate unicamente dall’influenza esercitata in un certo periodo da Ceresole. Esistono coincidenze o concordanze nel processo in questione; però, per citare un esempio, il geopolitico argentino si oppose sempre all’influenza di Castro su Chávez, il che ci dimostra l’esistenza di altre fonti d’ispirazione, le quali in nessun modo hanno indebolito la capacità strategica e la proiezione continentale del Comandante Chávez.

Occorre prestare attenzione alle direttrici che emergeranno in questo nuovo ciclo della rivoluzione bolivariana e cercare di individuarne la reale capacità di manovra perché siano superate le sfide non risolte da Chávez.  Le elezioni dell’ottobre dell’anno scorso sono state un avvertimento circa il fatto che la rivoluzione bolivariana non è invincibile, a maggior ragione adesso, dopo la scomparsa della sua guida carismatica, sicché le prossime elezioni saranno la prova del fuoco non solo per il popolo venezuelano, ma anche per le sorti di tutto il Sudamerica.

 

 

 

Tumbaco, Ecuador, Marzo 2013

 

 

1. Specialmente nel pensiero geopolitico e geostrategico di Bolivar.

2. Si trattò di un compromesso realizzato intorno alla metà degli anni Cinquanta tra il presidente argentino Peròn, il brasiliano Getulio Vargas e il cileno Ibanez, al fine di creare un’unione politica ed economica dei rispettivi paesi che li sottraesse all’influenza nordamericana, vale a dire un potente polo bioceanico indipendente che, data la sua grandezza, sarebbe stato in grado di attrarre a sé le altre nazioni del continente sudamericano.

3. Norberto Ceresole, Caudillo, Ejército, Pueblo, Ediciones Al-Andalus, Madrid 2000. Versione in rete: http://www.analitica.com/bitBlioteca/ceresole/caudillo.asp

4. Il filosofo francese gli dedicò il suo libro El Nacional Judaismo. Un mesianismo pos-sionista, Ediciones Libertarias / Prodhufi, Madrid 1997.

5. “Adattando ancora una volta i concetti della geopolitica tedesca alla situazione attuale, potremmo affermare, in modo seriamente fondato, che fin dal 1924 il generale Haushofer previde che il mondo arabo-musulmano sarebbe stato la grande ‘falla’ del globalismo nordamericano attuale (…) L’Asia Centrale, come unità geopolitica sempre più differenziata, rappresenta un’alterazione profonda delle vecchie tendenze geopolitiche delle potenze bianche ed europee di una volta. L’Asia Centrale, intesa come lo spazio fisico e politico compreso tra il Vicino Oriente e la Cina e come regione potenzialmente indipendente, si adatta molto bene alla logica della geopolitica tedesca classica. Si tratta di una regione che è stata esaminata in maniera molto concreta nel pensiero del generale Haushofer” Norberto Ceresole, La Conquista del Imperio Americano (El poder judìo en Occidente y Oriente), Seconda parte: La opciòn estratégica. http://www.vho.org/aaargh/fran/livres/NCpoderju.pdf

6. Le fonti principale che consentrono a Ceresole di giungere a questa conclusione sono leopere di Haushofer. Non abbiamo la certezza che egli abbia avuto accesso al pensiero neoeurasiatista; la sola cosa che sappiamo, è che ebbe buone relazioni col generale Lebed e altri militari russi di alto grado.

7. El Nacional Judaismo. Un mesianismo pos-sionista, p. 140.

8. “The development of vast potentialities of South America might have a decisive influence upon the system. They might strengthen the United States, or, on the other hand, if Germany were to challenge the Monroe Doctrine successfully, they might detach Berlin from what I may perhaps describe as a pivot policy” (Democratic Ideals and Reality, “National Defense University Press”, Washington D.C., Annessi, p. 192).

9. Cfr. Europa-Russia-Eurasia: una “geopolitica orizzontale”, “Eurasia”, 2/2005.

10. Norberto Ceresole, op. cit.,p. 142.

11. Uno di coloro che svolsero il ruolo di principali interlocutori con la Repubblica Islamica dell’Iran fu proprio Ceresole.

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L’AFRICOM IN MALI: OBIETTIVO CINA

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L’operazione in Mali è solo la punta dell’immenso iceberg africano. AFRICOM, il comando africano del Pentagono, fu creato dal Presidente George W. Bush sul finire del 2007. Il suo compito principale era quello di contenere la dilagante influenza economica e politica della Cina in Africa. Il campanello d’allarme risuonò a Washington quando il Presidente cinese ospitò uno summit storico a Pechino, il Forum per la cooperazione sino-africana (FOCAC), che riunì nella capitale inglese quasi cinquanta capi di stato e ministri dei governi africani. Nel 2008, completando un tour in Africa che toccò otto nazioni in dodici giorni – la terza visita simile da quando iniziò il suo incarico- il Presidente cinese Hu Jintao annunciò un programma triennale da tre miliardi di dollari di prestiti ed altri aiuti umanitari per l’Africa. Questi fondi si aggiunsero ai 3 miliardi di dollari di prestiti e 2 miliardi di dollari in crediti da esportazione che Hu Jintao aveva già precedentemente annunciato.

Nei quattro anni seguenti, il commercio tra Cina e nazioni africane aumentò vertiginosamente nella misura in cui l’influenza francese e statunitense sul “continente nero” diminuiva. Secondo le statistiche cinesi il volume degli scambi tra Pechino e l’Africa raggiunse i 166 miliardi di dollari nel 2011 e le esportazioni africane verso la Cina – in particolar modo materie prime necessarie all’industria cinese – salirono a 93 miliardi dai 5,6 miliardi del decennio precedente. Nel luglio 2012 la Cina offrì alle nazioni africane 20 miliardi in prestiti per il triennio successivo, un ammontare doppio rispetto ai prestiti concessi nel triennio precedente (1).

Per Washington rendere operativo l’AFRICOM il prima possibile era una priorità geopolitica. Le operazioni cominciarono l’1 ottobre 2008 dal centro di comando di Stoccarda, Germania. Da quando l’amministrazione Bush-Cheney firmò la direttiva creando AFRICOM nel febbraio 2007, questa è stata la risposta diretta alla riuscita diplomazia economica della Cina in Africa.

La missione di AFRICOM è definita nel modo seguente “Il Comando Africano ha il compito di coordinare il supporto militare statunitense alla politica del governo USA in Africa, inclusi i rapporti con i comandi militari delle 53 nazioni africane”. Viene ammessa la collaborazione con le ambasciate statunitensi ed il Dipartimento di Stato in Africa, un’ammissione inusuale che include anche l’USAID: ” Il comando Africano statunitense fornisce anche uomini e mezzi per le attività finanziate dal Dipartimento di Stato americano. Il personale del Comando lavora in stretto contatto con le ambasciate statunitensi in Africa per coordinare programmi di addestramento per migliorare l’apparato di sicurezza delle nazioni africane” (2).

Parlando all’International Peace Operations Association a Washington il 27 ottobre 2008, il Generale Kip Ward, Comandante dell’AFRICOM, definì la sua missione, “in accordo con le agenzie governative statunitensi e gl’interlocutori internazionali, (per condurre) azioni a favore della sicurezza attraverso programmi militari e altre operazioni simili, dirette a favorire un ambiente stabile e sicuro in Africa, di supporto alla politica estera statunitense” (3).

Differenti fonti a Washington lo dichiarano apertamente. L’AFRICOM fu creato per contrastare la crescente presenza della Cina in Africa, e il suo crescente successo, al fine di assicurarsi accordi economici a lungo termine per ricevere materie prime dall’Africa in cambio di aiuti cinesi sotto forma di contratti di produzione e relative royalties. Secondo i rapporti, i cinesi sono stati molto scaltri.  Invece di offrire pesanti imposizioni da parte dell’FMI implicanti pesanti riforme economiche ed austerity  come hanno fatto gli occidentali, la Cina sta offrendo crediti e generosi prestiti per costruire strade e scuole, con l’obbiettivo di stabilire un buon rapporto fra le parti.

J. Peter Pham, un esperto di Washington e consulente del Dipartimento della Difesa statunitense, afferma esplicitamente che tra le intenzioni del nuovo AFRICOM, c’è l’obiettivo di “proteggere l’accesso agli idrocarburi e alle altre risorse strategiche di cui l’Africa dispone in abbondanza”, un compito che include la protezione delle vulnerabili ricchezze naturali e che altre parti terze, come Cina, Giappone, o Russia, ottengano il monopolio di queste o trattamenti di favore.

Nella testimonianza che supportò la creazione dell’AFRICOM prima del congresso USA nel 2007, Pham, che è strettamente legato al Think Tank neo conservatore, Foundation for Defense of Democracies, affermò:

Questa abbondanza di risorse fa dell’Africa un bersaglio invitante all’attenzione della Repubblica Popolare Cinese, la cui dinamicità economica, con una media del 9 per cento di crescita annuo nel corso degli ultimi due decenni, ha una quasi irresistibile sete di petrolio come di altre ricchezze per sostenere tale ritmo di crescita. La Cina attualmente importa circa 2,6 milioni di barili di greggio al giorno, quasi la metà del suo fabbisogno; approssimativamente un terzo delle importazioni provengono dai giacimenti africani… probabilmente nessun’altra regione straniera eguaglia l’Africa negli interessi strategici di lungo periodo di Pechino negli ultimi anni… molti analisti si aspettano che l’Africa – specialmente la regione che comprende gli stati ricchi di petrolio lungo la costa occidentale – diventerà sempre più un teatro strategico nella competizione tra gli Stati Uniti e il loro solo concorrente quasi alla pari a livello globale, la  Cina, dato che entrambe le nazioni cercano di espandere la loro influenza e di avere accesso alle risorse (4).

Per contrastare la crescente influenza cinese in Africa, Washington ha assicurato il suo appoggio a una Francia economicamente indebolita e politicamente disperata, per ridare vigore all’impero coloniale francese, in una forma o nell’altra. La strategia, che si è rivelata nel tentativo franco-statunitense di usare il gruppo terroristico di Al Qaeda per abbattere prima Gheddafi in Libia e ora per causare distruzione dal Sahara al Mali, è di incoraggiare i combattimenti fra etnie e gruppi differenti come Berberi, Arabi e altri in Nord Africa. Divide et Impera.

Sembra che essi abbiano anche già optato per una vecchia “formula francese” per il controllo diretto. In un’analisi pionieristica, l’analista geopolitico e sociologo canadese, Mahdi Darius Nazemroaya scrive, “la mappa usata da Washington per combattere il terrorismo nell’area del Pan-Sahel è molto esplicativa. L’ampiezza dell’area di azione dei terroristi, che include i confini dell’Algeria, Libia, Niger, Chad, Mali e la Mauritania secondo ciò che è stato delineato da Washington, è molto simile ai confini dell’entità territoriale coloniale che la Francia cercò di controllare nel 1957.  Parigi pensò di promuovere quest’entità africana nel Sahara occidentale come dipartimento francese legato direttamente alla Francia, assieme all’Algeria costiera” (5).

I francesi la chiamarono Organisation commune des régions sahariennes (OCRS). Comprendeva i confini interni del Sahel e delle nazioni sahariane del Mali, Niger, Chad e Algeria. Parigi la usò per controllare i paesi ricchi di risorse, per favorire lo sfruttamento francese di materie prime come petrolio, gas e uranio.

Egli aggiunge anche che Washington aveva chiaramente pensato a quest’area ricca di risorse quando designò le aree dell’Africa che dovevano essere “ripulite” dalle cellule terroristiche e gruppi criminali. Perlomeno ora AFRICOM aveva un piano per la sua nuova strategia africana. L’istituto francese delle relazioni internazionali (Institut français des relations internationals, IFRI) discusse chiaramente questo legame fra i terroristi e le aree ricche di materie prime nel rapporto di Marzo 2011 (6).

La mappa usata da Washington per combattere il terrorismo secondo l’iniziativa del Pentagono per il Pan-Sahel mostra un’area di attività dei terroristi all’interno di Algeria, Libia, Niger, Chad, Mali e Mauritania secondo il disegno di Washington. La Trans-Saharian Conterterrorism Initiative (TSCTI) fu creata dal Pentagono nel 2005. Al Mali, Chad, Mauritania e Niger si aggiungevano ora Algeria, Mauritania, Marocco, Senegal e Nigeria e Tunisia in un teatro di cooperazione militare con il Pentagono. La Trans-Saharian Counterterrorism Initiative fu trasferita sotto il comando dell’AFRICOM il 1 ottobre 2008 (7),

I piani francesi furono frustrati durante la guerra fredda dalla guerra d’indipendenza dell’Algeria e delle altre nazioni africane, il “Vietnam” francese. La Francia fu costretta a sciogliere l’OCRS nel 1962, a causa dell’l’indipendenza algerina e del sentimento anticoloniale in Africa (8). Nonostante ciò, le ambizioni neocoloniali di Parigi non sono scomparse.

I francesi non nascondono certo la loro preoccupazione riguardo la crescente influenza cinese in quella che fu l’Africa francese. Il Primo ministro francese Pierre Moscovici affermò nel dicembre scorso a Abidjan che le imprese francesi devono andare all’attacco e scatenare un’offensiva contro l’influenza della rivale Cina scommettendo su mercati africani sempre più competitivi. ” È evidente che la Cina è sempre più presente in Africa… le imprese (francesi) che hanno i mezzi devono perseguire questa offensiva. Esse devono essere più presenti sul territorio. Esse devono combattere” affermò Moscovici durante un suo viaggio in Costa d’Avorio. (9)

Chiaramente Parigi aveva in mente un’offensiva militare per sostenere l’offensiva economica che egli aveva previsto per le compagnie francesi in Africa.

 

 

Tratto da: http://www.globalresearch.ca/the-war-in-mali-and-africoms-african-agenda-target-china/5322517

 


*Traduzione di Andrea Rosso
 

(1) Joe Bavier, French firms must fight China for stake in Africa—Moscovici,, Reuters, December 1, 2012.

(2) AFRICOM, US Africa Command Fact Sheet, September 2, 2010.

(3) Ibid.

(4) F. William Engdahl, NATO’s War on Libya is Directed against China: AFRICOM and the Threat to China’s National Energy Security, September 26, 2011.

(5) Mahdi Darius Nazemroaya and Julien Teil, America’s Conquest of Africa: The Roles of France and Israel, GlobalResearch, October 06, 2011.

(6) Ibid.

(7) Ibid.

(8) Ibid.

(9) Joe Bavier, Op. cit.

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“SULL’ORLO DEL PRECIPIZIO”

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“Sull’orlo del precipizio: cause, conseguenze e possibili soluzioni della crisi economica in Italia ed Europa”.

Venerdì 15 marzo, in via del Quirinale 26, Roma, alle ore 16.30.
 
Introduce e modera: Stefano Vernole (Cesem, Eurasia)

Intervengono:

  • Bruno Amoroso (economista, docente presso l’Università di Roskilde in Danimarca)
  • Nino Galloni (economista, ex funzionario del Ministero del Tesoro)
  • Giacomo Gabellini (Cesem, Eurasia, autore del libro “La Parabola. Geopolitica dell’unipolarismo statunitense”)

 

Organizza il Centro Studi Eurasia Mediterraneo

Ingresso Libero

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I RAPPORTI TRA IRAN E PAKISTAN

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Martedì 5 marzo scorso il nostro redattore Andrea Fais è stato contattato dalla redazione di Radio IRIB Italia per partecipare all’ultima puntata della trasmissione “Tavola rotonda”, che è andata in onda martedì 12 marzo. La trasmissione, dedicata ai rapporti tra Iran e Pakistan soprattutto alla luce dell’inaugurazione di un nuovo gasdotto che rifornirà Islamabad a partire dal prossimo anno, ha riguardato le dinamiche nella regione dell’Asia Meridionale, il ruolo che il Pakistan potrebbe svolgere nel contesto regionale ed internazionale, nonché le implicazioni geoeconomiche dell’inserimento cinese nella Regione dell’Oceano Indiano.
 
Al seguente link è disponibile la registrazione audio della “Tavola rotonda”:

http://italian.irib.ir/analisi/tavola-rotonda/item/122548

 

 

 

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