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IMPERIALISMO E IMPERO

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Sommario del numero XXIX (1-2013)

 

L’imperialismo, “fase suprema del capitalismo”

Imperialismo è un lemma del vocabolario moderno; neologismi di conio relativamente recente sono per lo più le voci formate mediante il suffisso -ismo, che nella fattispecie viene ad aggiungersi all’elemento radicale dell’aggettivo imperiale specializzandone il valore semantico, per indicare la tendenza di uno Stato ad espandersi su un’area geografica più vasta e ad esercitarvi il suo predominio politico, militare ed economico.

Non è infatti trascorso un secolo dal 1920, quando Lenin notava come da un paio di decenni, per qualificare un’epoca di relazioni internazionali inaugurata dalla guerra ispano-americana (1898) e dalla guerra anglo-boera (1899-1902), “nella pubblicistica tanto economica quanto politica del vecchio e del nuovo mondo ricorre[sse] sempre più di frequente il termine di imperialismo1 e citava come esemplare un’opera intitolata appunto Imperialism, che l’economista inglese J. A. Hobson aveva pubblicata nel 1902 a Londra ed a New York. Volendo quindi indicare la connessione del fenomeno imperialista con le sue caratteristiche economiche fondamentali, Lenin formulava la celebre definizione dell’imperialismo quale “era del capitale finanziario e poi dei monopoli”2. “Uno stadio specifico dello sviluppo dell’economia mondiale capitalista”3, ribadirà Paul M. Sweezy.

Non appare sostanzialmente diversa da quella del capo bolscevico la diagnosi del fenomeno imperialistico fatta nel medesimo periodo da un esponente del pensiero controrivoluzionario, il conte Emmanuel Malynski, che definiva gl’imperialismi come “megalomanie nazionalistiche valorizzate ingegnosamente dalla rapacità capitalista”4. Convinto difensore dell’idea imperiale e appassionato apologeta degli edifici geopolitici usciti distrutti dalla guerra mondiale e dalla rivoluzione bolscevica, l’aristocratico polacco scriveva infatti: “Nella storia contemporanea, così come nei due decenni che immediatamente la precedono, noi vedremo i nazionalismi delle grandi potenze orientarsi decisamente nel senso del capitalismo e degenerare rapidamente in imperialismo economico. Essi si troveranno così su di un piano inclinato e verranno trascinati da una concatenazione di cause e di effetti verso l’imperialismo politico. In questo modo, alla fine, il capitalismo internazionale avrà condotto le nazioni alla più gigantesca guerra mai esistita”5. Sulla stessa linea del Malynski si colloca Julius Evola, allorché denuncia “la contraffazione imperialistica dell’idea imperiale”6 come il prodotto di ideologie “di tipo nazionalistico, materialistico e militaristico”7 o di interessi economici.

Considerato da una prospettiva puramente storica, l’imperialismo può essere oggi definito come la “politica delle grandi potenze europee che tendeva a costituire degli imperi coloniali dominando territori extraeuropei da cui trarre materie prime, forza lavoro e in cui far pervenire le produzioni industriali nazionali”8, sicché la sua età “si può grosso modo delimitare temporalmente tra il 1870 e lo scoppio del primo conflitto mondiale, quando la spartizione coloniale si era sostanzialmente conclusa”9.

Tuttavia la categoria di “imperialismo” è stata usata anche in relazione alla politica esercitata dagli Stati Uniti d’America nei periodi storici successivi alla prima ed alla seconda guerra mondiale; la qual cosa non fa che confermare che l’imperialismo è un fenomeno tipico dell’età contemporanea, corrispondente ad “uno stadio specifico dell’economia mondiale capitalista”10 ed assimilabile a quella internazionalizzazione del capitalismo che è culminata nella globalizzazione.

 

 

Fenomenologia dell’Impero

Per quanto riguarda la categoria di Impero, non è facile definirla, data la grande varietà delle realtà storiche che ad essa vengono ascritte. Limitandoci a considerare quelle che hanno preso forma nell’area del Mediterraneo e del Vicino Oriente, sembra di poter constatare che a creare il modello originario dell’ordinamento imperiale sia stata la civiltà dell’antico Iran, la quale probabilmente attinse dal mondo assiro e babilonese la concezione della monarchia universale. Se entro i confini della Persia il fondamento di tale concezione è la dottrina dell’onnipotenza di Ahura-Mazda, il dio creatore del cielo e della terra che ha assegnato al “Re dei re” la signoria su popoli diversi, in Babilonia e in Egitto i sovrani achemenidi fanno riferimento alle forme religiose locali e in tal modo “assumono il carattere di re nazionali dei diversi paesi, mantenendo in ciascuno di quelli la tradizionale figura di monarca di diritto divino”11.

Il progetto di monarchia sovranazionale ispirato ad Alessandro dal modello persiano si realizza, attraverso i regni ellenistici, nell’Impero romano, che per oltre quattro secoli garantisce la convivenza pacifica e la cooperazione di una vasta comunità di popoli. I suoi fondamenti concreti sono il comune ordinamento legale (che convive con una molteplicità di fonti giuridiche)12, la diffusione della lingua latina (accanto al greco ed alle lingue locali), la difesa militare delle frontiere, l’istituzione di colonie destinate a diventare centri di irradiamento dell’influsso romano nelle province confinarie, una moneta imperiale comune (accanto alle monete provinciali e municipali), un’articolata rete stradale, i trasferimenti di popolazione.

In seguito alla deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente ed alla restituzione delle insegne imperiali a Costantinopoli, l’Impero romano continua ad esistere per altri mille anni nella parte orientale. “Struttura statale romana, cultura greca e religione cristiana sono le fonti principali dello sviluppo dell’impero bizantino. (…) L’impero, eterogeneo dal punto di vista etnico, fu tenuto unito dal concetto romano di stato e la sua posizione nel mondo fu determinata dall’idea romana di universalità. (…) Si forma tutta una complessa gerarchia di stati, al cui vertice è l’imperatore di Bisanzio, imperatore romano e capo dell’ecumene cristiana”13.

Ma due secoli e mezzo dopo che Giustiniano ha cercato di ristabilire la signoria universale riconquistando l’Occidente, un re dei Franchi cinge in Roma la corona imperiale. La solidarietà delle varie parti del Sacro Romano Impero – abitate da popoli gelosi delle loro identità etniche e culturali – si basa sui vincoli di sangue che uniscono l’imperatore ai sovrani a lui subordinati, nonché al giuramento di fedeltà con cui questi sovrani si legano all’imperatore. L’Impero carolingio non sopravvive più di un trentennio al suo fondatore; perché rinasca a nuova vita, occorre attendere l’intervento di una nuova dinastia, quella degli Ottoni, e il trasferimento della capitale da Aquisgrana a Roma.

Con Federico II di Svevia, l’Impero sembra recuperare la dimensione mediterranea. Se il Regno di Germania è un’immagine dell’Impero in quanto offre lo spettacolo di una comunità di stirpi diverse (Sassoni, Franchi, Svevi), il versante mediterraneo dell’Impero federiciano presenta un quadro di differenze ancor più profonde: il trilinguismo latino-greco-arabo della cancelleria imperiale ben rappresenta un mosaico di popolazioni d’origine latina, greca, longobarda, araba e berbera, normanna, sveva, ebraica, le quali per di più appartengono a confessioni religiose diverse. Perciò Federico, dice un suo biografo, “riuniva in sé i caratteri dei diversi sovrani della terra; era il più grande principe tedesco, l’imperatore latino, il re normanno, il basileus, il sultano”14. Ed è quest’ultimo titolo a far risaltare quanto vi è di specifico nella sua idea imperiale: l’aspirazione a ricomporre l’unità di autorità spirituale e potere politico.

In seguito alla conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani, l’eredità dell’Impero romano viene rivendicata da due nuove e distinte formazioni imperiali: mentre “l’Impero Romano greco e cristiano cade per risorgere nella forma di un Impero Romano turco e musulmano”15, generando così “l’ultima ipostasi di Roma”16, Mosca si prepara a diventare la “terza Roma”, poiché, come scrive Benedetto XVI, “fonda un proprio patriarcato sulla base dell’idea di una seconda translatio imperii e si presenta dunque come una nuova metamorfosi del Sacrum Imperium17.

Nell’Europa centrale e occidentale, il Sacro Romano Impero della Nazione Germanica risente l’effetto della nascita dei primi Stati nazionali; ma il corso degli eventi sembra mutare con Carlo V, “campione di quella vecchia idea europea che appare oggi modernissima”18, quando l’impero fondato da Carlo Magno si libera dell’aspetto strettamente germanico che lo ha connotato dal XIV al XV secolo e tende a recuperare l’originario carattere sovranazionale per mantenerlo anche nei secoli successivi, fino al tramonto della Monarchia asburgica. Per tutto il Cinquecento e buona parte del Seicento l’Impero “fu la manifestazione storica di una forza centripeta che tese a unificare i vari regni nei quali la cristianità si era divisa nel corso del medioevo; la sua capacità di aggregazione, d’affermazione e poi di tenuta lascia ipotizzare l’esistenza di possibilità per la storia europea diverse rispetto a quelle che si sono concretizzate”19.

Con la pace di Presburgo, Francesco II rinuncia alla dignità di Sacro Romano Imperatore, che le conquiste napoleoniche hanno svuotata della corrispondente sostanza territoriale; al tempo stesso, si offre a Napoleone la possibilità di raccogliere l’eredità carolingia in un Impero di nuovo conio, un insieme continentale di territori tenuti insieme dalla potenza militare francese e guidati dai diretti fiduciari dell’Empereur. Così, perfino esponenti della vecchia aristocrazia europea sono disposti a vedere in lui “un imperatore romano – un imperatore romano francese, se si vuole, come prima era stato tedesco, ma pur tuttavia un imperatore, di cui il Papa sarebbe stato l’elemosiniere, i re i grandi vassalli e i principi i vassalli di questi vassalli. Un sistema feudale, insomma, col vertice della piramide che era mancato alla pienezza del Medioevo”20.

 

 

Ripensare l’Impero

Da questa sia pur limitata e sintetica rassegna storica, che dall’Europa potrebbe benissimo essere estesa ad altre aree della terra, risulta che l’Impero non è semplicemente una grande potenza politico-militare la quale esercita il proprio controllo su un’ampia estensione territoriale. In maniera più adeguata, l’Impero può essere definito come “un tipo di unità politica che associa delle etnie, dei popoli e delle nazioni diverse ma imparentate e riunite da un principio spirituale. Rispettoso delle identità, è animato da una sovranità fondata sulla fedeltà più che sul controllo territoriale diretto”21. Ogni manifestazione storica del modello imperiale si è infatti configurata, al di là della sua dimensione geografica e della varietà etnica e confessionale della popolazione corrispondente, come un ordinamento unitario determinato da un principio superiore.

Per quanto riguarda l’Europa, l’Impero ne ha sempre costituito il cuore ideale e politico, il centro di gravità, finché, con la decadenza e poi con la definitiva scomparsa delle più recenti forme imperiali, la stessa Europa si è identificata sempre più con l’Occidente, fino a diventare un’appendice della superpotenza transatlantica e una sua testa di ponte per la conquista dell’Eurasia.

Ma l’unipolarismo a guida statunitense non è eterno; la transizione ad un nuovo “nomos della terra” articolato in un pluriversum di “grandi spazi” rientra ormai in una prospettiva realistica, sicché l’Europa dovrà, prima o poi, ripensare il modello dell’Impero, l’unico modello politico di unità sovranazionale che essa abbia sviluppato nel corso della sua storia.

 

 

 

NOTE:

1. Vladimir I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Milano 2002, p. 33.

2. Vladimir I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, cit., p. 140.

3. Paul M. Sweezy, The Theory of Capitalist Development, New York 1968, p. 307.

4. Emmanuel Malynski, Les Eléments de l’Histoire Contemporaine, cap. V, Paris 1928; trad. it. Fedeltà feudale e dignità umana, Padova 1976, p. 85. Dello stesso autore: L’Erreur du Prédestiné, 2 voll., Paris 1925; Le Réveil du Maudit, 2 voll., Paris 1926; Le Triomphe du Réprouvé, 2 voll., Paris 1926; L’Empreinte d’Israël, Paris 1926 (trad. it. Il proletarismo, fase suprema del capitalismo, Padova 1979); La Grande Conspiration Mondiale, Paris 1928; John Bull et l’Oncle Sam, Paris 1928; Le Colosse aux Pieds d’Argile, Paris 1928. La Guerre Occulte, apparsa a Parigi sotto i nomi di Emmanuel Malynski e di Léon de Poncins nel 1936 (due anni prima della morte del Malynski), fu edita varie volte in italiano tra il 1939 (Ulrico Hoepli, Milano) e il 2009 (Edizioni di Ar, Padova).

5. Emmanuel Malynski, op. cit., ibidem.

6. Julius Evola, L’Inghilterra e la degradazione dell’idea di Impero, “Lo Stato”, a. IX, 7 luglio 1940.

7. Julius Evola, Universalità imperiale e particolarismo nazionalistico, “La Vita italiana”, a. XIX, n. 217, aprile 1931.

8. Enrico Squarcina, Glossario di geografia politica e geopolitica, Milano 1997, pp. 81-82.

9. Enrico Squarcina, Glossario di geografia politica e geopolitica, cit., p. 82.

10. Paul M. Sweezy, The Theory of Capitalist Development, New York 1968, p. 307.

11. Pietro de Francisci, Arcana imperii, vol. I, Roma 1970, p. 168.

12. “I diritti indigeni sopravvissero e continuarono ad essere applicati nelle diverse comunità che costituivano l’Impero: diritto ‘greco’ (in realtà diritto indigeno spolverato di diritto greco) in Egitto, diritto delle città greche nel Mediterraneo orientale, diritto di tale o talaltra tribù in Mauritania o in Arabia, diritto ebraico (Torah) per gli ebrei” (Maurice Sartre, L’empire romain comme modèle, “Commentaire”, primavera 1992, p. 29).

13. Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino 1993, pp. 25-26.

14. Giulio Cattaneo, Lo specchio del mondo, Milano 1974, p. 137.

15. Arnold Toynbee, A Study of History, vol. XII, 2a ed., London – New York – Toronto 1948, p. 158.

16. Nicolae Iorga, The Background of Romanian History, cit. in: Ioan Buga, Calea Regelui, Bucarest 1998, p. 138. Cfr. C. Mutti, Roma ottomana, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. I, n. 1, ott.-dic. 2004, pp. 95-108.

17. Josef Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, Milano 2004, p. 15.

18. D. B. Wyndham Lewis, Carlo Quinto, Milano 1964, p. 18.

19. Franco Cardini – Sergio Valzania, Le radici perdute dell’Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali, Milano 2006, p. 16.

20. Emmanuel Malynski, La guerra occulta, Padova 1989, pp. 48.

21. Louis Sorel, Ordine o disordine mondiale?,in L. Sorel – R. Steuckers – G. Maschke, Idee per una geopolitica europea, Milano 1998, p. 39.

 

 

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IMPERIALISMO E IMPERO

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È uscito il numero XXIX (1-2013) della rivista di studi geopolitici “Eurasia”, un volume di 272 pagine intitolato:

 

IMPERIALISMO E IMPERO

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi.

 

 

IMPERIALISMO E IMPERO di Claudio Mutti

 

 

L’IDEALE POSIZIONE GEOGRAFICA DI ROMA  di Marco Tullio Cicerone

Cicerone pone in risalto la straordinaria idoneità del luogo in cui venne fondata Roma. Egli ritiene che nel caso di Roma agli aspetti vantaggiosi della distanza dal mare si aggiungano quelli, altrettanto positivi, della navigabilità del Tevere. Una città collocata in un punto tanto favorevole, conclude Cicerone, “avrebbe offerto sede e dimora ad un immenso impero. Infatti nessuna città situata in un’altra parte dell’Italia avrebbe forse potuto mantenere più facilmente questa così grande potenza”.

 

 
L’UNITÁ DELL’EURASIA IN UNA PROSPETTIVA GEOFILOSOFICA  di Fabio Falchi

Se è vero che il compito della geofilosofia consiste principalmente nella comprensione del nostro essere del mondo, è palese che la questione dell’essere sia decisiva per capire quell’apertura alla spazialità che, secondo Heidegger, caratterizza l’essere dell’uomo. D’altra parte, anche se  non si  può non  tener conto della critica heideggeriana alla metafisica occidentale in quanto “ontoteologia”, il modo in cui Colli o certi filosofi iraniani intendono il significato dell’ “esistenza ” sembra mostrare il senso autentico del fondamento ontologico del nostro abitare su questa terra; tanto da giustificare una definizione della dimensione metafisica e metapolitica dell’unità del continente eurasiatico come “eu-topia”. Vale a dire come una terra in cui si possa ancora abitare e costruire, in base ad una prospettiva radicalmente differente dalla “utopia” di una terra priva di “luoghi”.

 

 
L’IDEA DI IMPERO NEL DIRITTO INTERNAZIONALE di Carl Schmitt

In alternativa alla concezione interstatale ereditata dal XIX secolo ed all’aspirazione universalistica delle democrazie occidentali, il compito della scienza giuridica tedesca consiste nell’elaborare la concezione di un nuovo ordinamento. Tale concezione può consistere soltanto nell’idea giuridica di un Impero inteso come ordinamento di “grandi spazi”, che interdica alle potenze estranee l’intervento in questi spazi stessi.

 

 
L’IMPERO SECONDO SCHMITT E LA QUARTA TEORIA POLITICA di Aleksandr Dugin

L’ordine internazionale è in corso di cambiamento: dal sistema moderno fondato sugli Stati-nazione si sta passando ad un sistema postmoderno di mondializzazione. È il momento propizio per ripensare, con Carl Schmitt, alcune nozioni soggiacenti al cambiamento in atto. Si tratta soprattutto della nozione di Grossraum, “grande spazio”, che si trova alla base dell’idea di Impero, ma che può anche applicarsi ai blocchi d’integrazione come l’Unione Europea o l’Unione Eurasiatica.

 

 
IL PROGETTO “IMPERO” di Aleksandr Dugin

L’idea di Impero può essere concepita in maniera diversa sia da un punto di vista storico sia da un punto di vista formale. Nel secondo caso, si tratta del concetto di un’organizzazione dello spazio politico che comporti la centralizzazione degli affari strategici e una certa decentralizzazione in termini di autonomie regionali.

 

 
L’IMPERO COME GRANDE SPAZIO di Fabio Falchi

A Michael Hardt e Antonio Negri, apologeti dell’”Impero globale” in quanto sistema di potere deterritorializzato che favorisce una visione del mondo universalista e cosmopolita, non è difficile obiettare che non è casuale che tale potere sia territorialmente e culturalmente insediato negli Stati Uniti. Inoltre, se è indubbio che “Impero” non significa imperialismo, il principio ispiratore del vero Impero è del tutto diverso dall’universalismo “astratto” difeso da Hard e Negri. Si tratta del principio che fonda lo schmittiano “grande spazio” e che è essenziale comprendere per opporsi alla “pre-potenza” degli Stati Uniti e del mercato globale.

 

 
L’IDEA DI IMPERO di Alain de Benoist 

Tramontata l’epoca degli Stati nazionali, l’Europa, per esistere, ha bisogno di unità politica. Ma la sua unità politica non può essere costruita secondo il modello giacobino, che ne metterebbe a rischio la ricchezza e la diversità, né può risultare dalla semplice sopranazionalità economica sognata dai tecnocrati di Bruxelles. Come non interrogarsi allora sull’idea di Impero? L’Impero si ricollega all’idea di un ordine equo che mira, all’interno di una data area di civiltà, a federare i popoli sulla base di un’organizzazione politica concreta, al di fuori di ogni prospettiva di conversione o di livellamento. Da questo punto di vista, l’Impero si distingue nettamente da un ipotetico Stato mondiale o dall’idea secondo cui esisterebbero princìpi giuridico-politici validi universalmente, in ogni tempo e in ogni luogo.

 

 
PERCHÉ GLI USA NON SONO UN IMPERO di Massimo Janigro

L’articolo esamina la genesi e la prassi della superpotenza statunitense, nonché il rapporto che essa ha con il mondo. Questi elementi vengono sinteticamente confrontati con l’idea di struttura imperiale, per capire se gli Stati Uniti possano essere considerati o meno un impero e perché.

 

 
LA VOCAZIONE IMPERIALE DEI TURCHI di Aldo Braccio

L’affascinante percorso storico dei Turchi – spesso trascurato e  oggetto di pregiudizi nelle società occidentali – comprende la costituzione e la partecipazione a svariate formazioni imperiali. Popolo nomade e guerriero per eccellenza, quello turco, che ha saputo interagire con mondi diversi imponendosi ma generalmente rispettando la molteplicità delle forme religiose, etniche e culturali con cui si è confrontato. L’esperienza selgiuchide e quella ottomana – ma anche quelle che portano il sigillo di Gengis Khan e di Tamerlano – rientrano in questo ambito, così come altre esperienze storiche più lontane nel tempo.

 

 
IL PARTITO COMUNISTA CINESE ALLA RISCOPERTA DEL CELESTE IMPERO di Andrea Fais

Durante la fase di avviamento delle politiche di riforma e apertura stabilite dal presidente Deng Xiaoping nel 1980, la Repubblica Popolare Cinese ha intrapreso la strada della cosiddetta economia socialista di mercato. Se da un lato le quattro modernizzazioni (agricoltura, industria, tecnologia e difesa) hanno consentito la crescita della potenza asiatica, dall’altro lato il gruppo politico dirigente ha inteso recuperare alcuni fra i più importanti principi del pensiero tradizionale cinese. Fra questi, il contributo del confucianesimo è senz’altro quello che anima maggiormente la discussione relativa all’assetto politico e strategico della nazione, ma non vanno sottovalutati i tanti altri spunti che rendono il dibattito interno al Paese molto più vivo e dinamico di quanto si sia soliti pensare in Occidente, dove il potere politico cinese viene percepito come un monolitico blocco di potere spesso impropriamente paragonato alle vecchie nomenklature dell’Europa dell’Est.

 

 
IL MITO DELL’IMPERO NELL’AMERICA INDIOLATINA di Francisco de la Torre Freire

Benché il principio universale dell’Impero sia stato comune a tutte le culture dell’America precolombiana, questo articolo si  occupa soltanto di quelle meglio conosciute: le civiltà azteca ed inca, nelle quali il principio solare si manifestò nel modo più evidente. In seguito all’aggressione e all’occupazione spagnola, nell’America indiolatina ebbe luogo l’evento della translatio Imperii.

 

 
L’IMPERO ISLAMICO di Enrico Galoppini

Le direttrici principali seguite dall’espansione islamica, sin dalle origini, delineano una chiara consapevolezza dal punto di vista geopolitico da parte dei califfi che si sono avvicendati alla guida della “comunità dei credenti”. La capitale dello Stato islamico si è così spostata in ragione delle differenti esigenze strategiche individuate dalle dinastie di turno. In questo modo, inoltre,  la tradizione islamica ha potuto diffondersi ed adattarsi tra popolazioni non arabe, dalle quali ha ricevuto contributi essenziali nei differenti domini della civiltà.

 

 
LA GUERRA CIVILE IN YEMEN (1962-1970) di Alessandro Lattanzio

La guerra civile nello Yemen, esplosa negli anni ’60 fra le locali forze monarchiche e quelle nazionaliste, assunse ben presto il carattere di uno scontro fra il panarabismo socialista rappresentato dall’Egitto di Nasser e il campo del conservatorismo arabo alleato dell’Occidente.Arabia Saudita e Giordania si erano infatti alleate con il colonialismo britannico e con l’imperialismo statunitense, al fine di impedire il processo di rinnovamento socio-economico del Vicino Oriente e il suo corrispondente ricollocamento geopolitico e geostrategico. Sebbene appaia un episodio minore, la battaglia per lo Yemen fornì un’anticipazione dello scontro ideologico-culturale cui si assiste oggi nel Vicino Oriente.

 

 
INTEGRALISMO E DISINTEGRAZIONE di Paolo Sampaoli

La civiltà islamica, nonostante la sua vocazione universalistica e la multiforme fioritura di scuole che hanno offerto contributi decisivi in ogni ambito dell’umana versatilità – dalle arti, alle scienze, alla filosofia, alla metafisica – ha generato anche un numero importante di “correnti spirituali” che spesso sono state rigettate, riconosciute incompatibili con i princìpi stessi della rivelazione coranica e guardate piuttosto quali manifestazioni di natura settaria. Alcune di queste, per essere il paradigma di una speciale mentalità che si è ripresentata più volte nella storia, sembrano quasi tracciare i secoli con un sottile, e talvolta “carsico”, filo rosso, il quale arriva sino ai nostri giorni segnando l’attualità con una presenza tanto ingombrante quanto temibile. Per strano che possa sembrare, le espressioni odierne di simili tendenze, apparentemente incompatibili e contrastanti fra di loro, affondano le radici in antiche visioni del mondo, le quali hanno ricevuto dalla mentalità moderna il terreno più fertile per la loro riproposizione.

 

 
IL PETROLIO E LA SUPREMAZIA GEOSTRATEGICA USA di Giacomo Gabellini

Negli Stati Uniti, a partire dalle soglie del XX secolo, la figura del cercatore di petrolio andò gradualmente sostituendosi a quella, mitica, del cercatore d’oro. Ciò rispecchiava un mutamento culturale, politico ed economico determinato e indotto dalla prorompente affermazione degli Stati Uniti sul vasto scenario internazionale; un’ascesa fondata sul petrolio, risorsa fonddamentale che ancora oggi sorregge la declinante egemonia geopolitica statunitense.

 

 
LA SPAGNA FRANCHISTA E CUBA di Haruko Hosoda

Questo studio intende indagare perché il regime spagnolo sotto Francisco Franco (1939-1975) e il regime cubano sotto Fidel Castro (1959-2008) mantenessero relazioni diplomatiche date le loro opposte ideologie; questo è significativo, dal momento che il regime di Franco era isolato internazionalmente dopo la Seconda Guerra Mondiale, e tuttavia poteva sopravvivere grazie alla sua posizione anticomunista, grazie alla quale riceveva assistenza economica e militare statunitense. Lo studio si concentra sulla politica estera spagnola verso Cuba, prendendo in considerazione come la Spagna sia stata in grado di “utilizzare” questa posizione contraddittoria. In primo luogo, Franco prestò grande attenzione a mantenere relazioni con Cuba. Nello specifico, sentiva che l’onore della Spagna, danneggiato dalla Guerra Ispano-Americana, era stato indirettamente recuperato da Cuba. In aggiunta, Franco e Castro condividevano valori comuni in termini di morale e patriottismo. In secondo luogo, le élite spagnole ritenevano che la Spagna richiedesse una politica “peculiare” che avrebbe stabilito il suo status di “media potenza e di Stato influente” in una particolare regione e le avrebbe permesso di distanziarsi dalla Guerra Fredda. In aggiunta, si pensava che la Spagna, sebbene tagliata fuori da gran parte della diplomazia europea, a causa di un regime non-democratico e anticomunista, potesse ancora giocare un ruolo come “intermediario” tra il mondo occidentale e l’America Latina, specialmente tra gli Stati Uniti e Cuba, senza richiedere cambiamenti al regime spagnolo.

 

 
NEOLIBERISMO E PENSIERO UNICO di Cristiano Procentese

Dopo il crollo del muro di Berlino e la conseguente caduta del sistema comunista, l’Occidente si è trovato improvvisamente privo di un’alternativa ideologica in grado di contrastare un capitalismo che, attraverso il fenomeno della globalizzazione, si è diffuso su scala planetaria. A partire dagli anni Ottanta è avanzata rapidamente l’ideologia neoliberista, fortemente orientata al cosiddetto laissez-faire, al mercato e alla finanza. Le conseguenze più evidenti sono: un eccessivo rafforzamento del mercato a spese di funzioni chiave dello stato, la crisi dei modelli tradizionali di stato sociale e di produzione, un crescente aumento delle diseguaglianze, della precarietà e un modello di società basato sui consumi. Appare evidente che l’attuale sistema politico non è in grado di governare i processi socio-economici della globalizzazione in atto. Bisogna pertanto decostruire l’immaginario collettivo basato sul “mantra” del mercato, sull’irreversibilità del modello di sviluppo economico attuale e ripensare criticamente un sistema sociale ed economico a misura d’uomo.

 

 
IBERISMO E ARABISMO IN FERNANDO PESSOA di F. Boscaglia e P.J. Pérez López

Oggetto d’indagine di questo breve articolo è il corpus di scritti nei quali Fernando Pessoa sostenne la tesi dell’unità culturale, più e prima che politica, dei popoli iberici. Pessoa analizzò le caratteristiche di tali popoli e, tra queste, la presenza di un elemento culturale arabo-islamico nell’Iberia. Gli obiettivi principali di questo studio sono di fornire una sintetica introduzione al pensiero iberista di Pessoa e di illustrare in particolare la presenza arabo-islamica in tale pensiero. Cenni di natura biobibliografica e storico-culturale corredano il testo con l’obiettivo di contestualizzarne i contenuti, oltre che nell’area degli studi pessoani, nel campo delle riflessioni sulla presenza arabo-islamica nella letteratura e nel pensiero europei.

 

 
LEGGI DELL’IMPERO AUSTRO-UNGARICO

Legge costituzionale sui diritti generali dei cittadini per i regni e paesi rappresentati al Reichsrath del 21 dicembre 1867.

Legge cisleitana sugli affari comuni a tutti i paesi della Monarchia au­striaca e sul modo di trattarli; del 21 dicembre 1867.

 

 
INTERVISTA A S.E. DING WEI, AMBASCIATORE DELLA CINA IN ITALIA a cura di Stefano Vernole

 

 

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Imperialismo e Impero

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EURASIA 1/2013 (gennaio-marzo 2013), 272 pagine

 

Editoriale 

Claudio Mutti, Imperialismo e Impero

Geofilosofia

Marco Tullio Cicerone, L’ideale posizione geografica di Roma
Fabio Falchi, L’unità dell’Eurasia in una prospettiva geofilosofica

Dossario

Carl Schmitt, L’idea di Impero nel diritto internazionale
Aleksandr Dugin, L’Impero secondo Schmitt e la quarta teoria politica
Aleksandr Dugin, Progetto “Impero”
Fabio Falchi, L’Impero come grande spazio
Alain de Benoist, L’idea di Impero
Massimo Janigro, Perché gli USA non sono un Impero
Aldo Braccio, La vocazione imperiale dei Turchi
Andrea Fais, Il Partito Comunista Cinese alla riscoperta del Celeste Impero 
Francisco de la Torre Freire, Il mito dell’Impero nell’America indiolatina
Enrico Galoppini, L’Impero islamico

Continenti

Alessandro Lattanzio, La guerra civile in Yemen (1962-1970)
Paolo Sampaoli, Integralismo e disintegrazione
Giacomo Gabellini, Il petrolio e la supremazia geostrategica USA
Haruko Hosoda, La Spagna franchista e Cuba
Cristiano Procentese, Neoliberismo e pensiero unico
F. Boscaglia – P. J. Pérez López, Iberismo e arabismo in Fernando Pessoa

Documenti

Leggi dell’Impero austro-ungarico

Interviste

Intervista a S. E. Ding Wei, Ambasciatore della Cina in Italia

 

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto per ciascuno di essi. 
 

 

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L’AMERICA LATINA DAVANTI ALLA SFIDA DELL’ENERGIA SOSTENIBILE

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Il 2012 è stato designato “anno dell’energia sostenibile per tutti” dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la quale ha colto l’occasione per richiamare l’attenzione della comunità internazionale sul tema del rispetto dell’ambiente e dello sviluppo energetico sostenibile[1].

L’obiettivo che la comunità internazionale si è proposta di raggiungere nel corso dei numerosi vertici che si susseguono da circa un ventennio[2] è quello di garantire l’accesso energetico a tutti gli abitanti del pianeta[3]. Sebbene la diffusione dell’energia elettrica su scala mondiale ed il rispetto dei parametri internazionali sanciti nelle diverse Convenzioni internazionali sull’ambiente possano sembrare realtà inconciliabili, l’utilizzo di forme di energia sostenibili può rappresentare un valido strumento per risolvere i problemi legati alla crescente povertà nel mondo, alla crisi finanziaria mondiale ed alla futura mancanza di risorse per il sostentamento dell’intero pianeta[4].

La crisi finanziaria, che sta colpendo in particolare i Paesi occidentali, può costituire un’occasione per un punto di svolta verso un nuovo modo di utilizzare le risorse disponibili a livello globale. Il rapido sviluppo economico di alcuni Stati che si affacciano nello scenario internazionale, quali nuovi protagonisti dell’economia mondiale, può infatti rappresentare per l’Europa e per l’Italia[5] l’opportunità per aprirsi a nuovi mercati.

La crisi economica, che dal 2008 non accenna a diminuire, sta mettendo in difficoltà in particolar modo le economie dei Paesi europei. Trattandosi di una crisi prevalentemente finanziaria, analizzando il bilancio degli Stati occidentali emerge la presenza di uno scompenso nelle cd. attività detenute e un aumento delle passività. Tale situazione appare invece invertita per quanto riguarda i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) che stanno accumulando riserve di valute straniere “forti”, come ad esempio i dollari americani, e al contempo registrano un afflusso di capitali dall’estero, con una conseguente crescita di investimenti diretti esteri e una riduzione del proprio indebitamento pubblico[6].

Oltre ai cinque Stati facenti parte dei Brics, tra le zone del mondo maggiormente interessate dal grande sviluppo a livello economico dei nostri giorni, vi sono i Paesi dell’America latina. E’ opportuno ricordare che questi ultimi stanno vivendo un periodo particolarmente favorevole non solo per quanto riguarda l’aspetto economico, ma anche per quanto concerne il consolidamento delle istituzioni democratiche all’interno dei singoli Stati. Grazie all’economia florida, le disuguaglianze dovute alla diversa distribuzione del reddito tra gli abitanti di numerosi Paesi dell’America latina stanno venendo via via attenuandosi a favore di un contesto di maggiore stabilità socio-economica[7]. Tale scenario geopolitico appare in netta contrapposizione con quanto sta avvenendo nei Paesi occidentali nei quali l’economia appare stagnante e dove le disuguaglianze nel reddito appaiono sempre più accentuarsi con la prosecuzione della crisi.

L’area sudamericana rappresenta oggi una delle regioni nelle quali lo sviluppo economico ha raggiunto livelli ragguardevoli e verso la quale si stanno orientando gli investitori dei Paesi occidentali. Il Brasile è senz’altro lo Stato che tra i Paesi dell’America latina ha svolto la funzione di principale attore nel mercato globale. Anche se la produzione non ha registrato un aumento costante[8], le prospettive di crescita economica rimangono comunque notevoli grazie alla domanda interna in continua crescita, a causa dell’aumento del reddito pro capite che ha visto coinvolta gran parte della popolazione brasiliana[9].

Oltre al Brasile, anche il Cile sta muovendo i primi passi nell’economia mondiale, si tratta infatti del primo Stato andino ad essere stato ammesso all’Ocse[10]. Gli interventi legislativi volti ad incentivare la libertà d’impresa e a snellire la burocrazia hanno permesso al Paese di diventare uno dei principali interlocutori sud americani nel contesto mondiale.

Appare opportuno sottolineare come alcuni Paesi dell’area sudamericana, che negli anni passati hanno conosciuto grandi difficoltà di tipo socioeconomico e proprio a causa di ciò sono considerati più vulnerabili agli attacchi speculativi, non hanno avvertito effetti minimamente paragonabili a quelli verificatisi nel continente europeo a causa dell’attuale crisi[11].

Se analizziamo le cause che hanno contribuito allo sviluppo economico dei Paesi sud americani, possiamo affermare che quest’ultimo è stato favorito in gran parte dai progressi che sono stati effettuati in vari settori dell’economia e non da ultimo, in quello energetico. Grazie all’estensione territoriale di alcuni Stati e allo sviluppo delle conoscenze tecnologiche, avvenuto in particolar modo in Messico e Brasile, si è proceduto ad una diversificazione energetica che ha portato all’utilizzo di forme di energia rinnovabili[12].

Secondo i dati registrati dall’agenzia delle Nazioni Unite ECLAC (Economy Commission for Latin America and the Caribbean), grazie alle energie rinnovabili prodotte nell’area sudamericana, si è prodotto l’equivalente di 1.284.164,0 milioni di barili di petrolio all’anno. Il principale produttore di energie rinnovabili è il Brasile, seguito da Messico, Venezuela, Colombia, Argentina e Cile. Tra le fonti di energia rinnovabili, il Brasile, l’Uruguay e l’Argentina hanno investito in particolar modo sul biocarburante. Inoltre, accanto alla produzione di biocombustibili, anche le risorse idriche hanno costituito un valido contributo per la produzione di energia alternativa[13]. In particolare, il Brasile ha sostenuto alcune tra le più innovative iniziative private nel settore grazie a finanziamenti pubblici, i quali hanno permesso di realizzare un progetto complessivo in cui si prevede un aumento di circa 25.000 MW della capacità di fornitura di energia idrica del Paese.

Oltre ai biocombustibili e all’energia idroelettrica, gli Stati sud americani stanno investendo sulla geotermia: alcuni Paesi, grazie alla loro collocazione geografica nella zona conosciuta come “anello di fuoco”, situata nell’Oceano Pacifico e nella quale si trovano la maggior parte dei vulcani del mondo, stanno pensando di sfruttarne l’enorme potenziale per la produzione di energia geotermica.

In conclusione, la produzione di energia alternativa e gli investimenti legati alle infrastrutture messi in atto presso alcuni Stati dell’America latina per rilanciare l’economia, associati alle risorse naturali presenti nel continente sud americano, potrebbero rappresentare un florido mercato per molte delle aziende europee ed italiane impegnate nella produzione di energia, come peraltro sta accadendo con Eni ed Enel[14].

Saper cogliere l’opportunità di investire in Paesi che hanno ancora molto da offrire sul piano energetico grazie alle risorse presenti sul territorio potrebbe significare dare inizio ad una politica economica volta al rispetto dell’ambiente, alla riduzione delle disuguaglianze sociali in aree del mondo nelle quali non vi è accesso all’energia ed al contempo, raggiungere alcuni dei cd. obiettivi del millennio promossi dalle Nazione Unite come ad esempio, garantire la sostenibilità ambientale e sradicare la povertà estrema. Inoltre, gli Stati di tutto il mondo si sono impegnati a perseguire tre obiettivi legati all’ approvvigionamento energetico entro il 2030[15]. In particolare, essi saranno tenuti a favorire l’accesso universale ai moderni servizi energetici e raddoppiare sia la quantità di energia prodotta da fonti rinnovabili, sia il tasso globale di miglioramento dell’efficienza energetica.

Alla luce di quanto esaminato appare chiaro che per uscire dalla crisi gli Stati europei saranno chiamati a scegliere l’innovazione e a trovare nuovi mercati nei quali operare. Solo attraverso una visione del futuro rivolta verso nuove frontiere e basata sulla piena collaborazione di imprese, istituzioni e governi nel rispetto dell’ambiente e dell’uguaglianza sociale sarà possibile raggiungere i risultati che gli Stati si sono impegnati a raggiungere. Gli obiettivi che ci si è proposti di conseguire a livello mondiale saranno realizzabili unicamente attraverso il superamento dei limiti imposti dal nostro sistema economico ed emersi sotto forma della crisi, tuttora irrisolta, che sta mettendo a dura prova gli Stati occidentali dal 2008 sino ad oggi.

 

 



[1]Le campagne promosse dalle Nazioni e da altre organizzazioni internazionali per promuovere l’utilizzo dell’energia sostenibile hanno avuto successo grazie anche alla collaborazione di numerosi Stati. Per avere maggiori informazioni sulle attività delle Nazioni Unite si rimanda al sito web: www.sustainableenergyforall.org/actions-commitments.

[2]Ultimo in ordine di tempo è il meeting sull’ambiente tenutosi dal 20 al 22 giugno 2012 a Rio de Janeiro (Brasile). Si rimanda al sito internet delle Nazioni Unite: www.uncsd2012.org

[3] Si legga in proposito la nota del Segretario Generale delle Nazioni Unite del 31 luglio 2012, intitolata Sustainable Energy for All: a Global Action Agenda, A/67/175, consultabile al sito internet: www.unric.org/it/component/content/article/14-economic-and-social/27798-anno-internazionale-dellenergia-sostenibile-per-tutti-2012

[4] La dottrina si è occupata ampiamente del tema dello sviluppo sostenibile. In particolare sul tema si ricordano il contributo di Filippo Salvia, Ambiente e sviluppo sostenibile, “Riv. giur. Ambiente”, 1998, p. 235 e ss., Mauro Politi, “Tutela dell’ambiente e “sviluppo sostenibile”: profili e prospettive di evoluzione del diritto internazionale alla luce della conferenza di Rio de Janeiro”, in AA.VV., Scritti degli allievi in memoria di Giuseppe Barile, Cedam, Padova, 1995, p. 447 e ss.

[5] Si segnala in proposito l’opera di Alessandro Colombo, Ettore Greco (a cura di), La politica estera dell’Italia, Edizione 2012, Collana Iai/Ispi”, 2012.

[6] Per approfondimenti si rimanda a AA.VV., BRICS: i mattoni del nuovo ordine, in Eurasia, Rivista di Studi Geopolitici, XXIV, 3-2011 e AA.VV., Paolo Quercia e Paolo Magri (a cura di), I Brics e noi, L’ascesa di Brasile, Cina, Russia e India e le conseguenze per l’occidente, ISPI, 2011.

[7] Illuminanti sono le parole pronunciate dal Segretario Generale dell’OCSE, Ángel Gurría, nel 2010 in merito alla situazione della classe media in America Latina: “A growing and vibrant middle class is a sign of good economic prospects in Latin America. However, Latin Americans in the middle of the income distribution still face serious hurdles in terms of purchasing power, education and job security. These groups still have some way to go to be fully comparable to the middle classes in more advanced economies”.

[8] Vedi ad esempio, il terzo trimestre del 2011.

[9] Per approfondimenti sull’economia brasiliana si rimanda al sito dell’OCSE: www.oecd.org/brazil/. Inoltre, si leggano Annabelle Mourougane, Mauro Pisu, Promoting Infrastructure Development in Brazil, OECD Economics, Department Working Papers, No. 898, 2011, OECD Publishing consultabile alla pagina web: www.oecd-ilibrary.org/economics/promoting-infrastructure-development-in-brazil_5kg3krfnclr4-en e Jens Arnold, Raising Investment in Brazil, OECD, Economics Department Working Papers, No. 900, OECD Publishing, 2011, pubblicato al sito internet: www.oecd-ilibrary.org/economics/raising-investment-in-brazil_5kg3krd7v2d8-en.

[10] Si rimanda al sito internet ufficiale dell’OCSE, nel quale è possibile reperire informazioni sullo stato economico attuale del Cile: www.oecd.org/chile

[11]Un esempio in tal senso è dato dall’Argentina la quale, in contro tendenza rispetto agli altri Stati sud americani, non ha registrato una crescita economica tale da far pensare ad uno sviluppo del Paese stabile e duraturo, ma ha raggiunto e mantenuto nella capitale Buenos Aires una media di crescita economica annua pari all’8%. Si legga inoltre, il rapporto dell’OCSE dal titolo Latin American Economic Outlook 2013
SME Policies for Structural Change
, Economic Commission for Latin America and the Caribbean, OECD Publishing , 11 Jan 2013.

[12] Si legga Manlio F. Coviello, Juan Gollán y Miguel Pérez, Las Alianzas Público-Privadas en Energías Renovables en América Latina y el Caribe, CEPAL, 2012, consultabile in formato PDF al sito internet www.eclac.org/publicaciones/xml/3/46743/Lcw478e.pdf.

[13] Riguardo alla produzione di energia idroelettrica in Cile si legga il report dell’ECLAC, dal titolo: Análisis de la Vulnerabilidad del Sector Hidroeléctrico Frente a Escenarios Futuros de Cambio Climático en Chile, CEPAL, 2012, consultabile in formato PDF al sito intenet: www.eclac.org/publicaciones/xml/0/49060/AnalisisDeLaVulnerabilidad.pdf

[14]Per approfondimenti si rimanda al sito dell’Eni nella parte relativa alla sostenibilità: www.eni.com/it_IT/sostenibilita/sostenibilita.shtml e a quello dell’Enel per le notizie relative agli investimenti in Sud America: www.enel.com/it-IT/media/news/con-enel-cresce-la-capacita-energetica-in-sud-america/p/090027d981a1ac4e

[15]Si veda il sito internet delle Nazioni Unite dedicato agli obiettivi del millennio e consultabile alla pagina web: www.un.org/millenniumgoals/

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DIECI ANNI FA, LA SECONDA GUERRA DEL GOLFO

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Dieci anni fa, esattamente il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti, insieme con la Gran Bretagna, davano inizio alla Seconda Guerra del Golfo. A nulla valse l’opposizione della Francia, della Russia e della Cina, gli altri tre membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (un’organizzazione che confermò di non essere, né di poter essere, un autentico “attore geopolitico”, in grado cioè di far valere una propria visione politica, o se si preferisce in grado di far valere il punto di vista della comunità internazionale anche contro la volontà di quella che oggi è la potenza predominante). Peraltro, gli Stati Uniti, consapevoli di poter contare a priori sul sostegno del circo mediatico occidentale, aggirarono ogni ostacolo inventandosi che Saddam possedeva armi di distruzione di massa e accusando il regime iracheno addirittura di complicità nell’attentato dell’11 settembre 2001. Fu quindi facile per gli Stati Uniti sostenere la necessità di una guerra preventiva contro l’Iraq, onde garantire la sicurezza della comunità internazionale, nonostante che già allora fosse evidente sia che Washington stava accusando l’Iraq senza alcuna prova, sia che l’attentato dell’11 settembre aveva fornito l’occasione a Washington di intervenire militarmente in Afghanistan, con il pretesto di distruggere il gruppo terroristico di Al Qaeda, guidato dal saudita Osama Bin Laden.

Ben altro, infatti, era il vero obiettivo degli Stati Uniti, che, come ebbe a rivelare, nel 1998, l’ex direttore della Cia, Robert Gates, avevano cominciato ad appoggiare l’opposizione al governo di Kabul perfino prima dell’intervento sovietico; un’operazione che, secondo Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza del presidente Jimmy Carter, aveva avuto «l’effetto di attirare i russi nella trappola afghana» (1). Né sfuggiva agli statunitensi che l’Afghanistan è da sempre un crocevia fondamentale tra Cina, India, il Medio Oriente e l’Europa. Un “territorio” ancora più importante dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, dato che la fine del bipolarismo offriva agli Stati Uniti la possibilità di raggiungere lo scopo che almeno da un secolo tentavano (e tentano tuttora) di conseguire. Ovverosia l’incontrastata supremazia globale, basata su una dittatura di mercato “non evidente”, benché reale, in quanto celata, più o meno bene, dalla foglia di fico della “democrazia liberale” e “veicolata” dall’american way of living. Di conseguenza, da un lato, era essenziale per gli Stati Uniti liquidare tutto ciò che poteva ostacolare la formazione di una nuova società di mercato in funzione di una globalizzazione contraddistinta dalla “colonizzazione mercantile” di ogni mondo vitale e di ogni ambito sociale. Dall’altro, però gli Usa dovevano ridefinire gli equilibri mondiali in una prospettiva “americanocentrica”, sia mediante una ristrutturazione della Nato, al fine di ancorare definitivamente l’Europa all’Atlantico (un compito reso estremamente meno difficile dal tradimento della sinistra europea e dal fatto che l’oligarchia tecnocratica e “affaristica” del Vecchio continente poté sfruttare la riunificazione della Germania per mutare “in radice” il significato  politico dell’Unione Europea), sia mediante il controllo diretto del “cuore” dell’Eurasia.

Non sorprende allora la decisione di aggredire l’Iraq di Saddam Hussein, tanto più se si considera la relativa facilità con cui gli statunitensi avevano vinto la Prima Guerra del Golfo nel 1991. Una vittoria che pareva dar ragione a quegli analisti che ritenevano che l’aviazione e la superiorità tecnologica consentissero agli Stati Uniti di imporre la propria volontà a qualunque nemico, trascurando l’importanza dei “fattori culturali” (che invece si devono sempre tenere in considerazione, e proprio sotto il profilo politico-militare, come insegna la storia militare) e delle caratteristiche, non solo fisiche ma anche geopolitiche, di un determinato “territorio”. Comunque sia, anche se la Seconda Guerra del Golfo terminò nel giro di tre settimane, gli Stati Uniti, dopo la caduta del regime di Saddam, ancora una volta, come in Corea e soprattutto in Vietnam, furono incapaci di far sì che scopo politico e obiettivo militare fossero convergenti. E con il passare degli anni questa “forbice” continuò ad allargarsi, tanto da indurre Obama ad ordinare un ignominioso ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq.

Nondimeno, l’esercito nordamericano si è lasciato dietro una spaventosa scia di sangue, una catena orrenda di crimini e violenze di ogni specie, che hanno causato centinaia di migliaia di vittime che si sommano alle vittime causate dall’embargo imposto dall’Onu dopo la Prima Guerra del Golfo, e che provocò conseguenze gravissime per la popolazione civile, in particolare bambini e malati privi di medicine. Sarebbe però del tutto errato interpretare il ritiro dell’esercito statunitense dall’Iraq come una rinuncia della potenza capitalistica predominante ai suoi progetti di egemonia mondiale, ché anzi gli Usa sono ancor più decisi ad impedire che si possa dar vita ad un autentico “ordine multipolare” e devono necessariamente controllare il maggior numero di “posizioni dominanti”, sotto l’aspetto geostrategico, in vista della sfida con la Cina. Del resto, non è certo un caso che, da circa due anni, in Siria si combatta una durissima guerra che vede contrapporsi all’esercito della Repubblica araba socialista della Siria – ed al popolo siriano fedele ad Assad – delle bande armate e dei gruppi di islamisti, che comprendono numerosi mercenari e terroristi stranieri, finanziati e supportati dalle “petromonarchie” del Golfo (ma sarebbe più corretto denominarle “petrodittature” del Golfo). Ossia da Paesi che sono tra i principali alleati dello Stato nordamericano, che sembra essersi reso conto che non può fare tutto da solo e che deve cedere delle “quote di potere” ad alcuni gruppi “subdominanti” , al fine di evitare i pericoli derivanti da una “sovraesposizione imperiale”.

In sostanza, siamo in presenza di una nuova strategia che si fonda su un “approccio indiretto” anziché sullo scontro frontale, e che quindi  può rischiare di “giocare la carta” dell’islamismo contro l’Islam (2) (e la stessa eliminazione di Bin Laden si dovrebbe interpretare in questo senso). D’altronde, è noto che in ogni Paese vi sono delle divisioni di carattere etnico, religioso, sociale o ideologico che è possibile sfruttare, per favorire rivoluzioni colorate o per promuovere delle rivolte armate “eterodirette” o comunque guidate “dall’esterno”. Gli esempi purtroppo non mancano, basta pensare alla “primavera araba” in Egitto, alla ribellione dell’oligarchia islamista bengasina contro la Giamahiria di Gheddafi o alla rivolta contro il regime di Assad. Mutatis mutandis, lo scopo è sempre il solito, cioè «cambiare il regime di uno Stato avversario od occupare un territorio straniero, finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati». (3). E lo spiega chiaramente il documento strategico del Pentagono del 30 settembre 2001, secondo cui gli Stati Uniti devono intervenire ogni volta che vi sia «la possibilità che potenze regionali sviluppino capacità sufficienti a minacciare la stabilità di regioni cruciali per gli interessi statunitensi», e in particolare qualora vi sia «la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse». (4)

In definitiva, il fallimento politico-militare in Iraq (e pure quello in Afghanistan, dove gli statunitensi devono usare i droni per combattere dei nemici fortemente radicati in un territorio che conoscono perfettamente, anche se possiedono solo “archi e frecce” per opporsi alla gigantesca macchina bellica della Nato) ha convinto Washington a considerare l’occupazione di un territorio solo come l’extrema ratio e a delegare ad altri “attori” la funzione di rappresentare gli interessi degli Usa nelle diverse aree del pianeta. Il che però fa aumentare il rischio di dipendere da personaggi come il “petrodittatore” del Qatar o da loschi figuri come Hashim Thaci, il “boss” dello Stato “mafioso” del Kosovo (5). Ne consegue che facilmente gli eventi possono prendere una direzione imprevista, dal momento che, facendo leva su “quinte colonne” per destabilizzare un Paese o anche per far cadere un regime amico, ma di cui non ci si fida più (anche semplicemente perché considerato non più “utile” o troppo debole e corrotto), è inevitabile che si rischi di perdere il controllo della situazione. Non si deve dimenticare però che gli Stati Uniti hanno una notevole esperienza in questo genere di “operazioni”, sia pure in un continente distante dall’Eurasia. Ci riferiamo naturalmente all’America Latina, il cosiddetto “cortile di casa” degli Usa. Tanto che quando George W. Bush, dopo l’attentato dell’11 settembre, dichiarò  guerra al “terrorismo internazionale”, George Monbiot (editorialista del “Guardian” e docente universitario) ebbe a scrivere che il presidente degli Usa avrebbe dovuto prima di tutto dichiarare guerra proprio agli Stati Uniti, dato che da decenni gli Usa gestivano un campo di addestramento terroristico – denominato, fino al gennaio 2001, “Scuola delle Americhe” – che a partire dal 1946 aveva addestrato oltre 60000 poliziotti e soldati dell’America Latina, tra i quali parecchi “illustri” torturatori, assassini, dittatori e terroristi del continente americano. (6)

D’altra parte, la gigantesca macchina da guerra statunitense (o, se si preferisce, “occidentale”) comprende una miriade di “quinte colonne”, tra cui si devono annoverare non poche Ong e soprattutto i media mainstream. Sono stati infatti questi ultimi ad essere “in prima linea” al fianco dei militari statunitensi in Iraq (facendo apparire, nel migliore dei casi, la guerra d’aggressione degli Usa e le stragi di civili iracheni come una questione su cui era ed è possibile avere punti di vista diversi – sempre che, s’intende, non si osi dubitare della bontà della “missione” degli Usa nel mondo, dato che secondo i media occidentali è indubbio che gli statunitensi spendano centinaia di miliardi dollari ogni anno unicamente allo scopo di difendere la democrazia e i diritti umani in ogni angolo del globo). E sono i media occidentali, che ora sono “in prima linea” contro la Siria di Assad, ad avere svolto un ruolo decisivo anche nell’aggressione contro la Serbia (il bombardamento “democratico” della Nato contro la Serbia, al quale diede il suo contributo pure l’Italia di Massimo D’Alema – uno dei tanti “compagni italiani” convertitisi al servilismo filo-atlantico” – s’iniziò il 24 marzo del 1999, esattamente quattordici anni fa) e nel (fallito) golpe del 2002 in Venezuela. (7) “Legioni” di gazzettieri e intellettuali al servizio dell’oligarchia occidentale, sempre pronti ad usare “due pesi e due misure” e capaci di inventarsi dittatori che massacrano la propria gente ma che non si vergognano – pur di favorire la “reazione”, adesso che Chavez è scomparso – di non ricordarsi che, quando Chavez, nel 1992, con altri ufficiali bolivariani tentò di fare un colpo di Stato, al potere vi era “un tale” Carlos Perez. Vale a dire il politico venezuelano che aveva portato il suo Paese al disastro sociale ed economico – seguendo un “modello neoliberista”, non molto dissimile da quello che oggi viene imposto dalla cosiddetta “troika” (Ue, Bce e Fmi) – e che non aveva esitato a ordinare di sparare contro il proprio popolo (fonti ufficiali parlano di 200 morti, ma probabilmente furono più di 2000), ribellatosi perché stava letteralmente morendo di fame.

Tuttavia, né l’azione dei vari “scagnozzi” degli Usa né l’accanimento dei media occidentali contro l’America Latina di Chavez, di Morales o della Kirchner hanno potuto impedire il diffondersi e il rafforzarsi nel continente americano di una concezione e di una prassi politica decisa a contrastare la prepotenza degli Stati Uniti. Come non hanno potuto aver ragione né della “resistenza” della Siria di Assad né di quella dell’Iran di Ahmadinejad e degli ayatollah. Sotto questo aspetto, l’umiliazione inflitta alle truppe statunitensi in Iraq (e in Afghanistan) “gioca” a vantaggio di chi continua a battersi contro gli Usa e la dittatura di mercato, traendo profitto dalla riluttanza degli Stati Uniti ad impegnarsi in un altro conflitto. Si può dunque affermare che l’aggressione contro l’Iraq, indipendentemente dalle critiche che si possono (e si devono) rivolgere al regime di Saddam Hussein, è diventata, in un certo senso, il simbolo della tracotanza degli Usa e di quella dei gruppi di interesse che gli Usa difendono e rappresentano, nonché della “miseria”, umana e intellettuale, dei loro zelanti servitori, pagati profumatamente per giustificare le ingiustizie peggiori e i delitti più efferati. La tragedia dell’Iraq è diventata insomma il simbolo della barbarie atlantista, della volontà di potenza di uno Stato talmente ebbro di violenza e di perversioni, da ritenere l’intero pianeta una sorta di “oggetto-sé” (per usare un termine tecnico della psicoanalisi). Ma la tragedia dell’Iraq, proprio come quella del Vietnam o quella dell’Afghanistan, ha confermato – al di là di ogni altra considerazione, per quanto corretta possa essere – che un Paese non disposto a farsi colonizzare può sempre “farcela”. E’ una lezione che numerosi Paesi sembrano avere ben appreso, a cominciare dalla Siria, ma che pare invece essere quasi del tutto ignorata in Europa, al punto che non è forse azzardato pensare che anche per questo motivo il Vecchio continente stia precipitando nel baratro di una crisi che, non a caso, non è tanto una mera, ancorché gravissima, crisi economica, quanto piuttosto una crisi (geo)politica, sociale, economica e culturale.

 

 

 

1) “Le Nouvel Observateur”, Parigi, n.1732, 15/1/1999.

2) Al riguardo si veda L’islamismo contro l’Islam?, “Eurasia”, 4/2012.

3) Manlio Dinucci, Sotto il corridoio afghano, “il manifesto”, 18/10/2001.

4) ”Quadrennial Defense Review”, 30/7/2001 (notare la data di pubblicazione).

5) Si veda l’ottimo articolo di William Engdahl, http://www.eurasia-rivista.org/la-bizzarra-strategia-di-washington-sul-kosovo-potrebbe-distruggere-la-nato-giocare-con-la-dinamite-e-la-guerra-nucleare-nei-balcani/15205/.

6) Vedi Massimo Bontempelli e Carmine Fiorillo, Il sintomo e la malattia, Editrice C.R. T., Pistoia, 2001, p. 81 e ss .

7) Un documento di notevole valore, a tale proposito, è il video “La Rivoluzione non sarà teletrasmessa” che «mostra nei dettagli tutte le fasi della manipolazione mediatica svolta dalle cinque tv private venezuelane e il ruolo decisivo della massiccia reazione popolare che impedì il progetto oligarchico-statunitense» (http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Unique&id=6746).

 

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“PER UN CASCO DI BANANE”. LIBERTÁ E REALPOLITIK

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Nel suo Esportare la libertà. Il mito che ha fallito (2007), Luciano Canfora sostiene che la propagazione dei valori universali della libertà e della democrazia non è possibile. Storico dell’antichità e filologo classico, Canfora è uno degli studiosi più autorevoli a livello internazionale nel campo degli studi dell’antichità classica. Tuttavia egli si dedica anche allo studio della storia contemporanea, con una particolare attenzione alla dimensione politica. Il problema principale che si frappone fra i valori e la loro realizzazione è costituito dagli interessi degli stati che si fanno paladini del processo di esportazione. Come spiega chiaramente Canfora, fino a questo momento gli stati che si sono mossi in difesa di altre realtà in balia di conflitti hanno agito solamente quando entravano in gioco fattori politici ed economici che potevano essere utilizzati a loro vantaggio. Fatto ancor più grave, le potenze che scendono in campo a fianco di coloro che vengono fatti oggetto di soprusi si nascondono dietro la bandiera della salvaguardia della libertà per legittimare quelle che sono nella maggior parte dei casi meri atti di conquista. Canfora sostiene quindi una tesi realpolitica nei confronti dell’esportazione della democrazia. Il realismo politico concepisce la politica come una «…lotta che ha come fine il potere e come mezzo la forza»1.

Nonostante sia un “ismo”, non possiamo parlare del realismo politico come una ben precisa ideologia, date le diverse sfaccettature che lo caratterizzano. Inoltre il realismo nasce proprio come critica alle ideologie che, secondo i realisti, non fanno che distogliere l’attenzione dalle necessità primarie che devono governare lo stato e chi ne è a capo. La politica è una lotta fra realtà e apparenza e il realismo si preoccupa di far convergere questi due ambiti diversi per ottenere la sopravvivenza dello stato, dando maggiore importanza però alla dimensione pratica della politica. Questa tesi pone le sue basi nella generale sfiducia nutrita dai realisti nei confronti dell’uomo e del principio di eguaglianza che dovrebbe eliminare ogni distinzione e appianare ogni divergenza. L’uomo è considerato come intrinsecamente dedito alla ricerca del benessere personale anche a  scapito di quello dei suoi simili. Allo stesso modo gli stati devono dedicarsi alla ricerca delle condizioni della loro sopravvivenza senza preoccuparsi eccessivamente di mantenere la pace e la collaborazione a livello internazionale. La natura relativa di tutte le creazioni dell’uomo, anche a livello ideale, costringe in uno stato di relatività anche quelle conquiste che sono da sempre considerate come intoccabili e universali, come la giustizia, la legge e perfino la stessa ragione umana. Le basi della filosofia politica sono così scardinate e cedono il passo ad un approccio alla politica che si basa sull’osservazione scientifica del passato e del presente al fine di elaborare le condizioni che garantiscano la sopravvivenza di una comunità. Nell’analisi storica del realista politico hanno grande spazio anche il caso e i bisogni primari degli esseri umani.

La conseguenza più immediata di questo approccio è la delineazione di uno spazio riservato alle relazioni internazionali dominato dall’utilizzo della guerra come unico strumento per garantire la sicurezza e la pace. Di conseguenza le ragioni addotte per giustificare gli interventi militari, come l’esportazione della libertà, sono in realtà motivazioni di facciata atte a mascherare il proprio desiderio di supremazia. Il realismo politico esiste da sempre, anche se molti ne ignorano le dinamiche o credono che ogni intervento militare sia giustificato sul piano ideologico o addirittura trovi in esso le sue ragioni profonde. Già con le Storie di Tucidide, all’interno delle quali trova un posto di grande rilievo la narrazione quasi integrale della guerra del Peloponneso, si delineano le linee guida del realismo politico, così come sopra elencate. Si deve poi a Niccolò Machiavelli il merito di aver sollevato quel velo di ragioni ideologiche addotte per legittimare un’azione di forza che spesso e volentieri non sono nient’altro che pura e semplice ipocrisia. Machiavelli ci svela senza compromessi il lato “demoniaco”2 del potere, invertendo, in politica, l’importanza gerarchica tra apparire ed essere, a favore del primo. L’arte della dissimulazione e la scaltrezza diventano essenziali, seppur sempre al servizio della stabilità dello Stato. La separazione della politica dalla religione e dalla morale è senz’altro un dato che ci permette di comprendere alcuni meccanismi che governano la politica, i quali, senza una buona dose di cinismo, risulterebbero preclusi alla nostra analisi. Con l’avvento della modernità si è tentato di eliminare, peraltro senza successo, la visione politica imposta dal realismo che, fino a quel momento, aveva dimostrato quasi sempre di poter offrire una valida spiegazione delle dinamiche politiche, come Machiavelli ci illustra nel Principe3. Dal Seicento in poi infatti, anche se la periodizzazione è come sempre molto approssimativa, si è tentato di costruire dottrine politiche che poggiassero sulla razionalità e sull’intelletto, al fine di giungere all’eliminazione dei conflitti interni ed esterni allo stato. L’economia di stampo mercantilista che proprio in quel periodo cominciava a diventare la principale fonte di arricchimento incoraggiava fortemente lo sviluppo di una comunità pacifica e priva di quei conflitti che, anche a livello internazionale, avrebbero danneggiato gravemente il commercio. Proprio in quest’ambito assistiamo alla rinascita delle idee cosmopolite ad opera di Kant e altri pensatori prima e dopo di lui. Sebbene l’approccio realista sia stato a più riprese criticato anche severamente, non possiamo liquidarlo come appartenente ad epoche definitivamente superate, data la sua capacità di adattamento ai diversi contesti e alle diverse epoche storiche. Spesso le ideologie vanno in crisi e per vari motivi vengono abbandonate, mentre il realismo politico trova sempre terreno fertile nel quale mettere radici.

A conferma di questa tesi Canfora ci mostra come la storia spesso e volentieri veda trionfare gli interessi pratici sugli ideali. Esportare la libertà  si apre proprio con un riferimento alla guerra del Peloponneso, combattuta tra Sparta e Atene tra il 431 e il 404 a. C. Dato che Atene aveva da tempo riunito le città alleate in un lega sulla quale esercitava un vero e proprio dominio, gli Spartani, per dare maggior forza sul piano ideologico alla loro causa e provocare la defezione del maggior numero possibile degli alleati di Atene, che poco gradivano il giogo, si presentarono come i restauratori della libertà delle città greche. Quanto poco veritiera fosse questa propaganda ci viene rivelato dal caso della rivolta antiateniese dell’isola di Samo, scoppiata nel 441 a. C. Gli Ateniesi avevano scatenato una repressione violentissima, tanto che si può parlare di una vera e propria guerra, durata quasi due anni. Sparta avrebbe avuto l’opportunità di intervenire ma, giudicando i tempi non ancora maturi per intraprendere un’azione militare, non mosse un dito in difesa degli abitanti di Samo. Ciononostante l’iniziativa degli Spartani di presentarsi come liberatori della Grecia dall’imperialismo di Atene ebbe successo, tantoché le defezioni ricominciarono in massa dopo l’inizio della guerra. Dopo la fine della guerra però fu evidente che era ormai impossibile far coincidere la propaganda con la politica di potenza attuata dagli Spartani. Una situazione paradossale si era già venuta a creare nelle fasi finali della guerra. Infatti gli Spartani erano risultati vincitori grazie al supporto finanziario dell’impero persiano, tradizionale nemico della libertà delle città greche. La libertà della Grecia fu comperata con l’oro persiano. Quando le contraddizioni tra ideali e interessi sono così evidenti, anche il più solido degli imperi è destinato a cadere, così come accadrà a Sparta, che verrà sconfitta non molto tempo dopo la fine della guerra dalla superiorità navale dei persiani, sotto il comando, ironia della sorte, di un generale ateniese. Questa celebre guerra costituisce un efficace paradigma per comprendere come i valori della libertà e, con riferimento al presente, della democrazia, vengano sempre meno quando non coincidono con più stringenti interessi di tipo economico o politico. Da questo punto di vista la storia successiva alla lotta fra Sparta e Atene è un lungo elenco di soprusi compiuti in nome della libertà.

Di questo lungo percorso di mistificazioni un altro momento cardine è rappresentato dalla Rivoluzione francese. La decisione di portare la libertà ai popoli di tutta Europa con le armi si sarebbe tramutata in una guerra di conquista, soprattutto dopo che la Francia rivoluzionaria diventerà l’Impero francese. Anche qui la contraddizione in termini è evidente, tanto che, col passare del tempo, in tutti i paesi “liberati” dalle armi francesi, una vasta parte della popolazione percepirà sempre più la presenza dei “liberatori” come una nuova forma di sottomissione. Anche in questo caso gli ideali hanno ceduto il passo agli interessi della potenza vincitrice. Questo principio sarà applicato in tutto il suo cinismo il 17 aprile 1797, quando Bonaparte, allor generale del Direttorio e vincitore della campagna d’Italia, cederà quella che ormai era diventata la repubblica di Venezia all’Austria per suggellare la pace (trattato di Campoformio)4. La figura di Napoleone, già agli albori di quella che sarebbe diventata la sua rapida ascesa al potere, rappresenta la personificazione dei principi che riassumiamo sotto la definizione di Realpolitik. Egli seppe sfruttare a suo vantaggio la diversità delle situazioni, dimostrando una notevole maestria nel rafforzare la sua persona nel corso delle diverse fasi della rivoluzione. Proprio in nome di questo cinismo realpolitico egli fu il più importante artefice del passaggio dalla Rivoluzione all’Impero. Ed è stato infatti il realismo di Napoleone e di coloro che ne avevano sostenuto l’ascesa a piegare gli ideali della rivoluzione francese e a trasformarla in ciò che aveva tentato di distruggere5. Finché gli fu possibile continuò a dar credito alla sua immagine di “spada della rivoluzione”, anche a seguito dell’instaurazione dell’Impero. Chi, a giudizio di Canfora, aveva compreso prima del tempo l’inquietante paradosso insito nella guerra di liberazione e le conseguenze a cui esso avrebbe portato, fu Maximilien Robespierre. Ancora non era a capo del comitato di salute pubblica, al momento del voto sull’ingresso in guerra egli si pronunciò contro questo proposito proclamando: «L’idea più stravagante che possa nascere nella testa di un uomo politico è quella di credere che sia sufficiente per un popolo entrare a mano armata nel territorio di un popolo straniero per fargli adottare le sue leggi e la sua costituzione. Nessuno ama i missionari armati; il primo consiglio che danno la natura e la prudenza è quello di respingerli come nemici»6. Parole a dir poco profetiche, non solo per quanto riguarda gli esiti della rivoluzione ma anche per la storia successiva, inclusa quella recente.

La storia si sarebbe ripetuta anche per quanto riguarda la “liberazione” dell’Europa dell’Est dal dominio della Germania nazista ad opera dell’armata rossa di Stalin durante la Seconda guerra mondiale. La triste fine degli stati “liberati̕” fu quella di passare dal dominio tedesco a quello sovietico. Un posto d’onore a questa rassegna di aggressioni compiute in nome della libertà è riservato da Canfora al ruolo che gli Stati Uniti hanno avuto e continuano ad avere nello scacchiere internazionale dal secondo dopoguerra ad oggi. Proprio con la fine della seconda guerra mondiale si afferma definitivamente il predominio di USA e URSS su gran parte del mondo. Il periodo che seguirà di lì a poco e che si sarebbe concluso con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 sarà, a ragione, definito guerra fredda. Le esigenze dei singoli stati risultarono spesso sacrificate da coloro che avevano in mano le redini di quello che possiamo definire il “grande gioco”7 della geopolitica all’epoca della guerra fredda. La condotta degli Stati Uniti in ambito internazionale è esemplare nel dimostrare come la diffusione della libertà e della democrazia siano per lo più armi retoriche alle quali fare affidamento per dare maggior forza ad un intervento militare o per delegittimare le operazioni della potenza rivale che si accinge a compiere la stessa operazione. Già nel 1947 il presidente Harry Truman annunciava la sua omonima dottrina, secondo la quale gli Stati Uniti dovevano operare su scala globale con tutti i mezzi a loro disposizione per evitare la diffusione del comunismo. A questa teoria si aggiunse poi negli anni ’50, sotto la presidenza di Dwight Eisenhower, la teoria del roll back, ossia del “ributtare indietro” il comunismo, elaborata dal segretario di stato John Foster Dulles. Appoggiandosi a quella che possiamo definire una vera e propria fobia del comunismo e di una sua costante minaccia all’Occidente, si pensi alla “caccia alle streghe” del senatore Mac Carthy, gli Stati Uniti, nella ricostruzione di Canfora, si adoperarono per estendere la loro egemonia, in modo diretto o indiretto, sulla quasi totalità del globo, adoperandosi per instaurare governi a loro fedeli e accondiscendenti anche rispetto alla loro politica economica. Un’altra forma di “aiuto” a popolazioni impegnate nella lotta per la libertà era quella di rifornire di armi e di aiuti di altro genere coloro che si ribellavano alla penetrazione comunista, come nel caso dei talebani dell’Afghanistan, oppure che dovevano eliminare una realtà sgradita, come nel caso dell’Iraq di Saddam, armato dagli americani per logorare l’Iran rivoluzionario dell’ayatollah Khomeini. Ironia della storia: gli alleati del momento nella lotta al comunismo e al fondamentalismo diventeranno i nemici di domani.

Quello che, a giudizio di Canfora, spesso si dimentica, è che coloro i quali si definiscono e vengono definiti paladini della libertà si sono in passato adoperati per instaurare vere e proprie dittature militari, preferite alla democrazie autonome, perché più facili da controllare. Il caso del colpo di stato in Cile ad opera del generale Pinochet contro il governo liberamente eletto di Salvador Allende è uno dei tanti esempi che dimostrano che la democrazia non è sempre stata ritenuta dai governi americani la migliore e più conveniente forma di governo ̒da esportare̕. Un esempio forse ancora più tragico di questo modus operandi è costituito, negli esempi addotti da Canfora, dal rovesciamento del governo legittimo del presidente Arbenz Guzmán in Guatemala ad opera dei mercenari di Castillo Armas, inviati nel 1954 su ordine del presidente Eisenhower. Perché si era arrivati a tanto? La motivazione principale era costituita dal fatto che il Guatemala ostacolava la politica della United Fruit Company, potentissima multinazionale statunitense attiva già da fine Ottocento in America Latina ed impegnata nell’esportazione di frutta. La libertà fu di fatto venduta ”̒per un casco di banane̕”. Dopo la fine dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti sono, come è noto, diventati una superpotenza solitaria. Privi di un loro pari al quale rendere conto in caso di azioni militari e diplomatiche troppo azzardate e privi della minaccia di una guerra atomica, la politica estera americana ha mutato la forma ma non la sostanza dei suoi interventi. Senza la necessità di operare sotto mentite spoglie, come spesso era accaduto durante la guerra fredda, dove era la CIA a dover intervenire in modo da evitare una crisi diplomatica con l’URSS, gli americani sono stati in grado di impiegare liberamente le loro truppe ovunque se ne fosse sentito il bisogno.

Risulta però inutile la censura o la disapprovazione per la condotta attuale della politica estera statunitense, dato che essa non opera niente di diverso da quello che in tutto il mondo e in tutte le epoche si è sempre fatto, ossia agire secondo i propri interessi. Le operazioni di state-building compiute in Afghanistan e Iraq dagli statunitensi sono solamente la prosecuzione più raffinata di una politica imperialistica da sempre perseguita dagli Stati Uniti e da altre potenze prima di loro. Naturalmente anche ai giorni nostri ogni intervento acquista maggior vigore agli occhi di chi deve supportarlo se ammantato di una serie di ragioni più o meno valide (la salvaguardia dei diritti umani, una possibile minaccia alla sicurezza, ecc.), generalmente accettate dall’opinione pubblica. Negli Stati Uniti, in particolare, a seguito degli attacchi alle torri gemelle è stata realizzata una campagna mediatica volta a inculcare nella mente di ogni cittadino americano la necessità di combattere il terrorismo, anche con l’uso della forza militare. Il caso degli Stati Uniti è particolarmente interessante, perché dopo la seconda guerra mondiale essi sono stati identificati come i portatori dei valori della libertà e della democrazia. Una buona parte degli americani e della classe dirigente, percepisce il proprio paese come l’unica realtà in grado di diffondere la democrazia in tutto il mondo. Questa idea è derivata in parte dall’assunto che gli Stati Uniti siano l’espressione più compiuta della democrazia liberale, data la loro origine rivoluzionaria. Dall’altra parte, la mentalità di stampo prettamente imperialistico affermatasi dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, ha portato nel corso del tempo la maggioranza dell’opinione pubblica a considerare gli interessi dell’America come gli interessi del mondo intero8. Sembra quasi che ci si sia dimenticati, sottolinea Canfora, che le rivoluzioni in senso autoritario scoppiate in America Latina erano state sostenute nella maggioranza dei casi proprio dagli esportatori della democrazia per antonomasia. Le autorità statunitensi hanno ripetutamente sostenuto la necessità di impegnarsi nella risoluzione di conflitti esterni giustificandola come un’azione volta alla diffusione dei valori della democrazia liberale. In questo modo però si è contribuito a imprimere nella mente dell’opinione pubblica l’inscindibilità fra intervento armato ed esportazione della democrazia9. Da un certo punto di vista l’idea stessa di esportare la libertà e la democrazia con le armi è quanto mai un paradosso: le armi sono strumenti usati per imporre con la forza la volontà dei vincitori ai vinti, dai quali difficilmente può nascere un paese veramente libero.

La prospettiva dell’esportazione della democrazia attuata in modo totalmente disinteressato subisce un altro duro colpo se pensiamo che questa ed altre operazioni sono state legittimate attraverso quella che possiamo definire una vera e propria manipolazione dell’opinione pubblica attraverso l’uso massiccio dei mezzi di informazione, responsabili della diffusione di notizie falsificate, come il possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq. L’allora presidente in carica George W. Bush Jr. aveva ammaliato l’opinione pubblica mondiale delineando l’esistenza di un fantomatico “asse del male” che univa Iraq, Iran e Corea del Nord in un’alleanza simile a quella che univa Germania, Italia e Giappone durante il secondo conflitto mondiale. Quindi cosa è cambiato dai tempi della guerra condotta da Sparta in nome della libertà dei greci? Purtroppo molto poco. Sono cambiati i mezzi propagandistici e gli scopi presunti, ma la sostanza è rimasta invariata.  
                                                                     
Adottando la visione di Canfora arriviamo ad una totale eliminazione del principio di sovranità. Seguendo la visione delle relazioni internazionali e della natura dello stato stesso dettate dalla Realpolitik, la sovranità di uno stato esiste solamente se è salvaguardata dalla forza delle armi. In definitiva se assumiamo il punto di vista di Canfora, del resto ampiamente condiviso in ambiti diversi nell’analisi politica contemporanea, riconosciamo come impossibile la realizzazione pratica dell’idea che è alla base degli interventi umanitari.

Nel lungo braccio di ferro tra idealismo e realismo, che ha caratterizzato tutta la storia dell’umanità, secondo Canfora è quest’ultimo a prevalere. Qualsiasi possibilità di portare la democrazia in modo totalmente disinteressato, risulta pertanto negata. Sembra quasi che Machiavelli abbia vinto una volta di più nel disegnare una politica sgombra da ideali o princìpi, alla mercé del più forte. Risulta chiaro che una politica internazionale modellata sul principio dell’interesse dei singoli stati e sulla forza militare non può che portare allo scontro tra potenze e al fallimento di qualsiasi disegno cosmopolita. Il realismo inoltre, data la sua attenzione pressoché esclusiva alla conservazione dello stato, è poco incline ad imbarcarsi in ambiziosi progetti di nation-building e di esportazione di istituzioni democratiche in altri paesi, avvicinandosi, anche se solo parzialmente, ad un approccio di stampo conservatore per quanto riguarda la politica estera. Con ciò non vogliamo sostenere l’esistenza di una connessione tra conservatorismo e realismo, ma solo sottolineare che  il realista tende, talvolta, ad avvicinarsi al modus operandi di un conservatore, dato il suo intento primario, ossia la cura e l’integrità dello stato. Proprio il progetto cosmopolita è una delle proposte riprese in epoca illuminista per superare il realismo e cercare invece una collaborazione fra stati basati sulla loro uguaglianza e sui vantaggi a tutti i livelli che possono derivare da una loro coesistenza pacifica. Tuttavia, adottando una visione realpolitica delle relazioni internazionali non si rischia si cadere in uno stato di anarchia totale, dato che i rapporti di forza fra i vari stati portano necessariamente ad una gerarchizzazione degli stati nello scacchiere internazionale. Se diamo credito alla trattazione polemica ma raffinata di Canfora non ci resta quindi che abbandonare ogni velleità idealista e non pensare più a esportare la democrazia, almeno preservando la sostanza, e non soltanto le forme ipocrite, della buona fede e del rispetto dei diritti dei popoli.

 

 

 

 

 

 

1. Pier Paolo Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari, 1999, p 19.

2. Per una disamina più approfondita del rapporto fra politica e morale cfr. Gerhard Ritter, Il volto demoniaco del potere, Il Mulino, Bologna, 1997.  Machiavelli stesso sarà a lungo etichettato come un essere demoniaco, tanto che in Inghilterra lo si conoscerà per lungo tempo come, the old Nick, uno dei nomignoli attribuiti al diavolo.

3. Niccolò Machiavelli, Il principe, Mondadori, Milano, 1994.

4. Avvenimento che turberà profondamente molti intellettuali che fino a quel momento avevano appoggiato senza riserve le conquiste francesi, tra i quali Ugo Foscolo.

5. Riprendiamo qui l’immagine suggestiva che compare nel libro di Jean Jacques Chevallier Le grandi opere del pensiero politico (Il Mulino, Bologna, 1998). L’autore suggerisce che dopo la Rivoluzione francese e la Rivoluzione d’Ottobre lo Stato, inteso come la macchina statale, anziché soccombere sotto i colpi della rivoluzione si è rafforzato e perfezionato, cfr. p. 419.

6. Luciano Canfora, Esportare la libertà. Il mito che ha fallito, Mondadori, Milano, 2007, p.20.

7. Mi servo di un’espressione di Peter Hopkirk, che è anche il titolo di un suo celeberrimo libro. Sebbene Hopkirk parlasse di grande gioco della politica riferendosi all’espansione coloniale dell’Ottocento e in particolare agli scontri tra russi e inglesi per il controllo dell’Afghanistan penso che l’espressione sia ancora efficace per descrivere le dinamiche che sono alla base della politica internazionale.

8. Cfr. intervista a Christopher J. Coyne e Tamara Cofman Wittes, originariamente apparsa sul “Cato Policy Report” del gennaio/febbraio 2008.

9.Cfr. Eric Hobsbawn, The dangers of exporting democracy, originariamente apparso su “The Guardian” del 22 gennaio 2005.

10. Cfr. Tucidide, La Guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003.

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GUINEA BISSAU: DA NARCOSTATO A STATO FALLITO?

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La primavera del 2012 è stato un periodo molto convulso per l’Africa Occidentale: poche settimane dopo il colpo di Stato in Mali, vi è stato un importante sconvolgimento politico in Guinea Bissau. Il Paese, che da lunghi anni vive una situazione di instabilità, ha visto emergere in modo brutale le posizioni dell’élite militare. Infatti nel Paese si stava cercando di mettere in pratica delle politiche volte a ridimensionare il ruolo storico dei vertici dell’esercito che, per lungo tempo, hanno avuto voce in capitolo nelle scelte politiche della Guinea Bissau. Nel momento in cui queste nuove politiche stavano mettendo a repentaglio lo status quo, si è scatenata la reazione violenta dell’esercito che ha preso in mano le sorti del paese proprio nel momento in cui si stavano tenendo le elezioni presidenziali, in seguito alla morte prematura del Presidente Malam Bacai. Il Paese oggi rischia di essere un nuovo esempio di Stato fallito, contraddistinto dalla mancanza di un potere politico capace di affrontare i problemi che fin dall’indipendenza pregiudicano il benessere dei suoi cittadini1. La corruzione ed il traffico di stupefacenti determinano una situazione di sottosviluppo economico e sociale che fanno sì che il Paese sia uno dei più poveri al mondo.

Fin dal momento della sua indipendenza, l’ex colonia portoghese ha subito il ruolo dominante dei militari senza poter limitare in alcun modo il loro peso nelle scelte, non solo politiche, ma anche economiche2. Nel 1999, le Nazioni Unite decisero di dar vita alla missione UNOGBIS, per affrontare tre ordini di problemi. In primis doveva essere risolta la crisi politica che perdurava ormai da un lungo periodo e che aveva portato ad una cronica incapacità nella risposta alle richieste della popolazione; in secondo luogo le condizione di vita precarie della popolazione, che nel 1999 superava di poco il milione di individui; infine, le difficoltà incontrate dai governi nel tentativo di regolamentare l’economia del paese. La mancanza di uno sviluppo economico era anche dovuta alla mancanza, o quasi, di una classe imprenditoriale che potesse sfruttare le risorse umane e naturali di cui è dotato il territorio3. Per queste ed altre ragioni, gli obiettivi della missione delle Nazioni Unite riguardavano la possibilità di garantire una pace stabile e duratura. Le Nazioni Unite volevano far sì che questo percorso andasse avanti a tappe forzate e che si concludesse con lo svolgimento delle elezioni presidenziali. Questa missione fu messa in piedi anche perché vi era il rischio che l’instabilità politica potesse espandersi nei paesi confinanti, tra i quali Guinea-Conakry e Senegal. L’Africa Occidentale rappresenta da sempre un’area strategica, non solo per la presenza  di risorse naturali, ma anche perché fornisce basi strategiche al controllo di un territorio densamente popolato. Alla scadenza del primo mandato della missione UNOGBIS fu presentata una relazione che esponeva i risultati ottenuti, tra i quali le elezioni presidenziali tenute proprio nel 1999, e sottolineava la necessità di una profonda riforma delle forze armate.

Nella primavera del 2012, più precisamente nel mese di aprile, Carlos Gomez Junior si apprestava a diventare il nuovo presidente dopo aver vinto nettamente il primo turno delle elezioni sfiorando il 49% dei voti e staccando nettamente il secondo candidato, Kumba Yala, fermatosi al 23%. Benché la vittoria fu netta, non avendo raggiunto il 50% più uno dei voti, non poté evitare il ballottaggio e quindi dover continuare una dura campagna elettorale. Nonostante gli osservatori internazionali non abbiano riscontrato irregolarità nelle fasi del voto, quasi tutti i candidati alle elezioni hanno manifestato il loro dissenso parlando di veri e propri brogli. Proprio per questo motivo Kumba Yala aveva manifestato l’intenzione di voler boicottare il secondo turno delle elezioni chiedendo ai suoi sostenitori di non presentarsi alle urne, tale scelta è stata motivata dall’idea che erano stati messi in essere dei brogli volti a favorire l’elezione dell’allora Primo Ministro Gomez Junior. Nella notte del 12 aprile (il secondo turno delle elezioni si sarebbe dovuto tenere il 29 dello stesso mese) un commando militare ha occupato la capitale Bissau ed ha arrestato il Presidente ad interim Pereira e anche lo stesso Gomez, prendendo in mano il potere. Nelle ore immediatamente successive al golpe si pensava che l’intervento dei militari potesse essere una risposta all’accusa di brogli e quindi un tentativo volto ad evitare un crescendo di violenza per le strade di Bissau. Effettivamente la motivazione non fu questa, infatti i golpisti non sovvertirono il normale processo democratico in seguito alle accuse di brogli da parte degli oppositori di Gomez, ma bensì perché accusavano quest’ultimo di aver sancito segretamente un accordo con un Paese straniero, cioè con l’Angola. Accordo che, a detta dei golpisti, pregiudicavano la sovranità nazionale a favore dei militari angolani già presenti nel paese da diverso tempo poiché facenti parte della MISSANG, una missione angolana volta a fornire supporto alle forze di sicurezza della Guinea Bissau. L’esercito non aveva mai accettato la presenza di militari stranieri all’interno dei confini del Paese e l’ormai scontata elezione di Gomez Junior avrebbe potuto consolidare la presenza straniera, nonostante il governo dell’Angola avesse chiarito in più occasioni la volontà di voler interrompere questa missione, proprio perché fortemente osteggiata da alcuni partiti politici4.

La missione del governo angolano nasceva proprio come risposta a quella necessità di rivedere il ruolo dell’esercito all’interno della sfera politica guineana più volte sottolineata non solo dalle Nazioni Unite ma anche dalle organizzazioni regionali africane. Tra queste organizzazioni bisogna sicuramente citare l’ECOWAS l’organizzazione economica dell’Africa Occidentale, che sta avendo un ruolo importante nella soluzione della crisi in Mali, e anche la Comunità dei Paesi lusofoni (CPLP)5.  Proprio quest’ultima organizzazione, di cui fanno parte le ex colonie portoghesi ed il Portogallo stesso, si era preposta l’obiettivo di fornire sostegno alla Guinea Bissau per cercare di operare una ristrutturazione dell’esercito6. I dati riguardanti la corruzione ci consegnano una realtà che non può essere migliorata solo attraverso un ridimensionamento di quello che è il ruolo dell’esercito, bensì appare evidente che il Paese necessita di tutta una serie di riforme che modifichino profondamente l’assetto istituzionale7. Una situazione caratterizzata da alti tassi di corruzione, soprattutto nelle forze di polizia, dovuto principalmente al fatto che, oggi, la Guinea Bissau rappresenta un vero e proprio snodo commerciale della droga tra America Latina ed Europa. Gran parte degli stupefacenti prodotti nelle regioni andine prima di giungere nel mercato europeo (principalmente Spagna, Regno Unito ed Italia) passano proprio per la Guinea Bissau. I narcotrafficanti internazionali prediligono quest’area proprio per la mancanza di forze di controllo che in qualche modo possano ostacolino la loro azione e per la, già citata, diffusa corruzione. La pratica della corruzione è solamente una concausa poiché le forze di polizia guineane non dispongono dei mezzi e delle risorse che possano permetterli di contrastare efficacemente questi traffici illeciti8.

Il traffico internazionale di droga in Africa Occidentale perdura ormai da decenni e non riguarda solamente l’ex colonia portoghese, le rotte passano anche per la Guinea, ex colonia francese, e per il golfo del Benin. Le rotte scelte dai narcotrafficanti si adeguano in base al cambiamento degli equilibri e proprio per questo motivo il recente colpo di Stato in Guinea Bissau ed in Mali hanno fatto si che questi due territori siano tra quelli più allettanti. Le merci che passano per questa regione non sono solamente stupefacenti ma anche armi e uomini, soprattutto nella fascia saheliana. La morfologia del territorio, caratterizzato dalla presenza di insenature, piccole isole e numerose baie, rende tutt’altro che agevole il lavoro delle forze preposte al controllo doganale e alla lotta al contrabbando. Proprio a livello doganale che si inserisce la cattiva pratica della corruzione che rende inefficace lo sforzo dei governi in questa difficile lotta, dato il fatto che i contrabbandieri, grazie agli introiti della vendita delle droghe, dispongono di mezzi e tecnologie superiori rispetto alle forze preposte al controllo. Per questo ci si riferisce alla Guinea Bissau come un vero e proprio narcostato, cioè un Paese dove l’economia è influenzata pesantemente dal traffico di droga e dove il potere politico poco può nella lotta contro questi traffici illeciti. Tutto ciò comporta importanti conseguenze sia sul piano economico ma anche su quello sociale poiché l’economia illegale può arrivare a superare quella legale. Per questi motivi il PIL pro capite della Guinea Bissau è tra i più bassi al mondo, secondo i dati del’FMI si piazza 167esimo posto senza superare i 1200 dollari per cittadino. Dati che contrastano con le potenzialità di cui è dotato il Paese, non solo perché è ormai nota la presenza di giacimenti di gas e petrolio al largo delle sue coste, ma proprio per l’estensione delle coste che oltre a rappresentare una risorsa per poter sviluppare l’industria ittica fungono anche da approdo per quei Paese che non hanno uno sbocco sul mare. Proprio per queste potenzialità la Cina ha rinforzato i rapporti con la Guinea Bissau e, più in generale, con i Paesi membri della CPLP, riducendo i dazi doganali sia per le importazione che per le esportazioni. L’interesse cinese da un lato può rappresentare una potenzialità, ad esempio nella costruzione di infrastrutture, potrebbe contribuire ad aumentare i tassi di corruzione se non vengono portare avanti delle politiche volte a ridurre questa pratica9.

A un anno dal colpo di Stato, la Guinea Bissau vive una situazione di forte incertezza e di ancor più profonda instabilità politica. L’ECOWAS, insieme all’Unione Africana, sta cercando di delineare un percorso che porti alle elezioni ma che, nelle varie tappe di avvicinamento, possa rinforzare le fragili istituzioni statale così da evitare che proprio la chiamata alle urne diventi occasione di scontro tra l’élite militare ed i partiti, come già avvenuto in passato10. Questa situazione determina un forte peggioramento della situazione economica dato che non arrivano investimenti dall’estero, ritenuti troppo rischiosi soprattutto alla luce della crisi economica, e dato che l’opinione pubblica e la comunità internazionale concentra le sue attenzione nella crisi in Mali. Proprio la contemporanea congiuntura politica nel Sahel tende a diminuire la possibilità da parte delle Nazioni Unite, ma anche dell’Unione Europea, di poter fornire un sostegno valido ad aiutare la stabilizzazione nel Paese. Per questo motivo quello che avverrà nei prossimi mesi potrebbe essere un buon ambiente di prova per le organizzazioni regionali interessate, come l’ECOWAS e anche la CPLP, che potrebbero trovare una giusta armonia di interessi capace di portare allo svolgimento delle elezioni. Nel momento in cui ci sarà la chiamata alle urne, sarà necessario ed importante la presenza di osservatori esterni da parte delle più importanti organizzazioni governative in modo tale da mettere al riparo dagli attacchi di brogli il partito che dovesse ottenere la maggioranza dei voti. Una volta raggiunto tale obiettivo potrebbero giungere nel Paese degli investimenti esteri capaci di essere uno stimolo per l’economia e, anche grazie al sostegno delle ONG, si potrebbero studiare dei piani che possano sostenere la nascita di una classe imprenditoriale locale11. Imprenditori che hanno bisogno di essere formati e puntare su diversi settori come, ad esempio, sull’agricoltura, cercando di operare una diversificazione della produzione che, in passato, è stata legata alla produzione solamente degli anacardi. La scelta della monocoltura, cioè coltivare principalmente un solo prodotto, determina dei grossi rischi poiché nel momento in cui la domanda di quel bene dovesse calare ed il prezzo dello stesso si riducesse in modo repentino questo potrebbe determinare grosse perdite economiche. Inoltre per poter sviluppare la produzione agricola è necessario dotarsi di un know-how e di un certo livello di tecnologia che limiti i rischi legati ai periodi di siccità.

 

 

 

 

 

 

1.Patrick Chabal, A History of Postcolonial Lusophone Africa, Hurst&Co., Londra 2002

2. David Stephen, Guinea Bissau coup: military plays politics to defend own power, African arguments, 23 aprile 2012

3. Carlo Lopes, Etnia, Stato e rapporti di potere in Guinea-Bissau, GVC, Lisbona 1982

4. Patricia Ferreira, State-Society relations in Angola, FRIDE, Lisbona 2009

5. A.O. Enabulele, Reflections on the ECOWAS Community Court Protocol and the Constitutions of Member States, “International Community Law Review”,  n.12/2010 p.115

6.Birgit Embalo, Civil–military relations and political order in Guinea-Bissau, “Journal of Modern African Studies”, n. 2/2012, pp. 253-281

7. M.P. Temudo, From the margins of the State to the presidential palace: the Balanta case in Guinea Bissau, “African Review”, n.2/2009

8. Demas R.R., Moment of truth: development in sub-saharan Africa and critical alterations needed in application of the foreign corrupt practices act and other anti-corruption initiatives, “American University International Law Review”, 26/2011, p.340

9. Patricia Gomes, Cina e Stati Uniti in Guinea Bissau: tra cooperazione e politica dell’assistenza, Guinea Conacry: dall’isolamento internazionale all’interesse delle grandi potenze, Meridione Sud e Nord nel Mondo, “Meridione” 2008 n.3/2012, p.86

10. Barry Munslow, The 1980 Coup in Guinea Bissau, “Review of African Political Economy” n.21/1981, pp.109-113

11. Aizenman, J., N. Marion, Policy Uncertainty, Persistence and Growth, “Review of International Economics” n. 1/1993, pp. 145–163

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INTERVENTO A “LA NOTTE DI RADIO1”

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Il 22 marzo scorso è andato in onda all’interno del programma radiofonico “La notte di Radio 1” (nell’occasione interamente dedicato a Cipro, in virtù delle recenti vicende che hanno sconvolto la vita socio-economica dell’Isola) un intervento di Federico Capnist, collaboratore del sito di “Eurasia” e autore di un articolo relativo alla “questione Cipriota”. L’intervento – pur nella sua brevità – ha riguardato sia la perdurante occupazione britannica ed i suoi effetti negativi sulla vita nell’Isola, sia la forte presenza russa, oggi diventata anche fisica al di là di quella economico-finanziaria. L’intervista è disponibile, a partire dal minuto ’39, al seguente collegamento: Cipro

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“RADIKAL ANDERS”

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Fabio Falchi, contributor of the review “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici” has been interviewed by Manuel Ochsenreiter about the political movement “5 stars”, which has won 22.55% of the votes in the last Italian general elections. Here the English translation of the interview, which has been published in the last issue of the German magazine “Zuerst!” (4/2013) under the title “Radikal anders”.

 

 

Mr. Falchi, the German social democrat candidate for the chancellors position, Peer Steinbrück, called Silvio Berlusconi and Beppe Grillo “clowns”. Let´s talk about Grillo – is he really a “clown”? 

Beppe Grillo, is a comedian and blogger involved in politics since 2009. In a few years he has built up a new movement, “MoVimento 5 Stelle” ,from nothing, exploiting in an intelligent way the potential of Internet (the candidates of “MoVimento 5 Stelle” were chosen by party members through an online primary), but also conquering the squares, which traditionally belonged to the political left (on 22 February 2013, a large crowd of people attended the last meeting of Beppe Grillo in Piazza San Giovanni, in Rome). “MoVimento 5 Stelle” is composed of simple citizens joined together by hatred for the corruption and poor governance of the traditional parties. So, at the general election, last February, the civic “MoVimento 5 Stelle” won 25.55% of the vote for the Chamber of Deputies (and 23.79% of the vote for the Senate). Now it is the first party (even if it is not the first coalition) in the Chamber of Deputies. Apart from any other consideration, it is evident that Grillo is a clever politician, not a “clown”, and there is nothing to laugh about the success of “MoVimento 5 Stelle”.

 

 

German mainstream media sees in Beppe Grillo a “danger for the EU”, because he refuses the European currency. Is that right?

We do not know exactly what Grillo and “MoVimento 5 Stelle” think about “european currency” but we know that they think that european currency is not the solution of the “Eu problem” but it is “part” of this problem. We know that the danger of “Eu” is “Eu”, because “Eu” cannot or does not want to combat the dominance of financial markets. It seems that Grillo wants a referendum on the European currency, but a referendun cannot abolish an international treaty. Of course, it is important that Grillo clarifies as soon as possible his ideas about this problem, that, in the first place, is a (geo)political problem, not a mere economic problem – and we must remember that many european countries, members of “Eu”, have not European currency; in any case, there are “technical solution”, such as two euros (“northern euro” and “southern euro”, on the basis of a solidarity pact), or back to the “European snake”, or a real political and monetary “Eu” changing the role of the European Central Bank (that seems longa manus of financial markets in Europe) ad so on. The question is that “this Eu” cannot survive, Grillo or not Grillo. And many observers think that “Italy ship”, rebus sic stantibus, is expected to arrive in Piraeus! We must take into account the failure of “austerity” to understand the “phenomenon Grillo”.

 

 

What can you say about the MoVimento 5 Stelle? Is it a movement of the political right or left? Is it a real opposition party? 

“MoVimento 5 Stelle” is neither moviment of political rigth nor left. Moreover, now political right and political left are two sides of the same coin.There are differences, but these differences are not very important. But, even if it is not fascist, or better neo-fascist moviment, it is true that Grillo has not not specific ideological roots and many observers consider “MoVimento 5 Stelle” as a demagogue and “populist” movement. Nevertheless, Grillo and his many supporters protest against financial speculation, the installation of Nato military bases and Italian military missions abroad. And Grillo had the courage to criticize Israel and defend the reasons of Iran. So, only if these political positions are the basis for the policy of the “MoVimento 5 Stelle” , this new moviment will be a real opposition party.

 

 

Will Grillo have influence on politics in Italy in future? Do you rate that positive or negative – and why?

“MoVimento 5 Stelle” is likely to deflate quickly, if it does not “grow” from political point of view. Criticizing the ruling class is different from being a ruling class. As you know, there are also many “doubts” about Gianroberto Casaleggio, co-founder of “MoVimento 5 Stelle”, of which he is called “guru”. In the next few weeks or in the next few months these doubts will disappear. However, considering the Italian situation and that all other comparable parties are blackmailed by the financial markets it is positive this “caos”. And we know that financial markets “speak English”. It is no coincidence tha United States want an economic Nato to strengthen relationship between the United States and Europe. Indeed, this would be the death of Europe. But we cannot prevent it with the actual (Italian and European, with few execeptions) ruling class. In this perspective, in my opinion, “MoVimento 5 Stelle” is  not so much important. But “if” a new political movement should get out from this “caos”, a political force able to counter financial markets and the aberrant power politics of United States, then we could say that the success of “MoVimento 5 Stelle” is “not negative”. From a realistic point of view it is unlikely that “MoVimento 5 Stelle” can be such a political force (that seems very far from “Eurasian weltanschauung” and Grillo unfortunately does not seem to be an “Italian Chavez”) . But, it is not impossible that “something” hinders “euro-atlanticst mincer”. In effect, also in other european countries are growing so called “populist” (but not neo-fascist) movements. Also they have not a clear political theory (yet), but they seem to place at the center of the political debate people’s problems and that it is absurd that a State depends on the financial markets. Therefore, we should be “pragmatic” about all these movements. In this case, it is fair to say, without being vulgar, that the end could justify the means.

 

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I CONFLITTI NEL CAUCASO E LA STABILITÀ DELLA RUSSIA. SABATO 6 APRILE A TRIESTE

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Il Centro Studi Eurasia-Mediterraneo (www.cese-m.eu) organizza sabato 6 aprile alle ore 17:30 presso la Libreria Internazionale La Fenice in via Battisti 6 (Galleria Fenice) aTrieste il convegno “I conflitti nel Caucaso e la stabilità della Russia”.

Lorenzo Salimbeni, Presidente del CeSE-M, introdurrà l’incontro analizzando i separatismi presenti nella regione del Caucaso, a partire dalla Cecenia, spesso eterodiretti e collusi con le reti del terrorismo internazionale jihadista, vero e proprio fattore di destabilizzazione utilizzato a proprio uso e consumo dai competitori internazionali di Mosca in questo ed altri scenari.

L’analisi passerà quindi al cosiddetto “Estero vicino” della Russia, in particolare alle ex repubbliche sovietiche caucasiche, con Mauro Murgia (sociologo e Presidente dell’Associazione Italia-Abkhazia), il quale, partendo dall’aggressione georgiana nei confronti dell’Abkhazia nell’estate 2008, ne descriverà gli antefatti, ma anche e soprattutto l’attuale stato dei colloqui e dei tentativi di mediazione. A tal proposito, verrà presentata la pubblicazione “Abkhazia”, che, ripercorrendo la storia e le vicende del piccolo Stato, fornisce anche preziose indicazioni per investitori economici ed operatori internazionali.

Filippo Pederzini, collaboratore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” (www.eurasia-rivista.org) relazionerà altresì sulla vicenda del Nagorno Karabagh, enclave armena in Azerbaijan, nonché tipico esempio di quei cosiddetti “conflitti congelati” che costellano lo scacchiere dell’ex URSS: da questo caso esemplare l’intervento spazierà sulla manipolazione dell’informazione finalizzata alla diffusione di un sentimento russofobico funzionale ai progetti delle potenze occidentaliste.  

 

  Caucaso_Russia
 

http://www.cese-m.eu/cesem/2013/03/convegno-i-conflitti-nel-caucaso-e-la-stabilita-della-russia-sabato-6-aprile-a-trieste/  

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LA COREA DEL NORD DICHIARA LO STATO DI GUERRA

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L’agenzia di stampa statale nordcoreana KCNA informa, citando un comunicato ufficiale, che la Corea del Nord ha dichiarato lo stato di guerra con la Corea del Sud

 
 
La Corea del Nord ha annunciato che risolverà tutte le questioni in sospeso tra le due Coree, come in tempo di guerra. “Questa è la fine dello stato di non pace e di non guerra in cui si trovava la penisola coreana”, recita la dichiarazione. “Tutte le azioni del governo, dei partiti politici e delle organizzazioni saranno ora valutate considerando che il nostro paese è in guerra con la Corea del Sud”, recita la dichiarazione sottolineando che questa “decisione importante” del leader nordcoreano Kim Jong-Un costituisce un ultimatum alle “forze ostili” ed è un passo decisivo verso il perseguimento della giustizia. L’esercito della Corea del Nord rimane in attesa di un ordine di Kim Jong-Un, che ha ordinato di prepararsi per un possibile attacco missilistico. La dichiarazione avverte che la Corea del Nord scatenerà una rappresaglia senza pietà nel caso di un atto di provocazione da parte degli USA o della Corea del sud. Questo venerdì le forze armate della Corea del Sud hanno registrato un aumento dell’attività delle basi missilistiche della Corea del Nord, dopo la firma del leader nordcoreano Kim Jong-Un di un piano strategico di preparazione delle truppe, che ordina alle unità missilistiche di tenersi pronte a lanciare in qualsiasi momento un attacco contro gli USA. Pochi giorni fa le autorità della Corea del Nord hanno inviato a quelle del Sud una notifica di telefonica di sospensione dei collegamenti con la linea del “telefono rosso”, attraverso la quale i due paesi mantengono contatti militari d’emergenza, finché il Sud non abbandoni il suo atteggiamento ostile. La tensione nella penisola coreana, è aumentata dopo l’adozione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di nuove sanzioni contro la Corea del Nord, in risposta al suo terzo test nucleare; si era acutizzato ancor prima che si sapesse, che la Corea del Sud e gli Stati Uniti  stanno impiegando nell’area bombardieri strategici B-52 e sottomarini nucleari nelle esercitazioni militari congiunte realizzate nella regione. Pyongyang ha definito questo fatto una “provocazione imperdonabile”.

 

 

(Traduzione di Marco Nocera da RT Español) 

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INTERVISTA A FABIO FALCHI SUL MOVIMENTO CINQUE STELLE

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La rivista tedesca “Zuerst!” ha pubblicato nel n. 4/2013 un’intervista con Fabio Falchi, redattore di “Eurasia”, sul fenomeno del movimento dei “grillini”. Qui di seguito la traduzione italiana.

 

 

Zuerst!: Peter Steinbrück,il candidato della Spd alla cancelleria, ha definito Silvio Berlusconi e Beppe Grillo due “clown”. Parliamo di Grillo – è davvero un “pagliaccio”?

Fabio Falchi: Beppe Grillo, è un comico e blogger impegnato in politica dal 2009. In pochi anni ha  costruito il “Movimento 5 Stelle” (M5S) dal nulla, non solo sfruttando in modo intelligente la potenzialità di Internet (i candidati del M5S sono stati scelti tramite delle primarie on line), ma anche riuscendo a conquistare le “piazza”, che tradizionalmente apparteneva alla sinistra (il 22 febbraio scorso, cioè due giorni prima delle elezioni politiche, un enorme numero di persone ha partecipato alla manifestazione del M5S in Piazza San Giovanni, a Roma). Il M5S è infatti composto da semplici cittadini uniti dal disgusto e dalla ripugnanza per la corruzione e il malgoverno dei partiti tradizionali.

Orbene, alle elezioni politiche il M5S  ha ottenuto 25,55% dei voti per la Camera dei deputati (e il 23,79% dei voti per il Senato) e ora è il primo partito (anche se non la prima coalizione) alla Camera dei deputati. A parte ogni altra considerazione, è evidente quindi che Grillo è un politico intelligente, non un “pagliaccio”, e che non vi è nulla da ridere riguardo al successo del M5S, che invece si deve considerare molto seriamente.

 

 

Zuerst!: I principali media tedeschi vedono in Beppe Grillo un “pericolo per l’UE”, perché egli  rifiuta la moneta europea. E’ così?

Fabio Falchi: Non sappiamo esattamente che cosa Grillo e il M5S  pensino riguardo all’euro,  anche se si può sostenere che ritengono che l’euro non sia la soluzione del problema della UE, bensì “parte” di questo problema. D’altronde, noi sappiamo che il pericolo dell’UE è la stessa UE, dato che l’UE non può o non vuole opporsi alla (pre)potenza dei mercati finanziari.

Sembra comunque che Grillo voglia un referendum sulla moneta unica europea, anche se un referendum non può abrogare un trattato internazionale. E’ importante allora che Grillo chiarisca al più presto le sue idee in merito a questo problema, che, in primo luogo, è un problema (geo)politico, non un mero problema economico – e non dobbiamo dimenticare che molti Stati dell’UE non sono membri di Eurolandia. Inoltre non mancano soluzioni “tecniche”: due euro (un euro per il Nord Europa ed un euro per Sud Europa, sulla base di un patto di solidarietà), oppure ritornare al cosiddetto ” Serpente europeo” o una vera e propria Unione politico-monetaria , cambiando il ruolo della BCE (che però sembra essere la longa manus dei mercati finanziari in Europa) e così via. Ma la vera questione è che “questa Ue” non può sopravvivere, Grillo o non Grillo. E molti osservatori pensano che la “nave Italia”, rebus sic stantibus, sia destinata ad arrivare al Pireo!

Dobbiamo dunque prendere in considerazione il fallimento della politica di austerità, imposta dalla UE, se vogliamo capire il “fenomeno Grillo”.

 

 

Zuerst!: Che cosa si può dire del M5S? E’ un movimento di destra o di sinistra? E si tratta di un vero e proprio partito di opposizione? 

Fabio Falchi: Il M5S non pare essere né di destra né di sinistra. Del resto, ormai  destra e sinistra sono due facce della stessa medaglia. Vi sono delle differenze, ma non sono molto importanti. D’altra parte, anche se il M5S non è un movimento fascista o meglio neo-fascista, è pur vero che Grillo non ha precise “radici ideologiche” e che per questo molti osservatori ritengono che il M5S sia un movimento “demagogico”  e “populista”. Tuttavia, Grillo e molti dei suoi sostenitori sono contro la speculazione finanziaria, contro la presenza di basi militari della Nato e contro le missioni militari italiane all’estero. E Grillo ha avuto pure il coraggio di criticare Israele e di difendere le ragioni dell’Iran. Sicché solo se queste posizioni saranno a fondamento della visione e della prassi politica del M5S, questo nuovo movimento potrà essere un vero e proprio partito di opposizione.

 

 

Zuerst!: Avrà Grillo una reale influenza sulla politica italiana ? Se ciò accadesse, sarebbe positivo o negativo – e perché? 

Fabio Falchi: Il M5S rischia di sgonfiarsi rapidamente, se non “crescerà” dal punto di vista politico. Criticare la classe dirigente è naturalmente ben diverso dall’essere una classe dirigente. Com’è noto, ci sono anche molti “dubbi” circa Gianroberto Casaleggio, co-fondatore (e da alcuni definito addirittura “guru”) del M5S. Nelle prossime settimane o nei prossimi mesi questi dubbi dovrebbero sparire. Comunque sia, considerando la situazione italiana e il fatto che tutti gli altri partiti sono  ricattabili da parte dei “mercati”, questo “caos” pare positivo. Inoltre, si sa che i mercati finanziari “parlano inglese”. Non a caso gli Stati Uniti vogliono una NATO economica allo scopo di rafforzare le relazioni tra gli USA e l’ Europa. Di fatto, ciò equivarrebbe alla fine dell’Europa. Ma non possiamo impedirlo con l’attuale classe dirigente italiana (ed europea, tranne poche eccezioni). In questa prospettiva, a mio parere, non è tanto importante il M5S, in quanto tale. Ma se un nuovo movimento politico dovesse nascere da questo “caos” – una forza politica in grado di contrastare i mercati finanziari e la politica di potenza degli Stati Uniti – allora potremmo senza dubbio sostenere che il successo del M5S non è negativo. Se si deve essere “realisti”, si deve però riconoscere che è improbabile che tale forza politica possa essere il M5S (che, tra l’altro, pare essere assai distante da una “Weltanschauung” eurasiatista – e difficilmente, purtroppo, Grillo può essere considerato un “Chavez” italiano ).

Eppure, non è impossibile che adesso “qualcosa” possa ostacolare il “tritacarne euro-atlantista”. In effetti, anche in altri Paesi europei stanno “crescendo” dei movimenti cosiddetti “populisti” (non neo-fascisti). Si tratta di movimenti che non si basano (almeno per ora) su una salda e chiara dottrina politica, ma tendono a mettere al centro del dibattito politico i problemi delle persone “in carne ed ossa” e a mettere l’accento sul fatto che è assurdo che uno Stato dipenda dai “mercati”. Di conseguenza, si dovrebbe essere “pragmatici” per quanto concerne il giudizio su tutti questi movimenti. In definitiva, è lecito affermare, senza essere “volgari”, che in questa situazione il fine giustifica i mezzi.

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THE WESTERN USE OF ISLAMISM

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In his famous book The Clash of Civilizations Samuel Huntington affirms that the true problem of western world is not the Islamic fundamentalism, but Islam itself. The American ideologist explains that Islamis a strategical enemy of the West, because the confrontation between the two is an existential conflict between secularist values and religious ones, Human Rights and Divine Rights, Democracy and Theocracy. Therefore, until Islam remains Islam and the West remains the West, the conflict will mark their mutual relations.

Huntington’s assertion indicates not only the strategical enemy of the West, but also its tactical ally, that is the Islamic fundamentalism. However in 1996, when The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order was published, such a tactical alliance was already existing.

An Arabian ex-ambassador, who had been accredited to the United States and Great Britain, writes: “It is a fact that the USA have stipulated alliances with the Muslim Brothers in order to expel the Soviets from Afghanistan and that since then the USA have courted the Islamist current, supporting its propagation through the Muslim world. Towards the Islamists, most of western States have followed the example of their major ally and have adopted an attitude going from the benevolent neutrality to the resolved connivance” (1).

The western support to the so-called Islamic integralism or fundamentalism did not start in Afghanistan in 1979, where six month before the Soviet intervention the US intelligence had begun to aid the Afghan guerrilla (as the ex director of CIA Robert writes in his book From the Shadows). This support dates back to the fifties and the sixties of the last century, when Great Britain and USA, considering the Nasserian Egypt as the main obstacle to the western hegemony in the Mediterranean region, gave their aid to the Muslim Brothers. A son-in-law of the movement’s founder, Sa’id Ramadan, who created an important Islamic centre in Munich, received money and instructions from the CIA agent Bob Dreher. According the project explained by Sa’id Ramadan to Arthur Schlesinger Jr.: “When the enemy is armed with a totalitarian ideology and served by regiments of devoted believers, those with opposing policies must compete at the popular level of action and the essence of their tactics must be counter-faith and counter-devotion. Only popular forces, genuinely involved and genuinely reacting on their own behalf, can meet the infiltrating threat of Communism” (2).

The exploitation of the Islamist movements useful to the Atlantic strategy did not finish with the Red Army’s retreat from Afghanistan. The aid granted by Clinton’s administration to the Bosnian and Kosovar separatism, the US and English support to wahhabi terror in Caucasian region, Brzezinski’s patronage to fundamentalist movements in Central Asia, the intervention in Libya and Syria are episodes of a war waged against Eurasia, in which the North Americans and their allies have turned to the Islamist collaboration.

Rachid Ghannouchi, who in 1991 received George Bush’s praise for the role he had played in mediating the agreement among the Afghan factions, has tried to justify the Islamist collaborationism, sketching ad idyllic picture of the relations between the USA and the Muslim world. Speaking with a French journalist who asked him if he considered the North Americans more conciliatory than Europeans towards the Muslims, the founder of An-Nahda replied in the affirmative, because “an American colonialism never existed in the Muslim countries; no Crusades, no war, no history”; moreover, Ghannouchi recalled the common struggle of North Americans, Britains and Islamists against the bolshevist enemy (3).

 

 

The “noble salafist tradition”

As an Italian orientalist writes, the Islamist current represented by Rachid Ghannouchi “refers to the noble salafist tradition of Muhammad Abduh and has had a more modern version in the Muslim Brothers’ movement” (4).

To return to the pure Islam of the “pious ancestors” (as-salaf as-salihin) and to make a clean sweep of the tradition originated by the Quran and the Prophet’s Sunnah in the course of the centuries: this is the program of the reformist current whose starters were Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897) and Muhammad Abduh (1849-1905).

Al-Afghani, who in 1883 founded the Salafiyya Society, in 1878 had been initiated in a Masonic lodge of Scottish rite in Cairo. He introduced his disciples into the Masonry; among them, Muhammad Abduh became the Mufti of Egypt in 1899 with the consent of British authorities.

“They deserve all the encouragement and support which can be given to them. They are the natural allies of the western reformer” (5). This explicit acknowledgment of the role played by the reformers Muhammad Abduh and Sir Sayyid Ahmad Khan (1817-1889) was given by Lord Cromer (1841-1917), one of the main architects of British imperialism in the Muslim world. Indeed Ahmad Khan stated that “the British domination in India is the most beautiful thing ever seen by the world” and that “it is not islamically lawful to rebel against the English until they respect Islam and the Muslims are allowed to practise the religion”, while Muhammad Abduh transmitted the rationalist and scientist ideas of the West to the Muslim milieu. According to Abduh, in the modern civilization there is nothing contrasting with Islam (he identified the jinns with the microbes and was persuaded that Darwin’s evolutionist theory is contained in the Quran); hence the necessity of revising and correcting the traditional doctrine, submitting it to the judgment of the reason and welcoming the scientific and cultural contributions of the modern thought.

After Abduh, the leader of the Salafist current was Rashid Rida, who after the end of the Ottoman Caliphate planned the birth a “progressive Islamic party” being able to create a new Caliphate. In 1897 Rashid Rida had founded a review, “Al Manar”, which was diffused in the Arabian world and also otherwhere; after Rida’s death, its publisher was another representative of Islamic reformism, Hasan al-Banna (1906-1949), the founder of the Muslim Brothers.

While Rashid Rida theorized the birth of a new, reformed Islamic State, in the Arabian Peninsula was born the Saudi Kingdom, ruled by another reformist ideology: Wahhabism.

 

 

The Wahhabi sect

The name of the Wahhabi sect comes from the patronymic of Muhammad ibn Abd al-Wahhab (1703-1792), a follower of the Hanbali school who became enthusiastic over the texts of the literalist jurisprudent Taqi ad-din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328). An interpreter of Quranic symbols from an anthropomorfic viewpoint and a mortal enemy of Sufism, Ibn Taymiyya was frequently accused of heterodoxy and has deserved the definition of “father of Salafist movements” (6). Following his teachings, Ibn Abd al-Wahhab and the Wahhabis condemned as idolatric polytheism (shirk) the faith in the intercession of prophets and saints, so that they considered “polytheist” (mushrik) also the devout believer invoking the Holy Prophet or praying God next to the shrine of a shaykh.

The Wahhabis attacked the holy towns of Shiites, sacking their mosques; after taking possession of Mecca and Madina, they demolished the tombs of Companions and martyrs and even violated the grave of Prophet Muhammad; they banned the initiatic organizations and the Sufi practises, abolished the celebration of the Holy Prophet’s birthday, extorted money from the pilgrims, suspended the Pilgrimage to the Holy House of God, issued the oddest and queerest prohibitions.

After being defeated by the Ottoman army, the Wahhabis separated supporting two rival dynasties (Saud and Rashid) and during a century their civil wars covered with blood the Arabian Peninsula, until Ibn Saud (1882-1953) changed the condition of the sect. Being supported by Great Britain, which in 1915 had instaured official relations with him and had made the Sultanate of Najd a “quasi protectorate” (7), Ibn Saud occupied Mecca in 1924 and Madina in 1925. This way he became “King of Hejaz and Najd and its dependencies”, according to the title decerned to him by Great Britain in Jeddah’s treaty of May 1927.

“His victories – a famous orientalist writes – have made him the most powerful sovereign in Arabia. His dominions reach Irak, Palestine, Syria, Red Sea and Persian Gulf. His prominent personality has imposed itself through the creation of the Ikhwan, i.e. the Brothers: a brotherhood of activist Wahhabis that English Philby has called ‘a new Masonry’ ” (8).

The quoted Philby was Harry St. John Bridger Philby (1885-1960), the organizer of the Arabian anti-Ottoman revolt, who “in Ibn Saud’s court occupied the seat of the deceased Shakespeare” (9), as hyperbolically wrote another orientalist. This new Shakespeare exposed his project to Winston Churchill, George V, Baron Rothschild and Chaim Weizmann: a Saudi kingdom usurping the custody of the Holy Places (traditionally due to the Hashemite dynasty) would be able to unify the Arabian Peninsula and to control the seaway Suez-Aden-Mumbay on behalf of England.

After the Second World War, during which Saudi Arabia had observed a pro-English neutrality, the British patronage was gradually replaced by the North American one. On March 1st 1945, on the board of the Quincy, Roosevelt had an historical meeting with Ibn Saud, who “has ever been a great admirer of America, preferred by him to even to England” (10), as proudly observed by a fellow-countryman of the US President. Indeed since 1933 the Saudi monarchy had granted the oil concession to Standard Oil Company of California and since 1934 the US company Saoudi Arabian Mining Syndicate held the monopoly of the gold digging and mining.

 

 

The Muslim Brothers

In order to contain the nasserian panarabism, the baathist national-socialism and – after the Islamic Revolution in Iran – the shiite influence, the neo-royal family of Saud needed an “International” as support for its hegemony in the Muslim world. Therefore the Muslim Brothers put at the disposal of Riyad their militant network, which was strengthened by Saudi funds. “After 1973 the improving incomes deriving from the oil market are assigned to Africa and to the Muslim communities in the West, where a not well established Islam run the risk of opening the door to the Iranian influence” (11). However the synergy between the Wahhabi monarchy and the movement founded by Hasan al-Banna (1906-1949) is based on a common ideological ground, because the Muslim Brothers are “direct heirs, even if not always strictly faithful, of Muhammad Abduh’s salafiyyah” (12) and bear in their DNA the tendency to accept the modern western civilization, with all the due reservations.

Tariq Ramadan, Hasan al-Banna’s grandson and representative of the reformist Muslim intelligentsia, interprets the thought of the movement’s founder: “Like all the reformists who preceeded him, Hasan al-Banna never demonized the West. (…) The West has permitted the mankind to make great strides since the Renaissance, with the beginning of a wide process of secularization (a positive contribution, considering the speciality of Christian religion and clerical institution)” (13). The reformist intellectual remembers that his grandfather, performing the activity of school teacher, drew his inspiration from the most recent pedagogical theories of the West and reports a significant passage written by him: “From the western schools and their programs we must take the constant interest for the modern education, their way of facing the requirements and the preparation to learning (…) We must take advantage of all that, without being shy: science is a right of everyone” (14).

The so-called “Arabian Spring” has proved that the Muslim Brothers, supported by USA in Libya, in Tunisia, in Egypt and in Syria, are willing to accept those western ideological main points which – as Huntington has underlined – clash with Islam. The Egyptian party “Freedom and Justice”, born on the initiative of the Brotherhood and controlled by it, appeals to the Human Rights, champions the democratic doctrine, supports the capitalist economy, does not refuse the loans of the international usurocratic institutions. The Muslim Brother become Egyptian President has studied in USA, where he was assistant lecturer at the California State University; two of his children are American citizens. He has immediately declared that Egypt will observe all the treaties stipulated with other countries (included the Jewish State); he has paid his first official visit to Saudi Arabia and has declared his will of strengthening the Egyptian relations with Riyad; he has proclamed an “ethic duty” the support to the armed opposition struggling against the Syrian government.

If the thesis upheld by Huntington about Islam and Islamism needed a proof, it seems that it has been given by the Muslim Brothers.

 

 

 

 

 

1. Rédha Malek, Tradition et révolution. L’enjeu de la modernité en Algérie et dans l’Islam, ANEP, Rouiba (Algeria) 2001, p. 218.

2. http://www.american-buddha.com/lit.johnsonamosqueinmunich.12.htm

3. “- Les Américains vous semblent-ils plus conciliants que les Européens? – A l’égard de l’islam, oui. Il n’y a pas de passé colonial entre les pays musulmans et l’Amérique, pas de croisades; pas de guerre, pas d’histoire… – Et vous aviez un ennemi commun: le communisme athée, qui a poussé les Américains à vous soutenir… – Sans doute, mais la Grande-Bretagne de Margaret Thatcher était aussi anticommuniste…” (Tunisie: un leader islamiste veut rentrer, 22/01/2011; http://plus.lefigaro.fr/article/tunisie-un-leader-islamiste-veut-rentrer-20110122-380767/commentaires).

4. Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 137.

5. Quoted by Maryam Jameelah, Islam and Modernism, Mohammad Yusuf Khan, Srinagar-Lahore 1975, p. 153.

6. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989, p. 126.

7. Carlo Alfonso Nallino, Raccolta di scritti editi e inediti, Vol. I L’Arabia Sa’udiana, Istituto per l’Oriente, Roma 1939, p. 151.

8. Henri Lammens, L’Islàm. Credenze e istituzioni, Laterza, Bari 1948, p. 158.

9. Giulio Germanus, Sulle orme di Maometto, vol. I, Garzanti, Milano 1946, p. 142.

10. John Van Ess, Incontro con gli Arabi, Garzanti, Milano 1948, p. 108.

11. Alain Chouet, L’association des Frères Musulmans, http://alain.chouet.free.fr/documents/fmuz2.htm.

12. Massimo Campanini, I Fratelli Musulmani nella seconda guerra mondiale: politica e ideologia, “Nuova rivista storica”, a. LXXVIII, fasc. 3, sett.-dic. 1994, p. 625.

13. Tariq Ramadan, Il riformismo islamico. Un secolo di rinnovamento musulmano, Città Aperta, Troina 2004, pp. 350-351.

14. Hassan al-Banna, Hal nusir fi madrasatina wara’ al-gharb, “Al-fath”, Sept. 19th 1929, quoted by Tariq Ramadan, Il riformismo islamico, p. 352.

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COME USCIRE DALLA CRISI COREANA. INTERVISTA AD ALDO COLLEONI

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Intervista a cura di Marco Bagozzi
 
Aldo Colleoni, già Docente di Geopolitica ed autore di 120 pubblicazioni, è indubbiamente l’italiano che da più tempo e in modo più approfondito conosce la Repubblica Democratica Popolare di Corea: i suoi rapporti coi dirigenti coreani risalgono agli anni ’70. Ha ricoperto il ruolo di Presidente dell’Ufficio di Corrispondenza Commerciale con l’Italia per oltre dieci anni prima della apertura delle relazioni diplomatiche tra i due Stati, alle quali ha contribuito in modo determinante. Colleoni ha aperto a Pyongyang nel 1980 il primo ufficio europeo, ricevendo attestazioni di solidarietà dallo stesso Presidente Kim il Sung e da suo figlio Kim Jong Il, allora dirigente del Partito, dal quale è stato decorato con l’onorificenza di Stato, l’Ordine della Fratellanza. Ha tenuto corsi sulla economia occidentale a Pyongyang e ha visitato il Paese, le fabbriche, il 38° parallelo e le difese militari; ha gestito nel Mediterraneo la flotta mercantile della RPDC aprendo un ufficio a Trieste con personale coreano; ha guidato e organizzato la visita in Corea delle prime delegazioni ufficiali italiane prima della apertura delle relazioni diplomatiche. Colleoni è ancor oggi in contatto permanente con esponenti delle strutture di Partito e di Governo della RPDC.

 

 

D. Perchè si è creata questa situazione di tensione nell’area?

R.  Durante la visita del Presidente Obama ad Israele, dopo la sconfitta militare e politica degli USA in Iraq e Afganistan, dalle sue dichiarazioni è emersa la chiara volontà dei gruppi di potere dell’industria di armamenti USA di aprire  nuovi fronti di guerra: il primo contro l’Iran a sostegno di Israele ma in realtà mirante alle grandi riserve petrolifere iraniane e il secondo quale monito al continuo rafforzamento della Repubblica Popolare di Cina, che ha sostituito la presenza dell’URSS nell’America centrale e meridionale, in Africa e in Asia.

 

D. Qual è il ruolo della RPDC in questo contesto?

R, – Nella Corea del Sud è presente una delle più grandi basi USA con armamento atomico per il controllo della Cina, della Russia siberiana e della RPDC. Da questa base è partita la provocazione – ormai ricorrente ogni anno – contro la RPDC, denominata manovra congiunta con la Sud Corea. Ma ad aggravare questa volta la situazione è stato l’arrivo di nuovi bombardieri e aerei spia invisibili per monitorare il territorio nordcoreano, che ha provocato una giusta, decisa e coraggiosa reazione da parte della RPDC e del suo giovane dirigente. Lo scopo come sempre è il tentativo degli USA di far insorgere la popolazione del Nord contro il Partito e il Governo, per insediare un regime filoamericano come al sud ai confini della Repubblica Popolare Cinese, la vera grande potenza mondiale del XXI secolo. Il tentativo anche questa volta è fallito, perché popolo, esercito, partito si sono stretti attorno al loro Presidente. E’ un chiaro messaggio, rivolto  agli USA, di rifiuto delle ingerenze straniere nel processo pacifico di riunificazione della penisola coreana, processo che avanzava decisamente nel reciproco interesse. Ciò ha scatenato la provocazione USA, tesa a bloccarlo per evitare la riunificazione e  la conseguente formazione di uno Stato confederale di 60 milioni di abitanti, che certamente non avrebbe più gradito la presenza della grande base militare americana.

 

D. Quali possibili passi per uscire dalla crisi e rilanciare il processo di pacifica riunificazione?

R. – La soluzione è semplice: ripristinare la situazione geopolitica dei primi mesi di questo anno. In concreto, ciò significa: sospendere immediatamente le manovre congiunte con il sud contro la RPDC, ripristinare gli accordi di Ginevra voluti dalla amministrazione Clinton, organizzare un incontro immediato a Ginevra dei tre Ambasciatori di USA, RPDK, Sud Corea, per confermare i due punti precedenti e fissare la data per la firma del trattato di Pace che metta fine all’armistizio del 1953.

 

D. Professore, ritiene che questi tre punti possano risolvere lo stato di tensione attuale?

R. – Certamente rappresentano i punti essenziali per ripristinare i contenuti degli accordi di Ginevra voluti da Clinton, per poi procedere celermente sulla strada della riunificazione pacifica senza ingerenze straniere, già concordata e in fase di positiva attuazione tra le due Coree.

 

 

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UN “OMBRELLO” DA RIFIUTARE NELL’INTERESSE EUROPEO

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Il caso del MUOS di Niscemi risolleva la questione delle basi statunitensi disseminate per l’Italia, l’Europa e il pianeta. Chi critica la decisione di fermare la costruzione della base in Sicilia argomenta tirando in ballo la logica del “non nel mio cortile”; cioè: vogliamo sì le comodità e le sicurezze della modernità, senza però volerne pagare il prezzo. Il punto è, tuttavia, proprio questo: abbiamo ancora bisogno dell’ombrello nordamericano? La Guerra Fredda è finita da un pezzo, non viviamo più in un mondo bipolare, spaccato tra il blocco statunitense e quello sovietico. Ora la situazione è più frammentata, e l’Europa potrebbe essere più forte e rivendicare strategie geopolitiche indipendenti dalla politica estera degli USA.

Per prima cosa, l’Europa dovrebbe cercare di appianare i suoi dissidi e le sue rivalità intestine, e cercare di stabilizzare e rendere più equa la situazione economica al suo interno. Le enormi sperequazioni tra i vari Stati membri ci offrono un’Europa a velocità diverse, ma con la stessa moneta, per cui c’è già chi parla di creare un euro forte e uno debole. Ovviamente un tale sistema non può reggere per molto tempo e in tutto il Continente proliferano i gruppi politici che invocano l’uscita dalla moneta unica. Guardare per prima cosa al proprio interno, dunque, e per seconda cosa consolidare o creare i rapporti con i cosiddetti Paesi emergenti, cercare di spingere la ricerca verso fonti energetiche alternative, e nei limiti del possibile pulite, visto che l’Europa non ne dispone molte.

Contemporaneamente, l’Europa dovrebbe munirsi di un esercito unitario e, a quel punto, che senso avrebbe per le forze statunitensi rimanere? Le ragioni di tale permanenza le ha fornite chiaramente Mark P. Hertling, Comandante delle Forze Statunitensi in Europa: “L’Europa è un’area strategica da cui possiamo supportare operazioni che si svolgono in questo emisfero, mentre lavoriamo con i nostri alleati e partner e in questo modo il nostro obiettivo è quello di rispondere a tutte quelle sfide che stanno emergendo nel XXI secolo”.

Solo in Italia i militari statunitensi sono 2.600, in tutta Europa 40.000 (dati del 2012). Obama ha sì detto che intende ridurre il numero dei militari in Europa, di circa 10.000 unità, ma le spese in campo bellico rimangono ancora una priorità per gli Stati Uniti. La Cina ha superato gli Stati Uniti come volume d’affari, ma dal punto di vista militare è ben lungi dal raggiungerli; se la Cina ne ha spesi poco più di 100, questi ultimi hanno, infatti, raggiunto quasi i 700 miliardi di dollari nel 2012, cui si aggiungono gli sforzi dei suoi alleati al di là dell’Atlantico, e tutto questo materiale dovrà, prima o poi, essere usato.

Il caso del MUOS, poi, coinvolge anche la questione dei droni e, con essi, la forma di guerra più vigliacca mai condotta nella storia. Il Presidente degli Stati Uniti, Premio Nobel per la Pace e Comandante in Capo del più potente esercito del mondo, ha dichiarato che, se potesse, manderebbe in Afghanistan solo automi, per non sacrificare la vita dei militari suoi connazionali; difatti, ha intensificato l’uso dei droni, dispiegandone molti di più di quanto non fece l’amministrazione Bush Jr.

All’interno di questo quadro, è interessante osservare il caso del Kosovo. Un fazzoletto di terra dentro la Serbia, a maggioranza albanese, si dichiara indipendente; gli Stati Uniti appoggiano la richiesta e, nonostante il Consiglio di Sicurezza Onu non appoggi l’intervento, intervengono militarmente adducendo come motivo una pulizia etnica effettuata da Milosevic. Il Kosovo ottiene così l’indipendenza e la più grande base statunitense di tutta Europa. La posizione strategica e geopolitica è importantissima: in funzione antirussa e per il controllo dei flussi di petrolio che coinvolgono l’area del Mar Caspio, il Vicino Oriente, l’Europa orientale e parte di quella mediterranea. A questa base (Bondsteel) sono da affiancare quelle situate in Romania, Bulgaria, Croazia e Montenegro.

Non deve, quindi, stupire quanto detto dall’ex-segretario di stato Hillary Clinton nell’aprile del 2012 e cioè che gli USA si impegneranno affinché il Kosovo entri non solo nella NATO, ma anche nella UE.

C’è però la questione Regno Unito, che in virtù della “speciale amicizia” che lo lega agli USA, e delle relazioni tra la borsa di Londra e quella di New York, sembra tenere molto di più all’alleato oltreoceano che all’Europa. Del resto recentemente David Cameron ha annunciato che la permanenza nella UE è in discussione. Dovrebbe quindi decidere cosa volere fare da grande, continuare a seguire gli USA nelle loro politiche economiche ed estere, o cercare, assieme a tutto il resto dell’Europa, una via alternativa?

Similmente la Francia dovrebbe lasciarsi alle spalle la sua storia coloniale, e non intromettersi più nelle questioni interne a quelle che considera ancora le proprie colonie.

L’Europa, infine, non dovrebbe persistere nella scelta di assecondare gli USA nella loro politica nel mondo arabo e musulmano, ma dovrebbe trovare rapporti diversi; in tale compito dovrebbe impegnarsi in particolare l’Italia, che per posizione geografica e relazioni storiche ha sempre avuto rapporti privilegiati con alcuni Paesi arabi. Questa inversione di rotta produrrebbe, oltre tutto, il non trascurabile risultato di sfoltire le schiere dell’estremismo settario, contribuendo alla pacificazione dell’area.

 

 

* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.
 

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IL RITORNO DEI MARO’

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La contesa tra i governi dell’Italia e dell’India va avanti da Febbraio (dell’anno scorso, ndt), quando due marò italiani furono catturati e arrestati dalle autorità indiane nella regione del Kerala. I due militari erano in servizio per conto della Marina come contractor a bordo della petroliera privata italiana Enrica Lexie. Il 22 febbraio sono stati coinvolti in un caso di omicidio. Due pescatori indiani sono stati uccisi nello stesso spazio marittimo. Qualche ora dopo, la Guardia Costiera Indiana bloccò la nave e ordinò all’equipaggio di attraccare al porto di Kochi.

Da allora, l’India ha sempre considerato la questione sotto la sua giurisdizione e l’Alta Corte del Kerala continua a rivendicare il pieno diritto a condurre le indagini e a stabilire la competenza processuale. Tuttavia il governo italiano reclama una propria competenza specifica, in base all’ipotesi che il duplice omicidio sia avvenuto in acque internazionali.

L’ultimo braccio di ferro è cominciato quando il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi ha deciso di non rispettare l’accordo con il primo ministro indiano Manmohan Singh, trattenendo i marò in Italia e bloccando il loro ritorno in India dopo un permesso per fare temporaneamente ritorno in Italia in occasione delle elezioni politiche. Il governo indiano ovviamente ha condannato questa decisione e Singh l’ha reputata inaccettabile, minacciando ripercussioni nei rapporti bilaterali tra i due Paesi durante un discorso ufficiale al Parlamento.

L’opinione pubblica indiana si è immediatamente concentrata su questa disputa. La memoria dell’era imperiale è ancora forte in India, dove il nazionalismo indù si oppone tanto all’eredità dell’Impero Britannico quanto a quella degli “invasori” del Mughal islamico, che governarono l’India nel passato. Il colonialismo resta una delle tracce più negative sull’eredità storica occidentale e le piaghe lasciate in Asia e in Africa sono ancora profonde.

Oggi l’India è una delle più considerevoli potenze mondiali, forte di un’economia crescente e dotata di significative capacità militari. Diverse contraddizioni ovviamente rimangono: l’inquinamento, una rilevante fascia di popolazione sotto la soglia di povertà, la discriminazione sociale e la divisione tra le varie caste, il terrorismo e il crimine. Tuttavia, la posizione del mercato indiano all’interno dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio è notevole e il ruolo giocato da questo Paese nel quadro di importanti vertici internazionali come il BRICS o l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai fa dell’India un attore geopolitico profondamente influente.

Terzi si è subito reso conto di aver commesso un grave errore diplomatico e ha così abbandonato la sua decisione iniziale, anzi accettando le richieste dell’India, ma i partiti e i movimenti di destra italiani hanno ingenerato una imponente opera di propaganda contro questa “umiliazione nazionale”, rivendicando un atteggiamento “forte” da parte dell’Italia e nei casi più eclatanti addirittura un’azione di guerra contro l’India.

In Italia, un caso di duplice omicidio è dunque diventato un pretesto per istigare allo sciovinismo e all’imperialismo in un Paese sotto il tallone della crisi economica, creando così un pericolosissimo clima sociale. Alcuni giorni fa, Terzi è stato costretto a dimettersi dal suo incarico, mentre il primo ministro Mario Monti ha affermato che durante il recente vertice BRICS a Durban sono stati inviate preoccupanti minacce politiche contro l’Italia. Ovviamente tutto ciò è completamente falso e nessun capo politico dei Paesi del gruppo dei BRICS ha minacciato l’Italia.

Ad ogni modo, questa incomprensione potrebbe generare tra la popolazione italiana un clima d’odio xenofobo nei confronti dei Paesi non-occidentali e soprattutto nei confronti dell’India. Questa propaganda nazionalista evita di menzionare il fatto che i due marò italiani stavano lavorando come contractor su una petroliera privata, così come dimentica numerosi altri casi di incidenti militari o di tipo “blue-on-blue” (quando uno o più soldati sono vittime del proprio stesso esercito o alleato, ndt).

Questo rozzo nazionalismo, simile più alla legge della giungla che ad un vero e proprio orgoglio patriottico, crea tuttora seri ostacoli sul cammino della pace, della stabilità e della mutua cooperazione. L’Italia e gli altri Paesi dell’Europa sembrano essere incapaci di cancellare le fallaci idee di “occidentalizzazione” e “superiorità occidentale” dalla loro agenda politica internazionale, che resta completamente vincolata alla dottrina degli Stati Uniti anche a 22 anni di distanza dalla fine della Guerra Fredda.

 

 

L’articolo è stato originariamente pubblicato in lingua inglese, con il titolo Return of marines shakes up nervous and fraught Italian politics, a pag. 13 dell’edizione del 2/04/2013 del “Global Times”, quotidiano internazionale del Partito Comunista Cinese.

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IL QATAR SBARCA IN EUROPA

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Gl’investimenti del Qatar in Italia

Nel novembre 2012 nasce a Doha una particolare società che può essere definita un’opportunità per l’Italia o il lento, ma strategico, avanzamento della ricchezza araba in Europa. Stiamo parlando della IQ Made in Italy Venture, una società che ha visto la luce in virtù di un accordo firmato dal Fondo Strategico Italiano Spa, FSI, la holding nata nel maggio 2011 e controllata dalla italiana Cassa Depositi e Prestiti, e la Qatar Holding LLC, QH (1).

Con un capitale complessivo di 2 miliardi di euro, che verranno versati pariteticamente da FSI e QH nel corso dei primi 4 anni, IQ Made in Italy Venture investirà nelle società italiane che operano in settori “strategici” per lo Stivale. La neonata società si concentrerà sulla produzione e distribuzione dei prodotti alimentari, sulla moda e i beni di lusso, sull’arredamento e il design, così come sul turismo e il tempo libero.

Il nome scelto per la società è indicativo dell’obiettivo a lungo termine dell’Emiro del Qatar, Hamad bin Khalifa Al Thani: entrare nel Made in Italy, nell’ambito di quella particolare politica estera qatariota portata avanti anche attraverso ingenti investimenti in Europa. Uno sguardo ad Est, uno ad Ovest, oltre l’Oceano Atlantico, e occhi puntati sulla crisi che investe ormai da alcuni anni gli Stati europei, questi ultimi sempre alla ricerca di potenti finanziatori.

La Qatar Holding nasce nel 2006 e ha come obiettivo quello di ottenere regolari profitti di lungo termine investendo a livello internazionale e locale, a vantaggio del paese e per diversificarne l’economia (2).

L’incontro con il Fondo Strategico italiano ha permesso all’Emirato di entrare dalla “porta di ingresso” dell’economia italiana. I settori in cui la IQ Made in Italy Venture investirà rappresentano quella che può essere definita l’eccellenza dell’Italia: le aziende che contribuiscono in misura determinante alle esportazioni italiane.

Si tratta, infatti, di settori che rappresentano nel mondo la “qualità” dell’Italia, con un significativo potenziale di crescita e di espansione internazionale.

Obiettivo dell’Italia e del Qatar è quello di investire in aziende d’avanguardia, consolidarne le strutture e garantirne la crescita, anche a livello internazionale. Tutto ciò dovrebbe avvenire mediante la combinazione della conoscenza locale di FSI e della portata globale e conoscenza del settore di QH, per fornire alle aziende un insieme unico di competenze, potenziandone i processi di crescita.

IQ Made in Italy Venture sarà gestita da FSI e QH in maniera paritetica. L’accordo è stato raggiunto in occasione della visita del Primo ministro uscente Mario Monti in Qatar e rappresenta  una delle iniziative che appartengono ad un quadro di cooperazione tra il paese arabo e la Repubblica italiana.

Tra le aziende che sembrano suscitare l’interesse del Qatar emergono la casa di moda della famiglia Versace, dopo l’acquisizione della maison Valentino, Snam, Eni ed Enel, così come il Milan (3).

Una delle regioni che più ha colpito la famiglia reale Al Thani è la Sardegna.

Il Presidente Cappellacci ha preso parte all’incontro di novembre a Doha e nel corso del colloquio è emersa la volontà dell’Emirato di investire nell’isola italiana un miliardo di euro nel settore turistico. Gli investimenti dovrebbero riguardare il rilancio della Costa Smeralda, i trasporti dell’isola e l’allevamento di cavalli purosangue arabi nel sud della Sardegna (4).

 

 

La politica estera di Doha

Quanto riportato finora, ci racconta della nascita di una società mista nata dalla collaborazione di un’Italia in crisi e di un Qatar in espansione. La rilevanza strategica di uno Stato a livello internazionale si misura anche dalla forza di attrazione che questo genera negli investitori mondiali e l’arrivo di nuovi capitali in Italia può avere senza alcun dubbio degli effetti positivi.

Nell’era dello Spread che sale e che scende e dei declassamenti ad opera di ibride agenzie di rating, “investimento” diventa la parola d’ordine per eccellenza.

La IQ Made in Italy Venture investirà in settori dell’eccellenza italiana, in aziende di elevata qualità che rappresentano una quota consistente delle esportazioni dell’Italia. Il denaro qatariota rappresenterà per questi settori una boccata di aria pura, nel breve periodo, ma a lungo termine l’intervento dell’Emirato può voler dire avere diritto a metà di quella che è l’immagine dell’Italia nel mondo.

L’Italia della moda, del cibo, del lusso e del turismo sarà finanziata da un paese che negli anni sta conducendo una politica estera sui generis.

 

 

L’Emirato in Europa 

Gli investimenti di Doha hanno oltrepassato le Alpi. Dopo un anno di dubbi, nell’ottobre 2012 anche Parigi ha accettato la creazione di un fondo gestito dal Qatar per aiutare le aree povere francesi, rurali ed urbane (5).

Il Ministro per il risanamento economico, Arnaud Montebourg, pur accettando un tale accordo, ha deciso di modificare la natura del fondo di capitali di Doha mediante la previsione della partecipazione della Francia, con l’obiettivo di mettere a tacere chi criticava la “svendita” delle periferie e delle zone rurali francesi ad un paese straniero. L’intervento del Qatar in territorio francese nasce dalla richiesta di un piccolo gruppo di eletti nelle assemblee locali, riuniti nell’Associazione nazionale dei rappresentanti locali per la diversità, Aneld. Questa associazione ha bussato alle porte dell’Emiro chiedendo di investire lì dove Parigi rimane immobile, in quei quartieri, abitati da un gran numero di musulmani, in cui il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge il 40 %.

L’interesse del Qatar per la Francia si è inoltre manifestato nell’acquisto del palazzo del quotidiano Le Figaro e della squadra di calcio del Paris Saint Germain e in investimenti nella compagnia petrolifera Total (6).

L’Emirato, dunque, è divenuto negli ultimi anni uno degli investitori più attivi nell’Europa della crisi finanziaria. Nel 2011 il fondo sovrano del Qatar, Qatar Investment Authority, ha finanziato la fusione di Eurobank e Alpha Bank, due delle maggiori banche della Grecia e ha poi acquisito quote nelle multinazionali petrolifere portoghesi Energias de Portugal e Iberdrola (7).

Il Qatar ha inoltre investito nel settore automobilistico e bancario e si è spinto anche in Gran Bretagna con l’acquisto del Villaggio Olimpico di Londra e dei grandi magazzini Harrod’s.

 

 

 

* Marzia Nobile, Laurea Magistrale in “Relazioni internazionali” presso l’Università “La Sapienza” di Roma

 

(1)   Joint venture FSI e Qatar Holding da € 2 mld per il “Made in Italy”,  19 novembre 2012, www.governo.it.

(2)  About QH, www.qatarholding.qa.

(3) Cenci F., I soldi del Qatar, 2012, www.ilfarosulmondo.it.

(4) Il Qatar investe sull’Italia. Anche senza garanzie sul dopo Monti, 2012, www.ilfattoquotidiano.it.

(5)  Le Devin W., Perfusion qatarie pur les quartiers, 2012, www.liberation.fr.

(6) Billi D., Monti svendita: il Qatar sta già prendendo tutto, con obiettivo Snam?, 2012, www.petrolio.blogosfere.it.

(7) Il Qatar investe in Europa, 2012, www.ilpost.it.

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I GIOCHI NUCLEARI DELLA COREA DEL NORD METTONO IN PERICOLO LA CINA

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La costante retorica bellica nordcoreana seguita alle sanzioni stabilite in sede ONU, potrebbe apparire ridicola alla maggior parte delle persone. In realtà ha una sua logica e non si tratta di una logica folle. Infatti, la terza prova nucleare, il lancio satellitare dello scorso dicembre e il recente picco di tensione raggiunto in occasione delle esercitazioni congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, riflettono tutti le speranze del presidente Kim Jong-Un di prendere due piccioni con una fava.

Sul piano internazionale, la Corea del Nord vuole riportare gli Stati Uniti al tavolo delle trattative e ottenere maggior sostegno giocando la carta nucleare. Nonostante i test e gli avvertimenti della Corea del Nord, Kim ha espresso la sua impazienza di ricevere una telefonata dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama durante la visita del famoso cestista dell’NBA Dennis Rodman in Crea del Nord lo scorso febbraio.

Sul piano interno, Kim può consolidare il suo ruolo-guida attraverso una serie di azioni robuste nei confronti degli Stati Uniti e della Corea del Sud. Il cambio al vertice delle Forze Armate dello scorso luglio, quando l’alto Comandante Ri Yong-Ho fu sollevato da tutti i suoi incarichi, ha messo in evidenza l’intensa lotta in seno alla dirigenza politica dopo l’ascesa di Kim alla guida del Partito e dello Stato. La linea politica dell’“esercito innanzitutto” (Songun, ndt) ha già fatto dei militari il gruppo di interesse più potente del Paese, ed una fazione del cui supporto Kim ha disperatamente bisogno.

Kim sa anche che la Corea del Nord molto difficilmente seguirà il destino politico dell’Iraq o della Libia, grazie al sostegno della Cina. Il Trattato di Mutua Assistenza e Amichevole Cooperazione Sino-NordCoreano siglato nel 1961 stabilisce che i due Paesi debbano “garantire l’adozione immediata di tutte le misure necessarie ad opporsi a qualsiasi Stato o coalizione di Stati che possa aggredire l’una o l’altra nazione”. Quindi la Cina farà tutto il possibile per fermare qualunque attacco contro la Corea del Nord, per evitare di essere coinvolta in un confronto militare non-necessario con suoi interlocutori commerciali come gli Stati Uniti e la Corea del Sud, e per impedire enormi perdite umane ed economiche come già avvenuto durante la Guerra di Corea (1950-53).

La Corea del Nord riveste ancora un’importanza strategica per la Cina. E questo viene spesso sottovalutato da quegli analisti cinesi che suggeriscono di abbandonare la Corea del Nord. Essa agisce ancora come un cuscinetto. Se la Corea del Nord dovesse cadere e Kim dovesse essere detronizzato in favore di un nuovo regime politico di orientamento atlantista, si spianerebbe la strada agli Stati Uniti per ridisporre le loro forze stanziate in Corea del Sud lungo il confine nordorientale della Cina, generando un grande pericolo in termini di sicurezza nel momento in cui la reciproca fiducia militare tra Stati Uniti e Cina venisse completamente meno.

La Cina deve inoltre mantenere la stabilità della sua regione nordorientale. Una massa di rifugiati nordcoreani getterebbe l’intera area nel caos e distruggerebbe un’economia che aspira a riguadagnare il suo vecchio ruolo di cuore industriale del Paese. Dunque una priorità strategica per la Cina è quella di assicurare la conservazione del regime di Kim e di impedire il collasso della Corea del Nord. Ma la Cina dovrebbe continuare ad essere un alleato della Corea del Nord, indipendentemente da ciò che questa compie?

Sebbene lo sviluppo nucleare della Corea del Nord sia osteggiato soltanto dagli Stati Uniti, il suo programma atomico porterà seri rischi alla Cina più che agli Stati Uniti. La terza prova nucleare di febbraio è stata condotta a poco più di 100 chilometri dal confine nordorientale cinese. Malgrado le autorità abbiano tranquillizzato la popolazione assicurando che le montagne lungo il confine erano e sono in grado di impedire che le radiazioni arrivino anche in Cina, la possibilità che le scorie nucleari inquinino le falde acquifere non può essere totalmente esclusa. La sicurezza dell’acqua sotterranea non solo è strettamente connessa alla rete idrica potabile della Cina nordorientale, ma rappresenta anche un pericolo nascosto per la sicurezza e la salvaguardia alimentare del Paese.

Già nel 2010, il governo centrale cinese pubblicò un documento ufficiale stabilendo che il Nord-Est dovrebbe essere strutturato come un pilastro della sicurezza alimentare nazionale. Nel 2011, il raccolto di grano in questa regione è arrivato a 108 milioni di tonnellate, pari a un quinto del totale nazionale. L’incidente nucleare di Fukushima in Giappone è la più recente lezione. La Prefettura di Fukushima, dove l’agricoltura costituiva un pilastro industriale, è stata altamente contaminata. La produzione alimentare è stata seriamente danneggiata.

La Cina non può permettersi il rischio di un nuovo disastro analogo nel Nord-Est. Quello che la Cina dovrebbe fare è ora proteggere la Corea del Nord offrendo un ombrello nucleare così come gli Stati Uniti fanno con il Giappone e la Corea del Sud, ma anche convincerla ad ascoltare i consigli cinesi affinché abbandoni i programmi nucleari. Se un quarto test nucleare fosse condotto, la Cina correrebbe rischi maggiori di quelli corsi da qualsiasi altra nazione.

 

*L’autore è un osservatore indipendente di affari internazionali

 

FONTE: Global Times

 

 

(Traduzione di Andrea Fais)

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IL PROCESSO DI PACE IN COLOMBIA

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Il conflitto armato colombiano è uno dei più longevi del mondo; esso infatti insanguina e destabilizza il Paese sudamericano da mezzo secolo. Le forze in campo sono essenzialmente due: da un lato lo Stato colombiano, dall’altro la guerriglia, identificata principalmente con le Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia). Entrambi i fronti si sono macchiati di gravi crimini, passando da sequestri, sfruttamento del narcotraffico, giustizia sommaria e operazioni paramilitari sostenute da corposi finanziamenti statunitensi.

Dal 1964, anno di nascita delle Farc, il gruppo di guerriglia maggiore per numero, attività e notorietà, il tema della soluzione di tale conflitto ha assunto progressivamente maggiore rilevanza, arrivando a divenire necessariamente il centro della politica interna della Colombia.

Le strategie proposte sono state svariate; alcuni Presidenti hanno sostenuto il dovere dello Stato di sconfiggere sul campo la guerriglia, stimolando però una spirale di violenza sempre maggiore e senza riuscire a sradicarla. Altre Presidenze hanno invece intrapreso la via del negoziato, che però ha sempre portato a un nulla di fatto, almeno fino ad oggi.

Un tentativo di negoziato terminato nel sangue è stato quello promosso dal Presidente Betancurt, durante la sua Presidenza dal 1982 al 1986, tramite gli Accordi della Uribe con le Farc (28 marzo 1984) e l’accordo di Corinto con il movimento M-19 (24 agosto 1984).

Inizialmente Betancurt era così riuscito ad accordare un cessate il fuoco tra il Governo e i vari movimenti di guerriglia, ma la sua decisione di trovare una soluzione politica al conflitto armato colombiano risultò immediatamente controversa all’interno del Paese.

La tensione aumentava velocemente, mentre le condizioni di vita peggioravano, tanto che il movimento di guerriglia M-19 decise di rompere la tregua, arrivando il 6 novembre 1985 ad assaltare il Palazzo di Giustizia a Bogotà.

L’esercito reagì immediatamente, segnando il definitivo fallimento del tentativo di Betancurt. A pagarne il prezzo più alto fu certamente il movimento M-19, che contò il numero maggiore di caduti nei mesi che seguirono la presa del Palazzo di Giustizia. Le gravi perdite inflissero un colpo fatale al movimento che si sgretolò progressivamente, arrancando per tutti gli anni ’80 fino alla dissoluzione del movimento all’inizio degli anni ’90, in seguito alla quale alcuni dei suoi componenti confluirono negli altri movimenti di guerriglia.

Tale tentativo di soluzione pacifica  non sortì dunque gli effetti auspicati e lasciò spazio alla via militarista, che risulta infatti alternarsi alla soluzione concordata.

Una sintesi di tali metodi emerge anche nell’ultimo decennio, in particolare nelle figure di Álvaro Uribe Vélez e di Juan Manuel Santos Calderón.

 

 

Álvaro Uribe Vélez (2002-2010) 

Uribe è stato Presidente della Colombia dal 2002 al 2010, essendo stato rieletto per un secondo mandato nel 2006. Durante questi otto anni l’ex Presidente si è fatto promotore della cosiddetta politica della “sicurezza democratica”, la quale ha alimentato la violenza nel Paese e l’incertezza dei suoi cittadini, in particolare nelle aree periferiche e di frontiera. Sono state incentivate le azioni paramilitari e proposte ricompense agli informatori, fino alla promessa di ricompense per l’uccisione di componenti delle Farc.

Durante la presidenza di Uribe è certamente diminuito il numero dei guerriglieri, passati dalle 24000 unità alle 8000 (1). Un tale approccio, puramente militare, ha contribuito ad acuire la violenza nel Paese, spesso a scapito della popolazione civile.

Uno degli episodi più scandalosi è quello dei falsos positivos, verificatosi in diverse località del Paese dopo l’applicazione della Direttiva numero 29, nel novembre 2005. Tale direttiva ha introdotto ricompense specifiche per l’uccisione di guerriglieri, da un minimo di 1900 dollari a un massimo di due milioni e cinquecentomila dollari, a seconda del grado della persona uccisa (2).

Tale provvedimento ha avuto conseguenze anche peggiori di quelle che si sarebbero avute nella corretta applicazione della norma; il fenomeno, infatti, è degenerato nella messa in scena di falsos positivos. Centinaia di ragazzi sono stati prelevati dalle proprie case, travestiti da guerriglieri e poi uccisi, in modo da ottenere le ricompense promesse dalla Direttiva 29 (3).

La conferma di tali atrocità e la condanna internazionali non si sono fatte attendere; Philip Alston, Relatore Speciale delle Nazioni Unite per le esecuzioni arbitrarie, ha affermato : “[…] membri delle forze di sicurezza della Colombia hanno perpetrato un numero significativo di esecuzioni extragiudiziali, seguendo un modello comune all’interno del Paese. Anche se questi omicidi non furono commessi come parte di una politica ufficiale, ho trovato molte unità militari coinvolte nei cosiddetti “falsi positivi”, in cui le vittime erano assassinate da militari, spesso per ottenere un beneficio o un vantaggio personale” (4).

Un altro grave episodio causato dall’approccio militarista di Uribe si è verificato nel 2009, quando le Forze Armate colombiane non hanno esitato a bombardare un territorio ecuadoriano, pur di colpire un accampamento delle Farc ivi situato. L’episodio ha causato inevitabilmente un raffreddamento dei rapporti tra i due Paesi; inoltre il Venezuela ha dimostrato di appoggiare l’Ecuador e ha duramente criticato una simile politica estera della Colombia. Essa infatti, negli anni di Uribe, ha scelto di avvicinarsi agli Usa, i quali hanno contribuito in maniera decisiva alla politica della sicurezza democratica, sostenendola con ingenti finanziamenti (5).

 

 

Juan Manuel Santos Calderón e l’attuale processo di pace

La linea dura di Uribe è riuscita ad assottigliare le fila della guerriglia, ma non a sconfiggerla. Otto anni di lotta violenta e continua non hanno saputo scrivere la parola fine. Nel 2010 le Farc ci sono ancora, sono forti e sono attive.

Al termine del doppio mandato di Uribe è ormai chiaro che nessuna delle due forze sconfiggerà mai l’altra sul campo in maniera definitiva (6).

Il Presidente Santos, eletto nel 2010 come successore di Uribe, ha infatti scelto di percorrere una via opposta a quella del suo predecessore: il negoziato. Santos si pone in rottura non solo col passato del Paese, ma anche con le sue personali scelte anteriori. Egli è stato Ministro della Difesa durante la Presidenza di Uribe, dunque complice e fautore consapevole delle deplorevoli politiche aggressive perpetrare.

Alla luce di quanto affermato, la scelta di Santos può essere letta in maniera più compiuta come una decisione marcatamente politica, non certamente ideologica. Forse proprio in ciò sta la sua forza e il suo auspicabile successo.

Dopo decenni di guerra civile, l’uso della forza non ha sortito gli effetti sperati, non resta che affacciarsi con fiducia a una soluzione conciliata del conflitto.

In questa prospettiva si è espressa in un’intervista del 2008 anche Ingrid Betancourt, sequestrata per oltre sei anni dalle Farc, affermando che ”è importante esercitare una pressione dal punto di vista militare, ma in questo modo non si riusciranno a sconfiggere veramente (le Farc)”; la Betancourt ha sostenuto infatti che un’alternativa efficace è l’attuazione di azioni di politica sociale per offrire alternative all’arruolamento nelle Farc, venendo incontro alle istanze sociali finora inascoltate, che ingrossano le fila della guerriglia (7).

Sembra arrivato il momento del dialogo, il momento di trattare, negoziare per giungere a una soluzione condivisa e proprio per questo sostenibile nel tempo. Il 26 agosto a Cuba è stato adottato l’Accordo quadro per porre fine al conflitto armato. Al tavolo delle trattative i delegati del Governo della Repubblica della Colombia e i delegati delle FARC ed EP. In occasione di tali negoziati è emerso che la scelta di intavolare negoziati e di arrivare finalmente alla pace è sostenuta anche a livello internazionale. Cuba e Norvegia si sono infatti impegnate come garanti, mentre il Venezuela ha assunto il ruolo di mediatore (8). Anche in questo senso sembra che il governo colombiano voglia dare un segnale di rottura col passato, rappresentato da Uribe. Se quest’ultimo si era appoggiato agli Stati Uniti per finanziare la sua politica della sicurezza democratica, Santos decide di cambiare tattica. Si affida al negoziato e lo fa col sostegno di Cuba, Norvegia e Venezuela, estromettendo finalmente gli Usa dalle dinamiche delle sua politica interna.

Tale Accordo preliminare prevede un’agenda, che stabilisce le priorità e le finalità comuni. Innanzitutto la questione della riforma agraria viene posta come base da cui partire per raggiungere lo sviluppo sociale ed economico del Paese, necessario a porre fine al conflitto; la rilevanza è provata dal fatto che questo tema sia posto come primo punto programmatico dell’agenda.

In seguito viene riconosciuta la necessità di assicurare un’effettiva partecipazione politica (punto secondo), che comprenda l’accesso ai mezzi di comunicazione, la garanzia del diritto di opposizione politica, ma anche di partecipazione diretta alla vita politica. Naturalmente tali diritti politici non possono essere assicurati, senza aver posto termine in maniera definitiva al conflitto armato (punto terzo). Il cessate il fuoco e la pace devono inoltre essere accompagnati da un grande impegno nella lotta al narcotraffico (punto 4), in modo da poter garantire alla popolazione un ambiente sicuro in cui vivere e lavorare per lo sviluppo del Paese, nel segno della legalità. Tale accordo non intende però ignorare il passato e le parti contraenti si impegnano a risarcire le vittime del conflitto, assicurando il rispetto dei diritti umani (punto 5).

Attualmente sono in corso le contrattazioni relative al primo punto, la questione agraria, considerata la chiave per porre fine alle disuguaglianze del Paese, che ne alimentano il conflitto. Il documento parla infatti di “sviluppo agrario integrale”, necessario a uno sviluppo sociale che comprenda innumerevoli dimensioni: la salute, l’educazione, l’abitazione, lo sradicamento della povertà e il raggiungimento della sicurezza alimentare (9).

Dopo quasi mezzo secolo di quella che difficilmente può non essere definita una vera e propria guerra civile, sembra ci sia una chiara volontà politica di porvi fine in maniera pacifica e sostenibile nel tempo. Il conflitto non ha fatto altro che produrre instabilità e insicurezza all’interno del Paese, di cui gli unici beneficiari sembrano essere i maggiori narcotrafficanti colombiani. Essi infatti hanno potuto approfittare dell’anarchia regnante nelle zone periferiche e di frontiera del Paese, creando così una sorta di zona franca tra Colombia, Venezuela ed Ecuador in cui gestire i propri traffici illeciti, arricchendosi a scapito delle miserevoli condizioni di vita delle popolazioni di quelle aree, lasciate in balia delle violenze dai propri governi.

L’Accordo quadro dà un segnale positivo e, rinnegando la via militarista già perdente in passato, inizia quello che potrebbe essere il definitivo processo di pacificazione.

 

 

*Rachele Pagani, laureanda in Diritti dell’uomo ed etica della cooperazione internazionale presso l’Università di Bergamo

 

 

 

(1)Pace in Colombia, le Farc e Santos ci provano, Maurizio Stefanini http://temi.repubblica.it/limes/pace-in-colombia-le-farc-e-santos-ci-provano/37900

(2)Los falsos positivos, Samuel Barinas http://www.aporrea.org/internacionales/a99939.html

(3)il successore di Uribe e le Farc, Antonio Moscato http://ilmegafonoquotidiano.it/news/il-successore-di-uribe-e-le-farc  (4)http://www.un.org/spanish/Depts/dpi/boletin/dynpages/a_21403_dtls.html

(5)Colombia: il conflitto armato, http://www.treccani.it/enciclopedia/colombia-il-conflitto-armato_(Atlante_Geopolitico)/

(6)La pace in Colombia per chiudere il Novecento, Francesca D’Ulisse, http://www.treccani.it/magazine/piazza_enciclopedia_magazine/geopolitica/La_pace_in_Colombia_per_chiudere_il_Novecento.html

(7)http://www.youtube.com/watch?v=C86cYqUdHP4

(8) e (9) Revelan texto del acuerdo firmado por Gobierno y Farc para iniciar diálogos de paz, http://www.canalrcnmsn.com/noticias/gobierno_y_farc_firmaron_un_documento_de_seis_puntos_para_iniciar_di%C3%A1logos_de_paz

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INTERVISTA A STEFANO VAJ SUL CASO DEI MARÒ

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Intervista a cura di Filippo Pederzini.

Stefano Vaj, noto professionista milanese e docente all’Università di Padova, si occupa di metapolitica, visione del mondo e attualità scientifica e culturale dalla fine degli anni settanta.

 

 

1) La vicenda che vede coinvolti i due marò italiani in India, può in
 un qualche modo avere ripercussioni negative anche da un punto di
vista economico, dati i non pochi rapporti intessuti tra realtà 
imprenditoriali italiane di rilievo e lo Stato indiano?

Da qualsiasi punto di vista la si prenda, è difficile contestare che il modo in cui tutta la vicenda è stata affrontata è stato il peggiore possibile ai fini dei rapporti bilaterali. A cominciare dall’increscioso incidente stesso, per continuare con la strumentalizzazione dell’arresto in India dei due sospettati da parte dei media e della politica italiana al fine di suscitare quel tipo di “tifo” sciovinista che evidentemente si contava potesse, oltre che distrarre in generale da altri problemi, accrescere il consenso o i lettori di chi fosse pronto a spararle più grosse.

Naturalmente, l’aspetto più grottesco è stato l’atto finale del (tentativo di) rifiuto da parte del governo italiano di onorare la parola data all’atto della richiesta del permesso elettorale per i due imputati, salvo fare marcia indietro quando l’India ha alzato la voce.

Ora, tutto questo poco edificante teatrino ha certo finito per suscitare un livello di irritazione le cui conseguenze vanno al di là delle possibili distinzioni tra i soggetti economici attivi nella penisola e il governo che gli stessi volenti o nolenti si ritrovano.

 

 

2) Indipendentemente da come evolverà l’intera questione come ne potrà 
uscire l’immagine dell’Italia da un lato e quella dell’India
 dall’altro? E in che modo evolveranno i rapporti tra i due Paesi?

La situazione da un punto di vista legale è abbastanza chiara.

Due persone sono state arrestate con l’accusa di aver ucciso dei cittadini indiani, e portate avanti al giudice di quel paese. Il giudice stesso – come farebbe il giudice svizzero o quello peruviano, del resto – non può far altro che sottoporle a un processo, solo al termine del quale, ed a mente delle prove offerte dall’accusa e dalla difesa, lo stesso potrà decidere sulla base della sua legge se ha giurisdizione oppure no (ad esempio perché il fatto è avvenuto fuori dalle acque territoriali).

La giurisdizione infatti è *una* delle tante questioni che il processo serve a decidere, esattamente come quella se il fatto sussiste, se è l’imputato che l’ha compiuto, se esistevano esimenti come l’errore scusabile o la legittima difesa, eccetera.

Questioni tra l’altro legate tra loro, perché pare incoerente sostenere che il fatto sia avvenuto al di fuori del territorio indiano (così che sarebbe competente il giudice dello stato la cui bandiera è battuta dalla imbarcazione ove si è verificato) e contemporaneamente… che non è mai avvenuto affatto! Caso in cui il giudice indiano non avrebbe affatto da spogliarsi del caso a favore delle corti italiane, non più di quanto dovrebbe farlo a favore di quelle della Mongolia o della Liberia – dato che evidentemente una cosa mai successa non è successa in nessun luogo che permetta di stabilire una giurisdizione diversa da quella adita-, ma semmai dovrebbe assolvere.

Pretendere che i due imputati andassero liberati senza processo (e in particolare per atto governativo, ed in violazione dell’autonomia della corte investita del procedimento) naturalmente è una richiesta che può essere basato unicamente su argomenti come l’invio delle cannoniere. O sul tipo di potere colonialista che ha consentito agli USA di ottenere il recente noto provvedimento di “grazia” dal presidente della repubblica italiana utile a tirare almeno in parte un tratto di penna su reati di sequestro ed espatrio clandestino a fini di tortura e carcerazione illegale, che a quanto accertato commessi in Italia da funzionari del relativo paese.

Ora, il tentativo di ottenere qualcosa del genere da parte di chi non ha né la forza né il potere contrattuale per imporla è indubbiamente un atto ostile ed irrispettoso nei confronti del paese che si sarebbe voluto sottoporre a pressioni, magari invocando solidarietà da parte di “alleati”, o secondo altri padroni, che si sono invece prevedibilmente distinti per la loro totale indifferenza.

La cosa è naturalmente aggravata dal fatto che in Italia sia stato generato internamente un movimento d’opinione, o meglio una campagna mediatica, totalmente prevenuti, ed incline ad attribuire un carattere odioso, se non illegittimo, al modo in cui sono stati trattati gli imputati – che sinora sono stati soggetti ad una detenzione assolutamente speciale per un periodo ridicolmente breve rispetto agli anni e anni di custodia cautelare consentiti dalla procedura penale italiana, e successivamente hanno continuato a vivere indisturbati in India in un albergo di lusso subendo come unica misura di sicurezza il ritiro del passaporto.

Se tutto questo tipo di gestione della crisi può aver eventualmente giovato a qualcuno, è molto dubbio che abbia avvantaggiato la stessa difesa dei due “imputati-martiri”, e certamente ha creato un’ovvia reazione uguale e contraria nell’opinione pubblica indiana, di cui il relativo governo, che probabilmente da parte sua non avrebbe visto l’ora di liberarsi politicamente della relativa piccola grana, non potrà fare a meno di tener conto.

 

 

3) E’ giustificabile nell’intera vicenda l’assenza – o se si è 
mostrato lo ha fatto in maniera molto defilata – del Ministro degli
 Esteri Italiano Terzi di Sant’Agata (solamente De Mistura è comparso a
 più riprese) come quella dello stesso Capo del Governo Italiano Mario
 Monti? Le dimissioni non sono state un atto dovuto?

Le scelte degli interessati sono state probabilmente giustificate da preoccupazioni di politica interna italiana, ma si sono rilevate piuttosto maldestre e schizofreniche anche sotto tale profilo. L’ossessione di dimostrare e strombazzare la pretesa autorevolezza internazionale del “governo dei tecnici” si è in particolare mal combinata con una più tradizionale inclinazione della repubblica italiana a raggiungere un qualche tipo di soluzione sottobanco. Così come si sono mal combinate la consapevolezza della sostanziale impotenza del nostro governo, a cominciare dal profilo militare, e il desiderio di salvare le apparenze facendo la faccia truce, ma non tanto da vedere la propria faccia personalmente identificata con il fallimento che il relativo “ruggito del topo” non ha mancato di sortire.

Il machiavellismo da portineria del “permesso elettorale” e il tentativo di fregare l’India non riconsegnando gli imputati, salvo fare precipitosamente marcia indietro quando ci si è resi conto (ad urne ormai utilmente chiuse…) della china pericolosa e impraticabile su cui ci si era posti, naturalmente ha dato il tocco di ridicolo finale ad una situazione già compromessa.

In questo scenario, le dimissioni del ministro Terzi, certo complice dell’accaduto ma probabilmente preso in giro a sua volta, sono alquanto comprensibili. Come è anche comprensibile che il correlato scandalo istituzionale non abbia trovato di meglio, nella più pura tradizione del basso impero, che farne una questione di “etichetta”. Si sa, nessun monarca e primo ministro è più geloso delle proprie prerogative formali di quelli che amministrano per conto terzi, e sono ridotti a fiduciari o fantocci di altri poteri.

 

 

4) Soltanto per fare una congettura, in che maniera si sarebbe comportato, in una situazione analoga, il governo di un altro Paese?

Il governo di un paese che è in grado di ignorare i giudici e le leggi di un certo territorio, quando ritiene che per certe categorie di atti o persone abbia interesse a farlo, semplicemente lo fa. Non è detto che lo faccia sempre (Amanda Knox è stata pacificamente processata senza che a qualcuno venisse in mente di mandare i marines ad “estrarla” dal territorio italiano), ma tipicamente estende questo trattamento ai suoi diretti agenti, in modo che gli stessi possano agire senza troppe preoccupazioni. Se persino i loro dirigenti e comandanti ritengono che qualche panno sporco vi sia, lo stesso sarà invariabilmente lavato in famiglia.

Al massimo, se proprio il paese in questione si preoccupa di consentire ai governi locali di salvare la faccia farà in modo di far approvare da questi ultimi in via generale qualche regime di extra-territorialità legale, come nei casi della funivia del Cermis, o degli stupri di Okinawa, o di Abu Graib; ma nella maggiorparte dei casi si limiterà a riportare a casa manu militari i possibili responsabili, come per nel caso del rapimento di Abu Omar, ed a rifiutarne ovviamente l’estradizione, salvo magari ottenere tramite i propri fiduciari, ascari e reggicoda locali… la grazia “sovrana“ del paese da cui gli stessi sono evasi.

Al di fuori di questi scenari, noleggiare i propri militari ad armatori privati per compiti di polizia da svolgere fuori dai confini nazionali e da contingenti di qualche entità li espone evidentemente alla cattura.

Se si tratta poi di una cattura da parte di governi riconosciuti dall’Italia, e su cui è impensabile che le forze armate italiane possano far valere il “diritto del più forte”, mi sarebbe parso al tempo stesso più dignitoso e realistico dare la precedenza alla loro difesa processuale, senza sfidare velleitariamente il potere della corte di decidere, come fanno tutte le corti del mondo, sulla propria giurisdizione.

 

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