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GIRI DI VALZER. LA POLITICA ESTERA DELL’ITALIA NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE SELVAGGIA

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Autore: Fabrizio Di Ernesto
 
La linea politica e quella finanziaria oggi sono legati a doppio filo a quell’Unione europea che tramite l’Euro il Mes, il Fiscal compact ha sostanzialmente svuotato il nostro Parlamento di ogni sovranità politica e monetaria rendendoci succubi delle decisioni prese a Bruxelles da un ristretto gruppo di tecnici che operano in rappresentanza di determinate lobby.La politica militare invece è totalmente dipendente a quella imposta dagli Usa tramite la Nato e l’Onu, senza considerare poi l’Eurogendfor, la nuova polizia sovranazionale creata da alcuni Stati europei con poteri e competenze pressoché illimitate. L’unico campo dove la nostra politica può ancora dirsi libera è quello economico, ed infatti l’Italia continua a stingere accordi commerciali anche con quei Paesi come l’Iran o la Siria messi alla gogna da tutta la comunità internazionale, accordi però che vanno quasi sempre a vantaggio dei grandi gruppi industriali.Il bilancio appare però quanto mai negativo, con il nostro che oggi, come non mai in passato, appare un Paese in via di sottosviluppo.

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IDEOLOGIA DI STATO E POLITICA GIOVANILE DELLA REPUBBLICA DI BIELORUSSIA. PRIORITÀ E VALORI STRATEGICI

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Autore: Jadviga S. Jaskević
 
Dopo il 1991, il continente ex-sovietico si è velocemente trasformato in un vastissimo territorio contraddistinto da crisi economica, terrorismo ed instabilità. Soltanto pochissimi Paesi possono vantarsi di aver saputo nuotare controcorrente e, fra questi, la Bielorussia del Presidente Lukashenko, rappresenta un lodevole esempio, dimostrando come sia possibile conservare le conquiste del passato e valorizzare il significato scientifico-politico per affrontare le sfide del futuro. Il testo della prof.ssa Jadviga S. Jaskević, pubblicato in versione aggiornata nel 2005, costituisce un’analisi di grande spessore teoretico, sociologico e strategico, capace di delineare, le principali direttrici politiche dell’ideologia di Stato della Repubblica di Bielorussia. Prefazione di Andrea Fais.

Schermata 2013-04-08 a 12.21.41 PM

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I PAESI ASIATICI POSSONO UNIRSI CONTRO IL PROTEZIONISMO ATTRAVERSO IL FORUM DI BOAO

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La conferenza annuale per l’anno 2013 del Forum di Boao per l’Asia (BFA) si è chiusa lunedì. Il tema di questa edizioni era “L’Asia alla ricerca dello Sviluppo Complessivo: Ristrutturazione, Responsabilità e Cooperazione”. Dal momento che la ripresa economica non è stata affatto costante nel 2012 e che le previsioni nel 2013 non sono ancora ottimistiche, tutti i Paesi asiatici devono individuare interessi comuni, ridimensionare le distanze e ricercare uno sviluppo condiviso.

Ci sono già diverse organizzazioni economiche trans-regionali in Asia che possono costruire piattaforme per quei Paesi che cercano la cooperazione, fra cui la Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC) e l’Intesa per il Dialogo Trans-Pacifico (TPP). Gli Stati Uniti si inseriscono negli affari regionali dell’Asia e indeboliscono la tendenza del regionalismo asiatico a mettere da parte Washington attraverso l’APEC. Per quanto concerne il TPP, oltre alla condivisione dell’indotto emerso dal rapido sviluppo economico dell’Asia, l’intento più importante per gli Stati Uniti da promuovere è che il TPP li aiuti a prendere in mano l’iniziativa nel processo integrativo della regione Asia-Pacifico.

Per lungo tempo, la regione asiatica è rimasta priva di un vertice o di un’organizzazione che fosse seriamente guidata dall’Asia e che sintetizzasse gli interessi degli asiatici, fino a quando il Forum di Boao per l’Asia non ha colmato questa lacuna. L’Asia sta evidenziando un’opportunità storica. La pace e lo sviluppo sono ancora i temi dei nostri giorni. La ricerca della pace, della stabilità, dello sviluppo e della cooperazione  è l’obiettivo comune dei popoli asiatici di ogni Paese.

La globalizzazione economica si sta sviluppando sempre più dinamicamente e la ristrutturazione economica ha raggiunto un primo successo in molte nazioni del nostro continente. Grazie al ritmo sostenuto dell’ottimizzazione industriale e dell’avanzamento tecnologico, i Paesi asiatici hanno raggiunto un potente livello. Nel processo di integrazione regionale, le nostre nazioni sono sempre più interdipendenti. Il dialogo e il coordinamento tra gli Stati asiatici sono aumentati e la loro capacità di scongiurare i rischi è migliorata.

Tutti questi fattori hanno gettato le più solide fondamenta e creato le migliori condizioni per la pace, la stabilità, lo sviluppo e la cooperazione in Asia. In ogni caso, dobbiamo anche notare che ci sono ancora molti problemi e complicazioni sulla via della cooperazione regionale. Le contese storiche e le contraddizioni pratiche mettono in pericolo la fiducia reciproca tra i Paesi asiatici.

Considerando il perno statunitense sull’Asia, il crescendo di tensione nelle dispute territoriali all’interno della regione e l’emersione di un protezionismo commerciale globale, i nostri popoli si trovano davanti ad un compito molto oneroso nel mantenimento della pace e della stabilità regionale e nella ricerca della prosperità condivisa. Il commercio complessivo dell’Asia è pari ad un terzo del totale mondiale. L’interdipendenza tra i nostri mercati è molto forte. Inoltre, i Paesi asiatici mantengono interessi comuni nella resistenza al protezionismo commerciale e nella persuasione al libero corso del mercato globale.

Dopo la crisi finanziaria internazionale nel 2008, molte economie, come quella statunitense o quella dell’Unione Europea, hanno provato a proteggere le loro imprese nazionali, a ridurre la pressione e ad aumentare le opportunità occupazionali attraverso metodi quali i dazi anticoncorrenziali (antidumping, ndt) e i dazi compensativi (countervailing, ndt).

Le maggiori economie asiatiche, come il Giappone, la Corea del Sud e la Cina, hanno tutte un modello economico pensato per l’esportazione. La dipendenza dei Paesi asiatici dai mercati degli Stati Uniti e dell’Unione Europea è un punto debole del loro sviluppo economico. Dunque, i Paesi asiatici dovrebbero unirsi per resistere alla creazione di quelle barriere commerciali imposte da Washington e da Bruxelles e cercare un percorso comune di individuazione di metodi giudiziari internazionali per evitare che il protezionismo possa svilupparsi ancora. Dovremmo ridurre la dipendenza dei mercati asiatici dai mercati occidentali incrementando gli scambi economici e commerciali intraregionali. Il protezionismo euro-americano sta producendo un effetto estremamente negativo sulla ripresa economica in Asia. In questo caso, la liquidità del mercato è importantissima all’interno della regione. Dovremmo promuovere un commercio intraregionale per sostituirlo al commercio interregionale e mantenere il rapido sviluppo dell’economia globale.

In effetti, esistono dispute territoriali tra alcuni Stati asiatici. Ma allo stesso tempo, ci attendono sfide condivise. Per mettere da parte i rancori e raggiungere uno sviluppo comune, ogni Paese asiatico dovrebbe mostrare rispetto per i diritti sovrani di ognuno degli altri e fermare il protezionismo commerciale mosso dai sentimenti nazionalisti. Ognuno di noi ha la responsabilità di mantenere la pace regionale e la stabilità e di stemperare le tensioni regionali indotte dalle solite minacce per la sicurezza, al fine di creare un favorevole ambiente per il libero commercio tra i Paesi asiatici. È anche questo il significato spirituale del Forum di Boao.

 

 

FONTE: Global Times (8/4/2013, pag. 14)

 

L’articolo è stato compilato dalla redattrice del “Global Times” Shu Meng sulla base di un’intervista al Professor Wu Shicun, presidente dell’Istituto Nazionale per lo Studio del Mar Cinese Meridionale.

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DOSSIER KOSOVO – INTERVISTA AL PROF. LUCIANO BOZZO

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A cura di Andrea Turi

 
Partiamo dagli recenti sviluppi che sono quelli di ieri (2 aprile 2013): l’ottava sessione del dialogo tra Serbia e Kosovo tenutosi a Bruxelles con la mediazione dell’UE doveva essere quello risolutivo. Si è concluso, invece, con un niente di fatto. Le chiedo: secondo Lei, un accordo è possibile? 

In effetti un accordo è difficile e credo che richiederà tempi lunghi e condizioni giuste. Voglio dire, in fin dei conti la guerra del 1999 è terminata da meno di quindici anni che sono tanti ma, poi, non così tanti in una prospettiva storica, i risentimenti sono fortissimi e soprattutto sono ancora aperte le questioni “calde” che sono, per esempio, quelle delle minoranze serbe presenti in Kosovo e soprattutto nel Nord del Kosovo, la questione della sovranità del Kosovo che continua a non essere riconosciuto dalla Serbia come Paese sovrano così come da altri Stati europei, primo fra tutti la Spagna e per evidenti motivi, il fatto che permangano, comunque, delle minoranze albanesi nei territori del Sud della Serbia, il fatto anche molto doloroso sotto alcuni aspetti che in Kosovo siano locati alcuni dei luoghi cari alla memoria religiosa e storica serba perché bisogna ricordare che il Kosovo bene o male sia, il termine è stato utilizzato molto in passato in maniera retorica ma fotografa molto bene la realtà, la “culla” della civiltà serba e quindi dobbiamo pensare ai grandi monasteri ortodossi come quello di Pec che rimangono punti di riferimento ideali della cultura della Serbia. Questi, secondo me, sono gli elementi che ostacolano in modo evidente il processo di “normalizzazione” e lo ostacoleranno ancora nei prossimi anni assieme agli elementi psicologici e al risentimento per quello che è successo durante la guerra, durante e dopo, e che ovviamente da parte serba non può non essere forte. Comprendo le ragioni albanesi, non posso ignorare le ragioni di Belgrado che ha naturalmente perduto una guerra in cui si è vista sottrarre una parte di territorio che considerava nella sua prospettiva a buona ragione nazionale e che in quel territorio vede le proprie radici storiche.

Quindi, in sostanza, la mia non è una prospettiva ottimistica nel breve e medio periodo.

 

 

Secondo lei esiste un compromesso che possa essere accettato da entrambe le parti?

Se la volontà vera che sottostà al dialogo è quella di raggiungere un accordo, penso che un compromesso debba essere trovato perché altrimenti non vedo come se ne possa uscire. Per esempio, un compromesso potrebbe essere accettabile nei termini di una forte autonomia per non dire una vera e propria indipendenza delle province situate a Nord del Kosovo e quindi di garanzie forti nei confronti delle minoranze serbe e per i monasteri ortodossi sparsi nella regione che hanno una valenza storica e culturale rilevante. Più difficile è vedere cosa la Serbia possa e voglia poter dare in cambio al governo kosovaro albanese per ottenere vantaggi di questo tipo. Qui credo che il terreno si faccia molto scivoloso.

 

 

Torniamo al 1999. Quando scoppiò la guerra quali erano gli interessi nella regione? Perché era importante avere il controllo della regione?

I motivi reali della guerra si capiscono subito se si prende in mano una cartina geografica: il Kosovo è una regione situata proprio nel cuore della regione balcanica. Dal Kosovo, infatti, è possibile raggiungere un novero di Paesi che sono collocati intorno alla regione in questione; il Kosovo, inoltre, ha una notevole e fortissima valenza culturale e storica per l’Albania e gli albanesi. Quindi, il controllo del Kosovo consentiva, ed ha consentito, per esempio agli Stati Uniti tanto per non fare nomi, di situare lì una importante base militare, la più grande ed importante base militare statunitense all’estero. Ha consentito agli Stati Uniti di sviluppare un rapporto assolutamente privilegiato con l’Albania e con il popolo albanese sia dentro che fuori i confini dell’Albania. Consente agli Stati Uniti di esercitare un controllo e all’occorrenza anche una pressione sui vicini del Kosovo. Non credo, però, che la guerra per il Kosovo fosse dettata e sia stata il risultato di un calcolo, diciamo, strategico à la Risiko per impadronirsi di un territorio centrale ecc. Credo, piuttosto, che a quella guerra si sia arrivati perché, alla fine dei conti, ad un certo punto era la prospettiva considerata inevitabile da tutte le parti in causa: la Serbia pensava probabilmente che con il confronto delle forze di riuscire a raggiungere i suoi obiettivi di politica estera ma soprattutto di politica interna e penso a Milosevic; gli Albanesi pensavano di riuscire a raggiungere l’indipendenza; gli Americani pensavano di eliminare Milosevic per poter realizzare quell’ennesimo regime-change funzionale ad un intero progetto di politica estera statunitense; gli europei pensavano come al solito cose molto diverse e non essendo coesi sulla linea da seguire si sono allineati alla visione degli Stati Uniti. Tutto ciò è sfociato inevitabilmente nella guerra e nel risultato della divisione di Serbia e Kosovo, evento che da un certo punto di vista era scontato anche se non così scontato visto che se non ricordo male dall’aprile siamo arrivati sino alla fine di giugno (se non addirittura da marzo) e alla fine i Serbi hanno mollato anche per la forte pressione diplomatica esercitata dalla Federazione Russa. Quindi la situazione venutasi a creare non è stato soltanto il frutto di un’azione militare, intendo quella fondata sull’impiego del potere aereo, che ad un certo punto sembrava non riuscire a rivelarsi risolutiva tant’è che si era in procinto di effettuare un intervento per vie di terra che sarebbe stato problematico e costoso in termini umani.

 

 

In caso ancora l’avesse, qual è l’importanza oggi del Kosovo sullo scenario internazionale?

Ha un’importanza per gli attori direttamente coinvolti quindi per l’Albania ed evidentemente per la Serbia. Le recenti elezioni in Serbia e le prossime elezioni politiche che si terranno in estate in Albania bene o male hanno visto e vedranno una posizione centrale della questione del Kosovo che rappresenta per questi due Paesi una questione di un certo, per non dire molto, rilievo.

Interessante è quello che sta succedendo in Albania: il ritorno, cosa peraltro scontata per certi versi, dei progetti di Grande Albania, i riferimenti ormai espliciti in tanti pronunciamenti pubblici dei leader albanesi più importanti proprio alla prospettiva di una progressiva integrazione delle regioni del Kosovo nello Stato albanese che, naturalmente, se questo avverrà, potrebbe mettere in moto, come è già avvenuto, dei processi di risveglio albanese in tutti quei Paesi vicini in cui rilevante è la componente albanese, penso alla Macedonia, alla stessa Grecia della zona dell’Epiro, penso alla zona del Montenegro. Per la Serbia è una questione particolarmente delicata, una questione che ha a che fare con la sovranità nazionale, la Serbia ha patito quella che considera una umiliazione ed una ingiustizia ed è evidente che questa cosa più o meno sotto traccia a prescindere, insomma, dall’enfasi che ad essa danno i diversi leader ed esponenti politici serbi pesa e continuerà a pesare.

 

 

Dacic ha dichiarato a metà marzo che Pristina non è ancora pronta ad un accordo perché ha le spalle coperte dal potere statunitense. Lei poc’anzi ha già espresso la centralità della regione per Washington. Dato per certo il ruolo degli Stati Uniti in Kosovo, Le chiedo se, oggi, la Federazione Russa può avere un ruolo da protagonista in Kosovo e, più in generale, nella regione balcanica.

La Federazione Russa un ruolo da protagonista sul palcoscenico balcanico lo ha avuto e credo che continuerà ad averlo. D’altra parte la Federazione Russa fa parte dei famosi BRICS, è un Paese in espansione economica, che gode grazie alle risorse naturali di possibilità economiche, che significano anche possibilità di pressione politica, rilevanti. Però, che questo, nel breve e medio periodo consenta, come dire, di bilanciare la situazione mettendo la Serbia, dal punto di vista negoziale e diplomatico, sullo stesso piano del Kosovo mi sembra improbabile. Anche perché non credo che la Federazione Russa si voglia spendere più di tanto per una causa che, temo, sia perduta. La Serbia in questo momento è in una posizione di grande debolezza: è rimasta isolata dopo la guerra, lo è per certi versi tutt’ora. È chiaro che l’Albania è in una posizione tutta diversa. È vero quanto da lei riportato che l’Albania e in particolare intendo il Kosovo albanese e il suo governo si trovi in una posizione di forza perché evidentemente alle loro spalle ci sono gli Stati Uniti.

Non altrettanto chiaramente dietro il Governo di Belgrado e le sue richieste vedo la Federazione Russa perché appunto rimanendo verissima la solidarietà che i russi hanno sempre dimostrato in questi ultimi anni nei confronti della Serbia e anche durante il conflitto,  o subito dopo, non so quanto vogliano e si possano spendere per la causa serba e non so se questo è nell’interesse prioritario della Federazione Russa.

 

 

E l’Unione Europea che interesse ha nella regione in generale ed in Kosovo in particolare?

L’Unione Europea nella regione balcanica ha sempre avuto…anzi, meglio, l’Unione Europea nella regione balcanica avrebbe sempre dovuto avere un interesse che era quello di evitare la destabilizzazione dell’area, di evitare l’aumento della conflittualità e che, soprattutto, la conflittualità scattasse a livello violento. Purtroppo, a partire dagli anni ottanta e i primissimi anni novanta l’Europa si è presentata spesso, quasi sempre, divisa e poco efficace da un punto di vista diplomatico su quello scenario. Le conseguenze le conosciamo: in fin dei conti, anche il fatto che la crisi scoppiata nell’ex Jugoslavia nel momento in cui la Federazione si trovò coinvolta in quel cataclisma geopolitico che era stato la fine della guerra fredda e il crollo del Muro con quel che ne è conseguito, andare fuori controllo di quella situazione fu dovuta anche a certe iniziative, più o meno affrettata, di rilevanti attori dello scenario politico europeo a cominciare probabilmente dalla stessa Germania: i riconoscimenti affrettati, non concordati con i partner e così via.

Non mi sembra, ad essere onesto, che le cose da allora siano cambiate molto a prescindere dal fatto che ci sia adesso Lady Ashton e una presunta politica estera condivisa. L’Europa politica vive un momento di grande crisi, inutile nascondercelo, e che quindi riesca, possa e voglia nel futuro immediato, in particolare qualora si verificassero nuove crisi locali, e spero che questo non avvenga, giocare un ruolo maggiormente significativo del ruolo giocato in passato mi sembra improbabile, non vedo gli elementi che potrebbero giustificare un’asserzione, un’affermazione di questo tipo.

 

 

Lo intravede un futuro europeo di Serbia e Kosovo? Crede che l’opzione europea sia quella cui ambiscono i due Governi oppure ci sono altre opzioni?

Mah, fino a pochi anni fa avrei detto che l’opzione europea fosse un’opzione pressoché obbligata. Sia per ragioni, se vogliamo, ideali, storiche e culturali perché evidentemente stiamo parlando di territori che sono a buon diritto e a buona ragione europei, che sono nel cuore dell’Europa, che sono strettamente legati alla storia dell’Europa, anche se per secoli sono stati territori di confine e territori che sono stati sotto il controllo di una potenza, l’Impero Ottomano, che non era potenza europea. Indubbiamente, nei primi anni novanta, il riferimento di tutta quell’area geopolitica dei Paesi balcanici che uscivano da decenni di regimi comunisti era ed è stata l’Europa. Indubbiamente c’è stata un’ondata di entusiasmo che ha preceduto, accompagnato e seguito l’ingresso in Europa di Paesi di quell’area come la Romania o più a Nord la Polonia.

Nel frattempo, però, sono cambiate tante cose. Sono cambiate tante cose perché il progetto europeo di integrazione è in crisi, molti Stati europei, in particolare quelli che sono più vicini per vari aspetti di natura geografica e culturale agli Stati balcanici, sono quelli che in questo momento si trovano in grave crisi economica e finanziaria all’interno dell’Unione. Al tempo stesso c’è stato, a partire dall’anno 2000, un evidente risveglio e il manifestarsi di una politica estera e di difesa molto muscolare da parte della Federazione Russa che è chiaro è legata a quei popoli, in particolare al popolo serbo da vincoli storici e culturali di antica data, mentre a Sud c’è un risveglio di tipo neo-ottomano: la Turchia è un Paese che sta bruciando le tappe sulla via dello sviluppo, è un Paese in enorme crescita, che ha sfiorato il 6% di incremento annuo del PIL dal 2007 ad oggi, cioè, negli anni di peggior crisi per l’eurozona. L’Euro è una moneta, in questo momento, forte ma l’area economica cui essa fa riferimento non è altrettanto forte in tutte le sue componenti. Cresce l’euroscetticismo, sia all’interno di Eurolandia che, ovviamente, fuori dai confini di Eurolandia. Gli stessi turchi, per esempio, che fino a qualche anno fa erano particolarmente ansiosi ed esercitavano forti pressioni per entrare in quella che poi è diventata l’Unione Europea oggi mi paiono molto più prudenti e scettici e, alla fine, abbastanza disponibili anche a rimanerne fuori visto che sono stati tenuti alla porta a lungo e oggi vedono venir meno di, non dico tutte, alcune condizioni che li avrebbero resi entusiasti partecipi del processo di costruzione europea.

Quindi, se mettiamo assieme tutte queste cose, oltre alle crisi locali come ad esempio i risentimenti serbi nei confronti dell’Europa specie nei confronti di alcuni Stati dell’Europa e che, penso alla Spagna, ci siano risentimenti di alcuni stati europei su come è stato risolto il conflitto serbo – albanese sul Kosovo, tutto questo, dicevamo, delinea un quadro che mi fa dire che quella europea sia l’unica opzione anche se, personalmente, potrei anche auspicare un ulteriore allargamento dell’Unione europea in quell’area eccetera. Però, realisticamente, ci sono tutte queste condizioni nuove che lo rendono molto più difficile.

 

 

Chiudo con questa domanda: possibile un nuovo atto di forza per risolvere la questione?

Un atto di forza potrebbe essere pericoloso e controproducente. Non credo che la Serbia, poi, si trovi in condizioni economico-politiche tali da permetterle nuove avventure. Tutto questo mi lascerebbe propendere per affermare che tutto è possibile in politica ma che ci sono cose molto poco probabili.

 

 Firenze, 3 aprile 2013.

 

 

*Luciano Bozzo, Professore associato, insegna Relazioni Internazionali e Studi Strategici nel Corso di laurea triennale in “Studi internazionali” dell’Università di Firenze. Insegna inoltre nei Corsi di laurea specialistica in “Relazioni internazionali” e in “Scienze aeronautiche”, al Master in “Comunicazione e Media” dell’Università di Firenze e al Master in “Human Rights and Conflict Management” della Scuola Sant’Anna di Studi Universitari e Perfezionamento di Pisa. È Direttore del Centro universitario di Studi Strategici ed Internazionali (CSSI), costituito presso il Dipartimento di Scienza della Politica e Sociologia. Insegna dall’a.a. 1990-1991 Strategia Globale al Corso superiore della Scuola di Guerra Aerea di Firenze. E’ membro dell’International Institute for Strategic Studies di Londra. Ha partecipato come caposquadra alla missione di monitoraggio delle elezioni amministrative in Albania nel 1996. Nel periodo 1998-2001 è stato a più riprese impegnato in Bosnia, nel quadro delle attività per l’applicazione degli accordi di Dayton.

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INTERVISTA A GERARD GALLUCCI

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A cura di Andrea Turi

 

Per prima cosa la ringrazio della sua disponibilità a rispondere alle mie domande. Vorrei cominciare dalle ultime notizie riguardanti le relazioni tra Serbia e Kosovo. In base alla sua esperienza, dopo il fallimento del dialogo a Bruxelles, è ancora possibile che le due parti trovino un accordo nel breve e medio periodo? Se no, perché?

Certamente è sempre possibile raggiungere un accordo tra le parti contendenti ma entrambe devono essere pronte al compromesso e, se c’è un mediatore, il mediatore deve essere neutrale. Il problema fino ad oggi per quanto riguarda il raggiungimento di una soluzione pacifica sul Kosovo è stato che i “mediatori” – Unione Europea e Stati Uniti – non sono stati neutrali e hanno permesso a Pristina di dettare le proprie condizioni.

A partire dal 2008, hanno messo da parte un’agenzia veramente neutrale – le Nazioni Unite (Unmik) – e hanno cercato di imporre una soluzione unilaterale favorevole a Pristina. In passato, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno cercato utilizzando le forze armate – KFOR e EULEX – per spingere i Serbi del Nord del Kosovo ad arrendersi a Pristina. Nelle recenti sessioni del dialogo, l’Unione Europea (seguendo la linea della Germania) e gli Stati Uniti hanno provato a forzare la Serbia ad accettare i termini proposti da Pristina per raggiungere la “sovranità” nel Nord, utilizzando la leva della data per i negoziati di adesione all’UE: questo è stato l’equivalente di un ricatto. E questo continua a non funzionare perché nessun Governo serbo potrà essere giudicato nell’atto di consegnare semplicemente i Serbi del Kosovo nelle mani di Pristina. Speriamo che questo possa dire ai paesi del Quintetto – Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia e Italia – che non ci sarà nessuna soluzione pacifica per il Nord del Kosovo fino a che loro non accetteranno il fatto che si debba trovare un reale compromesso e spingere Pristina ad accettarlo.

 

 

Quindi la sua opinione sull’Unione Europea in qualità di mediatore non è buona.

A guarda dall’esterno – e a giudicare dalla mancanza di risultati – sembra che l’Unione Europa sia stata tutto meno che neutrale ed equilibrata. La sua ultima proposta, a quanto pare, rappresentava un semplice “prendere o lasciare” in cui si chiedeva di accettare il controllo di Pristina sul Nord della regione. Ad essere onesti, può essere stato che Ashton avesse dei limiti posti su di lei dal forte sostegno statunitense per Pristina e, in qualsiasi circostanza, dall’apparente mancanza di entusiasmo di Berlino per l’adesione serba all’Unione.

 

 

Serbia e Europa, quindi. La data di inizio delle negoziazioni è completamente arbitraria e la Serbia, comunque, non avrebbe garanzie che sarà invitata ad unirsi all’Unione Europea in futuro. La “data” rappresenta un puro e semplice mezzo di ricatto per convincere Belgrado ad arrendersi sul Kosovo e niente più?

Questo è ovvio da tutto quello che i leader politici europei e tedeschi hanno detto. È chiaro che il fallimento nel raggiungere un accordo nell’ultimo round dei dialoghi con Pristina significa che la Serbia non ha ottenuto questa data. Fino ad ora, sembra che l’UE si accontenti di mantenere la partecipazione della Serbia in disparte per tutto il tempo che ci vuole affinché la Serbia si arrenda al Kosovo. Un approccio alternativo potrebbe essere quello di consentire alla Serbia di avviare i negoziati per l’adesione con l’aspettativa che nel corso dei prossimi anni, i problemi pratici possano essere risolti e le grandi questioni politiche tra la Serbia e il Kosovo maturare fino al punto di arrivare ad una soluzione.

 

 

Qual è quindi il futuro dei due Paesi? È il cammino europeo, l’opzione europea, la migliore soluzione per entrambi? O, forse, ci sono altre alternative più praticabili, soprattutto per la Serbia?

Sia la Serbia che il Kosovo sono parti dell’Europa. Così come lo sono Macedonia, Montenegro e Bosnia-Erzegovina. Nella misura in cui la stessa Unione europea sopravviverà e prospererà,   appartengono tutti ai suoi confini.

 

 

Torniamo al fallimento del dialogo. Parlava di compromesso. È possibile raggiungere un equilibrio tra le due parti? Ritiene che il piano Ahtisaari sia ancora un soluzione valida e praticabile? 

Il piano Ahtisaari è stato ben progettato per la situazione del Kosovo: forniva un quadro di riferimento per un reale decentramento del Governo locale e collegamenti continui con la Serbia. Ci sono però due problemi: non è stato pienamente realizzato a sud dell’Ibar e avrebbe bisogno di dettagli importanti per essere applicato a Nord dell’Ibar. Questi dettagli ancora da definire fanno perno sul ruolo esatto di Pristina nelle decisioni dei Governi locali nelle municipalità a maggioranza serba, specialmente nei settori di polizia, tribunali e finanziamenti. Ma queste sono questioni pratiche e presumibilmente potrebbero essere risolte attraverso soluzioni pratiche.

 

 

Ritiene ancora che il problema dei “poteri esecutivi” da attribuire all’associazione delle municipalità serbe del Nord del Kosovo sia non un problema ma un “falso problema”? Se è così, quale è il problema vero?

Pristina e i suoi alleati internazionali possono aver sollevato la questione delle autorità “esecutive” come un modo per evitare un reale compromesso. Il piano Ahtisaari è chiaro (allegato 3) quando specifica che le associazioni municipali (nel documento vengono chiamate partnership) possono avere organi decisionali composti da rappresentanti dei Comuni. Le associazioni potranno adottare tutte le azioni necessarie all’implemento ed esercitare la loro collaborazione funzionale attraverso, tra le altre cose, l’istituzione di un organo decisionale composto da rappresentanti nominati dalle assemblee dei comuni partecipanti, l’assunzione e il licenziamento del personale amministrativo e di consulenza, e le decisioni relative al finanziamento e altre esigenze operative del partenariato. Si possono chiamare questi organismi esecutivi o meno, ma ci sono già nel Piano Ahtisaari.

Il vero problema potrebbe essere determinato dalla paura che le associazioni comunali possano diventare una sorta di Kosovo Republika Srpska. Ma fino a quando queste non avranno un ruolo nel governo centrale, né in materia di polizia e di tribunali – il Piano Ahtisaari dà il ruolo di protagonista al livello locale del governo municipale – il confronto con la Bosnia sarà discutibile.

 

 

Lei ha affermato (Kosovo – Pristina doesn’t really want negotiations on the Nroth, May 22nd, 2012) che Pristina non vuole negoziazioni sul Nord, vuole il Nord. Pensa che ci potrebbero essere atti di forza per ottenere questa parte del Paese? 

Pristina ha già tentato di introdurre la sua polizia e i suoi agenti doganali nel Nord usando la protezione della KFOR e dell’EULEX. È la polizia speciale (ROSU) che periodicamente molesta i Serbi kosovari che vivono sulla sponda Nord del fiume Ibar. A quanto pare, gli ufficiali di Pristina sono ancora trasportati al confine settentrionale su elicotteri dell’EULEX.  Il Primo Ministro del Kosovo ha già messo in guardia in passato che Pristina avrebbe cercato di imporre la propria autorità nel nord con il sostegno internazionale.

Ma il vero pericolo non è se il Kosovo lancerà il suo esercito o la polizia in qualche massiccio sforzo per la conquista del Nord ma piuttosto il fatto che resta la possibilità per Pristina di intraprendere azioni provocatorie – iniettare le forze di polizia speciali ulteriormente verso nord, più frequenti “ritorni” unilaterali allo scopo di prendere terra – al fine di creare una crisi che “richieda” un intervento da parte della NATO. Speriamo che il Quintetto sia sensibile a questa possibilità e prevenga tali azioni.

 

 

La Serbia è sola e sembra non avere molte altre alternative all’ultimatum proposto da Bruxelles, specialmente se Washington sembra risoluta nell’attuare quello che ha già deciso per il futuro del Kosovo. Secondo lei, la Serbia dovrebbe “accettare” l’ultimatum e continuare il dialogo per evitare di trovarsi davanti ad un fait accompli con la conseguente perdita di tutto il suo potere negoziale?

Non sono io quello che deve dire alla Serbia cosa dovrebbe fare. Ma è chiaro che lo sforzo da parte dell’UE e degli Stati Uniti per mantenere la partecipazione della Serbia all’UE in ostaggio dei disegni sul Nord di Pristina non ha funzionato. Per quanto riguarda la stessa Unione europea, dovrebbe vedere le sue buone ragioni nel portare la Serbia nell’Unione. L’Europa non può essere completa fino a che non include i Balcani. É comprensibile che l’UE non voglia portare al suo interno un’altra divisione che ricorda quella di Cipro. Kosovo e Serbia dovranno, alla fine, riconciliarsi l’un con l’altra. Ma piuttosto che cercare di spingere la Serbia in una situazione in cui ha tutto da perdere, Bruxelles dovrebbe assumere un ruolo guida nella ricerca di un compromesso reale. Lady Ashton finora non si è mossa in questa direzione.

 

 

L’Ambasciatore della Federazione Russa a Belgrado, Aleksandar Cepurin, ha recentemente dichiarato che la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1244 è un documento ancora valido ed in essere. Concorda con il fatto che il luogo giusto per risolvere la questione possano essere le Nazioni Unite?

È certamente vero che la UNSCR 1244 è ancora applicabile in quanto non è mai stata né modificata né ritirata dal Consiglio di Sicurezza. L’ONU è ancora in campo in Kosovo con responsabilità di peacekeeping. L’ONU è un organismo neutrale e anche Pristina dovrebbe essere saggia da permetterne il ruolo se veramente aspira, un giorno, a diventarne membro. Per unirsi all’ONU sembrerebbe indispensabile rispettare l’ONU.

Il problema è la realtà di come funziona l’ONU: lavora nell’ambito del suo mandato ma anche nell’ambito della politica in seno al Consiglio di Sicurezza. Fin d’ora, il Quintetto sembra voglia tenere l’ONU fuori dalla questione in quanto non è in grado di controllare un possibile ruolo neutrale delle Nazioni Unite con la stessa facilità con cui può controllare un coinvolgimento dell’UE. Ma ad essere onesti, la Russia stessa non ha insistito nel riportare la questione al Consiglio di Sicurezza né si è offerta di inviare di nuovo i suoi propri peacekeepers in Kosovo. (Le forze russe hanno partecipato alla KFOR in passato).

 

 

Come reputa il lavoro dell’amministrazione internazionale in Kosovo dal 1999 e l’applicazione del diritto e della legge nel Paese?

UNMIK è stata una missione ampia con molte responsabilità, non tutte compatibili e non tutte con il pieno supporto di tutti i membri del Consiglio di Sicurezza. Inoltre, cadde sotto l’influenza della maggioranza della popolazione che la circondava. Detto questo, credo che la missione abbia fatto il meglio che ha potuto in quelle circostanze. EULEX (e ICO) sono questioni diverse: avevano piena autorità concessa dallo stesso governo del Kosovo. Ma sono caduti preda – con meno scusanti – degli stessi problemi che gravavano sull’UNMIK.

 

 

Un’ultima domanda: quali sono i Paesi che hanno ancora interessi in Kosovo e quali sono questi interessi?

Domanda complessa per una risposta breve. Ma può essere che nessun Paese abbia veri vitali interessi lì. La Germania preferisce un Kosovo “indipendente” così da rinviare lì i migranti. Gli Stati Uniti vogliono qualunque cosa gli albanesi del Kosovo vogliono e si accontentano di lasciare i problemi all’UE. L’UE vuole che gli venga riconosciuta con successo la gestione di un importante sforzo nella costruzione di una Nazione. Nessuno di questi interessi, però, stanno apparentemente premendo al punto di determinare politiche efficaci che si occupino delle questioni interne del Kosovo – come la corruzione e la criminalità – o producendo un vero sforzo per risolvere il problema del Nord.

 

 

* Gerard Gallucci, ex inviato delle Nazioni Unite in Kosovo (2008).

 

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LA POLITICA DEL RISCHIO CALCOLATO NORDCOREANA ED IL RUOLO DELLA CINA

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Il nuovo presidente cinese Xi Jinping, a poco più di un mese dalla formalizzazione del mandato, si trova a dover affrontare delle sfide problematiche e, in particolare, a dover mediare la delicata crisi coreana.

Il capo di Stato della Repubblica Popolare Cinese ha rinnovato l’invito alla calma, più volte avanzato nelle ultime settimane, nel discorso di apertura del 7 aprile del Forum Economico di Bohai, sull’isola di Hainan: «A nessuno dovrebbe essere permesso di portare il caos in una regione e nel mondo intero per fini personali»[1].

Xi Jinping ha ribadito che la Cina perseguirà il mantenimento di “buone relazioni” con i suoi vicini per la stabilità della regione; la linea ufficiale di Pechino rimane, dunque, quella del dialogo tra tutte le parti coinvolte.

L’alleanza della Cina con la Repubblica Democratica Popolare di Corea ha origini storiche, che risalgono alla Guerra di Corea (1950-1953), alla fase di reazione al contenimento statunitense, e alla stipula del Trattato di Mutua Assistenza e Amichevole Cooperazione siglato nel 1961 e valido fino al 2021.

L’alleanza è strategica e fondamentale per entrambi i Paesi.

Innanzitutto, la Corea Popolare, nel perseguimento delle riforme economiche sul modello cinese, necessita del sostegno economico e dell’acquisizione di conoscenze tecniche; nella prima metà del 2012, gli interscambi commerciali ammontavano a 3,14 miliardi di dollari.

La Cina, d’altro canto, ha ben presente l’importanza di Pyongyang dal punto di vista geopolitico, in quanto zona di cuscinetto tra il territorio cinese e le truppe statunitensi di stanza nel sud del trentottesimo parallelo.

Il governo di Pechino non può, dunque, abbandonare la Repubblica Democratica Popolare di Corea. Tuttavia è indubbio un sottile spostamento della politica estera cinese ed un progressivo allontanamento da Pyongyang; Pechino ha preso le distanze dal suo alleato in seguito al terzo test nucleare sotterraneo del 12 febbraio 2013[2], sostenendo, per la prima volta, il nuovo pacchetto di sanzioni ONU contro il Paese, presentato il 7 marzo scorso. La posizione della Cina si delinea piuttosto scomoda. La minaccia nordcoreana agli Stati Uniti è trascurabile, dal momento che l’esercito di Kim Jong-un non è fornito di missili a lunga gittata capaci di trasportare ordigni nucleari; piuttosto, è sentita maggiormente a Seul, Tokyo e Pechino; inoltre, Pyongyang non deve tralasciare il fatto che gli Stati Uniti controllano le sanzioni internazionali data la posizione dominante nel Consiglio di Sicurezza, e possiedono una concreta egemonia politica nel sistema internazionale. Forse Pechino in passato si è mostrata troppo accondiscendente con la Corea del Nord, comunque oggi, eliminare le strutture nucleari coercitivamente è impensabile e si tradurrebbe in una guerra globale. Il governo cinese dovrebbe, invece, indurre Pyongyang ad aderire al Trattato di Non-Proliferazione (TNP).

In questi giorni Pechino ha inviato delle truppe al confine con la Corea Popolare, non tanto a fini offensivi, ma per difendere il confine dall’eventuale ondata di rifugiati nell’eventualità di un crollo del regime (comunque improbabile, n.d.r.).

Anche il governo statunitense ha mostrato un allentamento della presa, sospendendo il test missilistico a lungo raggio che doveva tenersi questa settimana; Washington vuole evitare di provocare ulteriormente Kim Jong-un, ed eventualmente rispondere solo con atti di pari intensità.

Nel frattempo, Pyongyang invita i rappresentanti diplomatici presenti sul territorio a rimpatriare, e gli stranieri presenti nel Sud a lasciare il Paese; un tentativo di guerra psicologica a cui Seul rifiuta di abboccare. Il governo nordcoreano ha annunciato, inoltre, di avere completato i preparativi per il lancio di uno dei suoi missili a medio raggio, il Musudan, alcuni esemplari del quale sono posizionati lungo la costa orientale del Paese. I Musudan si pensa possano colpire un bersaglio distante anche 3/4.000 chilometri, mettendo a rischio strutture strategiche sud-coreane, giapponesi e l’avamposto militare statunitense di Guam, nel Pacifico.

Il polo industriale intercoreano di Kaesong rimane ancora bloccato, con conseguenti gravi perdite economiche per l’intera Penisola Coreana.

Il persistere di questa politica spregiudicata da parte della Corea del Nord, della cosiddetta brinkmanship[3], viene dall’Occidente considerato indicativo della grave difficoltà del Paese, che vive in condizioni economiche ancora non in linea con gli standard dei Paesi avanzati e della necessità da parte del nuovo capo di Stato di ottenere legittimità sia sul piano internazionale che su quello interno.

La strategia di Pyongyang deve essere superata attraverso una cooperazione e collaborazione internazionale, e la Cina, in primis, può sostenere e promuovere tale strategia diplomatica.

 

 

 

 

 

[1] Buzzetti E., Coree: test nucleare non imminente, Agichina24.

[2] L’ordigno nucleare del 12 febbraio è risultato di potenza doppia rispetto ai due precedenti esperimenti del 2006 e del 2009.

[3] Il termine brinkmanship, coniato dal Segretario di Stato John Foster Dulles nel corso della Guerra Fredda, indica la strategia del “rischio calcolato” o dell’ “orlo del burrone”, ovvero il ricatto nucleare al fine di ottenere uno specifico obiettivo.

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“EUROPA-CINA: SFIDA OD OPPORTUNITÀ?”. CONFERENZA ALL’UNIVERSITÀ DI MODENA IL 19 APRILE

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Venerdì 19 aprile 2013 ore 17.30,  presso l’Aula IV dell’Università degli Studi di Modena – (Via Università n.4, pianterreno).

Conferenza:  “Europa – Cina: sfida od opportunità?

 

Relatori:

 

● Elisa Baroncini (prof. Università di Bologna) : “La Cina nel sistema di risoluzione delle controversie dell’OMC”

● Stefano Vernole (redazione di “Eurasia” Rivista di sudi geopolitici): “Il ruolo geopolitico della Cina nel sistema multipolare”

● Han Qiang (Consigliere dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia): “L’interesse della Cina per l’Europa: storia, cultura e relazioni politiche – economiche”

Paolo Moscatti (Presidente di Tec Eurolab): “Le piccole e medie imprese in Cina: modalità di azione”

 

Patrocinio del Centro Studi “Eurasia-Mediterraneo” – Cesem 

 

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http://www.cese-m.eu/cesem/2013/04/europa-cina-sfida-od-opportunita-a-modena-il-19-aprile/

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LA VICENDA DEI MARO’. INTERVISTA A VINCENZO MUNGO

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A cura di Filippo Pederzini

 

1) La vicenda che vede coinvolti i due marò italiani in India può in un qualche modo avere ripercussioni negative anche da un punto di vista economico, dati gl’intensi rapporti che intercorrono tra realtà imprenditoriali italiane di rilievo e lo Stato indiano?

La vicenda avrà, con ogni probabilità ripercussioni negative nei rapporti tra Italia ed India anche dal punto di vista economico. L’India è diventata oggi una potenza di notevole peso nei rapporti internazionali, sia sul piano politico che su quello economico. Il ritorno del subcontinente ad una posizione di rilievo , dopo essere stato oggetto per secoli  di un processo di colonizzazione, ha portato la popolazione indiana a reagire in maniera forse eccessiva ad ogni azione, da parte di altri Paesi, che possa apparire ispirata da principi “ neocolonialistici”. Non è certamente questa la volontà italiana , né Roma avrebbe modo , pur volendolo, di agire in maniera imperialistica contro un Paese  dotato di 100-150 testate nucleari, di una potente aviazione, di una potente flotta e di un fortissimo esercito. Né l’Italia ha un potere economico finanziario tale da potere condizionare la politica indiana ed indurla a fare quello che vuole nella vicenda dei “ marò”. Tuttavia la suscettibilità esasperata di un popolo soggetto a lungo ad un regime coloniale ha fatto pensare che la richiesta del governo di Roma di processare i marò in Italia fosse un atto ispirato dalla  superbia  di un Paese che avrebbe ancora una cultura “eurocentrica” e non considerasse, quindi, il nuovo posto dell’India nella comunità internazionale.  Su questo sentimento si è inserita l’azione di forze che come i nazionalisti indù del BJP, il Bharatya Janata Party, (il secondo partito del Paese) hanno sempre criticato il partito del Congresso, al potere,  anche per il fatto di essere diretto dall’italiana Sonya Gandhi (che peraltro fa di tutto per fare dimenticare la su origine e che non è certo intervenuta a favore dell’Italia , anche in questa vicenda).  Gli errori ed il comportamento ondeggiante del governo di Roma hanno aggravato la situazione. Soprattutto il fatto di avere ventilato il mancato ritorno dei militari in India, in occasione della seconda “ licenza” concessa ai marò per tornare in Italia,  ha determinato una reazione molto negativa sia nell’opinione pubblica ,che nella classe politica e nella magistratura indiana. Questa vicenda, unita al recente scandalo che ha visto coinvolta la Finmeccanica  (a causa, c’è da sottolinearlo, della iniziativa sbagliata della magistratura italiana, che non ha tenuto presente che una certa dose di corruzione esiste in tutti i rapporti economici internazionali), non favorirà certamente l’attività delle nostre imprese nel subcontinente. Si consideri, inoltre, che gli altri Paesi, anche presunti alleati dell’Italia, come Stati Uniti, Gran Bretagna , Francia, Germania, non hanno fatto nulla per intervenire a favore dell’Italia ed anzi agiscono per toglierci quote di mercato in India. Si aggiunga, infine, l’atteggiamento pilatesco, tenuto dall’Unione europea e si avrà il quadro negativo della situazione. Questo quadro resterà, tuttavia, negativo solo nel breve periodo.  Il popolo italiano è, in fondo, ben visto da quello indiano, che ne apprezza il “modo di vivere”, determinato dal gusto in campo gastronomico, dall’abbigliamento relativamente elegante (a volte anche dei  turisti, ma spesso se si tratta di dirigenti aziendali o professionisti), contrapposto allo “stile” più sciatto degli altri popoli occidentali (e questo  fatto  è  importante per gli indiani).  Gli italiani stabiliscono poi facilmente legami di amicizia personale con gli indiani, anche perché si recano spesso nei “luoghi di incontro” (culturali o di divertimento) frequentati dagli indiani, cosa che raramente fanno i cittadini di altri Paesi occidentali. L’italiano, in conclusione, riesce facilmente a stabilire rapporti cordiali con gli indiani, ed è ammirato per il suo “stile” di vita. Anche le imprese italiane hanno “buona stampa” nel subcontinente , dove fino ad oggi peraltro la loro presenza è stata relativamente limitata (abbiamo effettuato investimenti molto maggiori in Cina o in Brasile).

 

2) Indipendentemente da come evolverà l’intera questione, come ne potrà uscire l’immagine dell’Italia da un lato e quella dell’India dall’altro? E in che modo evolveranno i rapporti tra i due Paesi?

L’immagine dell’Italia non uscirà molto danneggiata dalla vicenda dei marò, dati i rapporti di simpatia, cui facevo prima riferimento, che si sono stabiliti tra le due popolazioni. Certo non si potrà prescindere dall’operato del governo italiano , che dovrà agire con cautela  evitando di ripetere errori clamorosi. Roma dovrà agire soprattutto di concerto con gli altri Paesi occidentali  per fare pressioni su Nuova Delhi e convincerla ad accettare la giurisdizione di un tribunale internazionale che giudichi i marò. A tal fine il nostro governo dovrà “battere i pugni sul tavolo” con Paesi a noi formalmente alleati perché si ricordino dei loro doveri di solidarietà e non approfittino della situazione per sottrarci quote di mercato. E’ più importante questo tipo di intervento che cavillare su questioni di diritto internazionale, quali il fatto se la nave si trovasse o meno in acque internazionali al momento dell’uccisione dei pescatori. Ritengo comunque che nel medio periodo i rapporti tra Italia ed India torneranno a migliorare, sia per l’immagine positiva che ha il nostro Paese nel subcontinente, sia per il fatto che, al di là delle prime reazioni, dettate anche dall’emotività, la vicenda dei “marò” non ha una importanza tale da incrinare in maniera sostanziale i rapporti tra due Paesi. Questo ragionamento, lo ribadisco, è valido tuttavia in assenza di errori del governo di Roma che aggravino la situazione ed in assenza di manifestazioni di ostilità verso l’India da parte dell’opinione pubblica italiana (o di una sua parte rilevante) che potrebbero risvegliare i sentimenti nazionalistici nel subcontinente.

 

3) E’ giustificabile nell’intera vicenda l’assenza – o se si è mostrato lo ha fatto in maniera molto defilata – del ministro degli Esteri Italiano Terzi di Sant’Agata (solamente De Mistura è comparso a più riprese) come quella dello stesso capo del governo italiano Mario Monti? Le dimissioni non sono state un atto dovuto?

Il ministro degli esteri Terzi, ed in generale il personale direttivo della Farnesina, hanno sbagliato nel non dare subito le indicazioni giuste al comandante della nave dove si trovavano i marò, nel senso di avvertirli di non attraccare nel porto indiano. A questo proposito occorrerebbe rilevare se una indicazione in tal senso è stata tempestivamente fornita dalla nostra ambasciata di Nuova Delhi. Si tratta tuttavia di congetture e solo una seria indagine potrebbe stabilire eventuali responsabilità della Farnesina o della nostra diplomazia. Il ministro Terzi ha, invece, indubbiamente sbagliato quando ha avallato la truffaldina farsa del mancato ritorno dei nostri militari in India , dopo che erano state fornite precise garanzie alle autorità indiane sul fatto che il rientro in Italia dei marò era solo temporaneo. Per quel che riguarda un eventuale missione di Terzi nel subcontinente non credo che avrebbe mutato di molto la situazione in assenza di proposte e minacce  credibili , che come ho detto dovevano essere appoggiate dai nostri alleati, che potessero  fare cambiare  l’indirizzo del governo indiano. A tale proposito la responsabilità è stata probabilmente anche del Presidente del Consiglio, Monti, che sarebbe dovuto intervenire personalmente presso le altre capitali europee e Washington. Le dimissioni di Terzi mi sembra, comunque, che siano state un atto dovuto in relazione alla messinscena del mancato ritorno dei marò.

 

4) Soltanto per fare una congettura, in che maniera si sarebbe comportato, in una situazione analoga, il governo di un altro Paese? 

Occorre considerare, anzitutto, di quale Paese si tratta. Credo comunque che neanche nel caso in cui si fosse trattato di una potenza di un certo rilievo avrebbe ottenuto molto di piu’ di quanto ha ottenuto l’Italia. Il nazionalismo indiano avrebbe impedito al governo centrale  di fare concessioni eccessive anche ad un altro Paese. Né è seriamente pensabile, data la potenza militare dell’India cui ho prima accennato, un’azione militare per risolvere una crisi del genere. Neanche gli Stati Uniti avrebbero potuto pensare ad usare la forza in una situazione simile a quella determinatasi nel caso dei marò italiani (si ricordi, in proposito quello che accadde quando nel 1980, subito dopo la rivoluzione islamica in Iran, gruppi estremisti sequestrarono ostaggi americani nella loro ambasciata di Teheran: il tentativo degli americani di effettuare un blitz per liberarli fu facilmente sventato. E si consideri che l’India ha forze armate più tecnologicamente avanzate di quelle dell’Iran postrivoluzionario). Il governo di un’altra potenza di rilievo avrebbe, quindi, probabilmente agito sul piano dei rapporti internazionali, cercando di coinvolgere gli alleati per fare pressioni su Nuova Delhi. A tal fine la minaccia di contromisure di carattere politico (per quanto riguarda, ad esempio la richiesta dell’India di entrare a fare parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU) o economiche avrebbe potuto ottenere risultati positivi, anche se, probabilmente, non nel breve periodo. La differenza fondamentale tra l’Italia e le altre potenze medio-grandi sta nel fatto che noi soffriamo ancora di un  certo “complesso di inferiorità” nei confronti soprattutto degli altri grandi Paesi occidentali, a causa anche della sconfitta nella seconda guerra mondiale. Questo discorso, che è evidenziato  anche dal comportamento sbagliato che i vari governi negli ultimi anni stanno tenendo verso gli altri Paesi nel fronteggiare la crisi economica, ci porterebbe tuttavia lontano. Si consideri, comunque, che il comportamento sbagliato  dei governi verso i nostri “alleati” è condiviso da quasi tutta la classe dirigente italiana (politica e non) e da gran parte dell’opinione pubblica. I massimi dirigenti dei Paesi nostri “alleati” sanno benissimo che Roma non andrebbe fino in fondo nel fare valere i suoi diritti, ventilando ad esempio chiusure di basi militari straniere nella penisola o la messa in discussione della nostra partecipazione a da determinati organismi internazionali (ad es. Unione Europea o Nato). Ed in questo sta la differenza di comportamento, che in una crisi del tipo di quella di cui stiamo parlando, avrebbe avuto il governo di un altro Paese “ importante”: avrebbe cioè preteso l’intervento su vari piani (politico economico ecc.) degli alleati nella crisi, chiedendo magari di investire con forza l’ONU della questione. Probabilmente, comunque, il governo di un’altra “potenza” di rilievo avrebbe potuto commettere un altro genere di errori, quale quello di pensare di risolvere la questione con la “forza”, cosa che, data la potenza economica, militare ecc. dell’India attuale, avrebbe portato ad una catastrofe.  Quest’ultima ipotesi tuttavia credo che oggi sarebbe stata adottata con difficoltà da chiunque (per questo motivo occorrerebbe valutare anche a quale altro “Paese” ci si riferisce). Quello che appare piu’ probabile è che un’altra “ potenza” muovendosi diversamente nello scacchiere internazionale, nel senso prima accennato, avrebbe aumentato la “pressione” su Nuova Delhi, inducendola, probabilmente, a fare maggiori concessioni.

 

* Vincenzo Mungo, della redazione Esteri di Raiuno, è autore del libro La sfida dell’India, Edizioni all’insegna del Veltro, parma 2010.

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IL PRESIDENTE CINESE XI: CINA E AFRICA CONDIVIDONO LO STESSO DESTINO

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Il presidente cinese Xi Jinping ha detto ai capi di Stato e di governo africani che Cina e Africa condividono lo stesso comune destino, e ha solennemente promesso di mantenere relazioni amichevoli con il continente, indipendentemente dai mutamenti degli eventi internazionali.

Xi ha fatto queste affermazioni durante una colazione di lavoro con un gruppo di leader africani che partecipavano al Forum del Dialogo tra i presidenti dei BRICS e dell’Africa a Burba, in Sud Africa, mercoledì [27 marzo].

Come riporta l’agenzia di stampa Xinhua, Xi ha detto che la Cina sarà sempre un amico affidabile e un autentico alleato dei Paesi africani, e che contribuirà ancora di più a promuovere pace e sviluppo nel continente.

Il presidente ha spiegatoche la Cina, tra le altre cose, parteciperà attivamente nella mediazione e risoluzione delle questioni più urgenti dell’Africa, e incoraggerà le imprese cinesi a espandere i loro investimenti in Africa.

I capi africani hanno detto che gli investimenti e gli aiuti della Cina hanno sostenuto lo sviluppo economico e sociale del continente. Hanno anche detto che i fatti hanno dimostrato che la Cina è un amico e un alleato affidabile per l’Africa, e che le accuse secondo cui la Cina starebbe perseguendo una politica di “neocolonialismo” nel continente sono prive di fondamento.

Xi ha poi visitato la Repubblica del Congo, ultima tappa del viaggio. È stata la prima volta che un presidente cinese ha visitato il Paese.

La Cina è il secondo interlocutore per volume d’affari dello Stato africano, da cui importa principalmente greggio e legname.

Xu Weizhong, ricercatore sull’Africa all’Istituto Cinese di Relazioni Internazionali Contemporanee, ha detto al Global Times che le tre tappe della visita del presidente in Africa (e cioè Tanzania, Sud Africa e Repubblica del Congo) riflettono una politica estera equilibrata, che attribuisce eguale importanza a Paesi tradizionalmente amici e a forze emergenti.

Il mercoledì i capi dei BRICS hanno riaffermato il loro sostegno per lo sviluppo di infrastrutture sostenibili in Africa. Xi ha detto che i Paesi emergenti dovrebbero partecipare congiuntamente alla costruzione di più ampi progetti multinazionali in Africa.

Stando a una dichiarazione rilasciata dopo il vertice dei BRICS, banche di import-export e banche per lo sviluppo di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa avrebbero siglato un ”Accordo multilaterale su cofinanziamento di infrastrutture per l’Africa”.

Secondo Xu, ognuno dei cinque paesi è attivamente impegnato nell’edificazione di infrastrutture nel continente ma il nuovo accordo dovrebbe incidere le loro forze congiunte nello sviluppo.

Xu ha fatto osservare che le infrastrutture transnazionali e trans-regionali, necessarie ai Paesi africani nella promozione della connettività, costituiscono un’impresa troppo grande per essere sviluppata da un solo Paese, anche per la Cina.

Stando alle dichiarazioni, le cinque potenze emergenti hanno stabilito di istituire una banca per lo sviluppo, sostenendo che “il contributo iniziale alla banca dovrebbe essere sostanzioso e sufficiente per essere efficace nel finanziamento delle infrastrutture”. L’annuncio delude però le aspettative.

Li Xiangyang, direttore dell’Istituto degli Studi Asiatici – Pacifici dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali, ha detto che i problemi riguardanti la struttura organizzativa della banca potrebbero ostacolare il progresso.

Oltre a un fondo di 100 miliardi di dollari creato dai BRICS, la banca potrebbe fornire prestiti ad altre economie emergenti e questo implicherebbe una struttura più rigida e complicata, afferma Li.

Fan Yongming, direttore del Centro Studi BRICS all’Univeristà di Fudan, ha invece dichiarato che, oltre a questi risultati tangibili, il vertice ha inoltre dimostrato l’influenza politica nel mondo di questi Paesi emergenti e ha rafforzato la fiducia del mondo nel gruppo, nonostante lo scetticismo dell’Occidente nei confronti del loro slancio degli ultimi anni.

Alcune voci hanno espresso pessimismo circa questa sinergia di forze, vista la diffidenza reciproca di alcuni membri del gruppo.

Secondo Fan, invece, le dispute tra di loro non ostacoleranno la cooperazione, perché tutti loro hanno bisogno di una piattaforma comune da cui partire per sostenere congiuntamente riforme all’ordine internazionale e che, nel processo, potrebbero venire a capo delle idiosincrasie.

“Prendete la Cina e l’India, ad esempio: durante la loro cooperazione entrambe saprebbero di lavorare assieme per raggiungere lo scopo di unire Paesi in via di sviluppo piuttosto che competere per la guida di questo sviluppo”, ha dichiarato Fan.

 

Autore: Yang Jingjie

 

Tratto da: http://www.globaltimes.cn/content/771567.shtml#.UWbUVXCJZgH

 

Traduzione di Francesco Viaro

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XI JINPING: “LAVORARE INSIEME VERSO UN FUTURO MIGLIORE PER L’ASIA E PER IL MONDO”

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Discorso d’apertura di Xi Jinping, Presidente della Repubblica Popolare di Cina,  alla conferenza annuale del Forum di Boao per l’Asia 2013 

Traduzione a cura dell’agenzia Xinhua

 

 

 

Boao, Hainan, 7 Aprile 2013

Vostre eccellenze capi di stato e governatori, Presidenti di parlamento, Capi di organizzazioni internazionali, Ministri, Membri della commissione della direzione del Forum di Boao per l’ Asia, illustri ospiti, Signore e Signori, Cari Amici, In questa mite stagione dal cielo limpido e dal clima temperato, dalla brezza profumata di cocco, sono molto felice di incontrare tutti quanti voi in occasione della conferenza annuale del Forum di Boao per l’ Asia 2013, in questa pittoresca isola abbracciata dal mare che e’ Hainan.

Lasciatemi iniziare porgendo, per conto del governo cinese e del popolo nonché in mio stesso nome, un sincero benvenuto a tutti voi e vive congratulazioni per l’apertura della conferenza annuale del Forum di Boao.
Nei passati dodici anni sin dalla sua nascita, il Forum di Boao per l’Asia e’ divenuto un importante forum con una crescente influenza globale. Nella cultura cinese, dodici anni formano un ciclo zodiacale. In questo senso, il Boao Forum ha raggiunto un nuovo punto di partenza ed io spero che possa raggiungere altezze ancor più elevate.

Il tema della attuale conferenza annuale, chiamata “Asia Seeking Development for All: Restructuring, Responsibility and Cooperation”, e’ di forte rilevanza. Spero vi possa coinvolgere in una discussione approfondita sul sostegno dello sviluppo asiatico e che possiate perciò contribuire attraverso il vostro impegno e la vostra visione, alla pace, alla stabilita’ e alla prosperità in Asia ed in tutto il mondo.

Il mondo sta oggi attraversando profondi e complessi cambiamenti. Le nazione stanno divenendo sempre più interconnesse e interdipendenti. Diversi miliardi di persone, in un gran numero di nazioni in via di sviluppo, stanno accogliendo la modernizzazione. I bisogni del momento, ossia pace, sviluppo, cooperazione e vantaggio reciproco, stanno prendendo slancio.

D’altra parte pero’, il nostro mondo e’ lontano dalla pace.

Lo sviluppo rimane la battaglia più grande; l’economia globale e’ entrata in un periodo di profondo riadattamento e la sua ripresa rimane per ora ancora lontana. Il settore finanziario internazionale deve fronteggiare molti rischi, si stanno sviluppando varie forme di protezionismo, le nazioni stanno ancora affrontando molte difficoltà per stabilizzare la struttura economica, e l’amministrazione globale e’ chiamata a migliorare la stessa. Raggiungere uno sviluppo comune per tutte le nazioni e’ tutt’ora una faticosa battaglia.

L’Asia e’ una delle zone più dinamiche e promettenti del mondo e il suo sviluppo e’ fortemente connesso allo sviluppo degli altri continenti. Le nazioni asiatiche hanno fortemente considerato sentieri di sviluppo adatti alle loro condizioni nazionali e supportato in maniera significativa lo sviluppo globale attraverso il loro proprio sviluppo. Lavorando spalla a spalla con il resto del mondo in tempi di difficoltà per contrastare la crisi finanziaria internazionale, l’Asia e’ apparsa come un’importante locomotiva in grado di guidare la ripresa e la crescita economica mondiale. Negli ultimi anni, l’Asia ha contribuito a più del 50 % della crescita mondiale, infondendo, in tutto il mondo, una necessaria sicurezza.

Inoltre, la collaborazione asiatica con le altre zone del mondo, a livello regionale e sotto regionale possiede grande vitalità e promette grandi prospettive.

Ma quello di cui dovremmo essere accuratamente consapevoli e’ il fatto che l’Asia stia ancora affrontando molte difficoltà e sfide nel supportare il suo personale sviluppo e nel partecipare allo sviluppo di altri paesi.

L’Asia ha bisogno di trasformare e aggiornare il suo modello di sviluppo confrontandosi con i tempi. Sostenere lo sviluppo e’ ancora di fondamentale importanza per l’Asia, perché solo questo e’ la chiave per risolvere le maggiori difficoltà che essa e’ costretta ad affrontare. Dovremmo necessariamente modificare il modello di crescita, adattare la struttura economica, rendere lo sviluppo piu’ efficace economicamente e rendere migliore la vita della nostra gente.

Abbiamo bisogno di operare degli sforzi combinati per risolvere le difficoltà più grandi che impediscono di raggiungere una stabilita’ asiatica. La stabilita’ in Asia sta ora affrontando nuove sfide, come i problemi riguardanti le zone calde che continuano ad emergere, e l’esistenza di consuete e non , minacce per la sicurezza.

Dobbiamo costruire sui successi passati e creare un nuovo progresso, promuovendo la cooperazione in Asia. Esistono diverse iniziative e vari meccanismi per migliorare la cooperazione asiatica e molte idee per supportare questa collaborazione sono state esplorate da diverse parti. Quello che dobbiamo fare e’ aumentare la comprensione reciproca, costruire consenso e arricchire una piu’ profonda collaborazione cosi’ da raggiungere un equilibrio tra gli interessi delle varie parti in questione e la costruzione di un meccanismo che porti benefici a tutti.

Signore e Signori, Cari amici, Il genere umano possiede un’unica terra, che e’ la casa di tutte le nazioni. Lo sviluppo comune, che e’ il fondamento di uno sviluppo sostenibile, e’ a servizio di tutti gli interessi principali e a lungo termine dell’intera popolazione mondiale.

Come membri di uno stesso villaggio globale, dovremmo promuovere un senso di comunità riguardo a un destino condiviso, seguendo i bisogni del momento, mantenendoci sulla giusta direzione, rimanendo insieme nei momenti di difficoltà e promuovendo lo sviluppo asiatico e del resto del mondo fino a raggiungere nuove vette.

Prima di tutto, dovremmo, con coraggio, aprire nuove strade cosi’ da creare un’inesauribile risorsa di potere per il sostegno di uno sviluppo comune. Negli anni, molti paesi e regioni hanno sviluppato una serie di buone abitudini per mantenere la stabilita’ e promuovere la crescita. Dovremmo portare avanti queste abitudini. Ad ogni modo, niente nel mondo rimane costante, e come dicono i cinesi, un uomo saggio cambia col cambiare dei tempi e degli eventi. Dovremmo abbandonare la mentalità ormai superata, rompere con i vecchi limiti che immobilizzano lo sviluppo e liberare tutti i potenziali che lo favoriscano. Dovremmo raddoppiare gli sforzi mirati a modificare il modello di crescita e a stabilizzare la struttura economica, innalzare la qualità dello sviluppo e rendere migliore la vita per le persone. Dovremmo spingere costantemente la riforma del sistema internazionale economico e finanziario, migliorare i meccanismi governativi globali e fornire supporto ad una solida e stabile crescita economica mondiale. L’Asia, con la sua ormai antica capacita’ di adattarsi ai cambiamenti, dovrebbe cavalcare l’onda di questi tempi e produrre cambiamenti in Asia operando un rafforzamento dello sviluppo globale e un beneficio reciproco.

In secondo luogo, dovremmo poi lavorare insieme per sostenere la pace cosi’ come per garantire una sicura salvaguardia che sostenga lo sviluppo comune. La pace e’ l’eterno desiderio della nostra gente. La pace viene notata difficilmente dalle persone, quando ne sono beneficiate, proprio cosi’ come avviene con aria e sole; ma nessuno di noi può vivere senza essa. Senza pace, lo sviluppo e’ fuori questione. Le nazioni, che siano piccole o grandi, forti o deboli, ricche o povere, dovrebbero tutte contribuire con il loro apporto per mantenere e accrescere la pace. Piuttosto che minare l’un l’altra i propri sforzi, le nazioni dovrebbero completarsi reciprocamente e lavorare insieme per il progresso.

La comunità internazionale, dovrebbe sostenere la visione di una sicurezza onnicomprensiva, una sicurezza comune e cooperativa cosi’ da trasformare il nostro villaggio globale in un grande palcoscenico per lo sviluppo comune, piuttosto che in un’arena dove i gladiatori si combattono reciprocamente. Ed a nessuno dovrebbe essere concesso di gettare un paese o persino l’intero mondo nel caos per guadagni individuali. Con la crescente interazione tra le nazioni, e’ inevitabile che si incontrino attriti qui e la. Quello che e’ importante e’ che si risolvano le differenze attraverso il dialogo, la consultazione e attraverso negoziazioni pacifiche nel più vasto interesse di un terreno saldo per le relazioni comuni.

In terzo luogo, dovremmo incoraggiare la cooperazione come un efficace veicolo per accrescere lo sviluppo comune. Come spesso diciamo in Cina, un solo fiore non fa primavera, mentre cento fiori in piena fioritura portano la primavera nel giardino. Tutti gli stati del mondo sono strettamente connessi e condividono interessi convergenti, perciò dovrebbero condividere la loro forze. Mentre persegue i suoi interessi, una nazione dovrebbe promuovere lo sviluppo collettivo di tutti e espandere gli interessi comuni insieme ai propri. Dovremmo promuovere una cooperazione Sud-Sud e un dialogo Nord-Sud, portare avanti un’espansione bilanciata dello sviluppo e delle nazioni sviluppate e consolidare la base per uno stabile e sostenibile terreno per l’economia globale. Dobbiamo lavorare sodo per creare più opportunità di collaborazione, incrementare la cooperazione, e far nascere più dividendi di sviluppo per i nostri popoli e contribuire ancora di piu’ alla crescita mondiale Come quarto punto dovremmo rimanere aperti e comprensivi cosi’ da creare un ampio spazio per uno sviluppo condiviso. L’oceano e’ vasto perché vi sfociano centinaia di fiumi. Dovremmo rispettare i diritti all’indipendenza di una nazione scegliendo il suo sistema sociale e il suo percorso di sviluppo, eliminando sfiducia e dubbi e trasformando le diversità del nostro mondo e le differenze tra le nazioni in una forza dinamica e trainante per lo sviluppo. Dovremmo tenere aperta la mente, attingere dai metodi di sviluppo degli altri continenti, condividere le risorse di miglioramento e promuovere la collaborazione. Durante il primo decennio ed oltre, del nuovo secolo, il commercio all’interno dell’Asia e’ cresciuto da 800 miliardi di dollari americani a 3 trilioni degli stessi, e il commercio asiatico con le altre nazioni e’ cresciuto da 1.5 trilioni di dollari americani a 4.8 trilioni. Questo mostra che la collaborazione in Asia e’ aperta e va di pari passo con la collaborazione asiatica con le altre nazioni, e tutti hanno beneficiato da questa cooperazione. L’Asia dovrebbe accogliere ed incoraggiare i paesi non asiatici a giocare un ruolo costruttivo nell’assicurare stabilita’ e sviluppo del paese. Le nazioni non asiatiche, dal canto loro, dovrebbero rispettare la diversità di questo continente e la sua antica tradizione di cooperazione. Questo farà si che si crei un ambiente dinamico in cui l’Asia e gli altri paesi partecipino ad un processo di rafforzamento reciproco.

Signore e Signori, Cari amici, La Cina e’ un membro importante della famiglia asiatica e della famiglia globale. Lo sviluppo della Cina non può prescindere dal resto dell’Asia e del mondo, e l’Asia e il mondo non possono godere di stabilita’ e prosperità senza la Cina. Lo scorso novembre, durante il Diciottesimo Congresso del Partito Comunista Cinese, e’ stato esposto il progetto di sviluppo del paese per i prossimi anni. I principali obiettivi che abbiamo stabilito sono i seguenti: entro il 2020, il PIL e le entrate pro capite dei residenti in campagna e città dovrà raddoppiare rispetto al 2010, e dovrà essere completato il processo di costruzione di una società del relativo benessere. Entro la meta’ del ventunesimo secolo, la Cina diventerà un paese socialista moderno prospero, forte, democratico, armonioso e avanzato a livello culturale, e verrà realizzato il sogno cinese di grande rinnovamento della nazione. Siamo molto fiduciosi del futuro della nazione. Siamo tuttavia anche consapevoli che la Cina rimane il più grande paese in via di sviluppo al mondo, e che, sulla sua strada verso il progresso, si trova a fronteggiare molte difficoltà e sfide. Dobbiamo impegnarci con abnegazione nei prossimi anni per garantire una vita migliore al nostro popolo. Siamo impegnati in maniera risoluta alla riforma e alla apertura, e ci concentreremo sul cambiamento del modello di crescita, focalizzandoci su una buona gestione dei nostri affari e continuando a promuovere una modernizzazione socialista. Come dice un proverbio cinese, i vicini si augurano il meglio, proprio come fanno gli innamorati l’un l’altro. La Cina continuerà a promuovere l’amicizia e il partenariato, continuerà a consolidare i legami amichevoli e ad approfondire una cooperazione di mutuo vantaggio con gli Stati vicini e continuerà ad assicurare che il proprio sviluppo apporti loro grandi benefici. La Cina promuoverà fortemente lo sviluppo e la prosperità sia in Asia che nel mondo. Sin dall’inizio di questo secolo, il valore complessivo dell’interscambio commerciale fra la Cina e gli Stati vicini e’ passato dai 100 miliardi di dollari a più di 1,3 trilioni di dollari, la Cina e’ diventata il maggiore partner commerciale, il maggiore paese esportatore e una delle maggiori risorse di investimento per gli altri paesi. Gli interessi della Cina non sono mai stati cosi’ strettamente connessi a quelli del resto dell’Asia e del mondo.

In futuro la China manterrà uno slancio alla crescita vigorosa. La propria domanda interna, in particolar modo la domanda legata ai consumi, continuerà a crescere, e gli investimenti outbound cresceranno considerevolmente.

Nei prossimi 5 anni, ci si aspetta che il valore complessivo delle importazioni cinesi raggiunga i 10 trilioni di dollari, che gli investimenti outbound raggiungano i 500 miliardi di dollari, e che il numero dei turisti in uscita superi i 400 milioni. Più la Cina cresce, più si creano opportunità di sviluppo per il resto dell’Asia e del mondo. Siamo convinti nel mantenimento della pace e della stabilita’ in Asia e nel mondo. Il popolo cinese invoca fortemente la pace, ben consapevole delle atroci sofferenze che guerra e turbolenze possono comportare. La Cina continuerà a portare avanti il proprio sviluppo assicurando la pace internazionale e, al tempo stesso, promuovendo la pace attraverso il proprio sviluppo. La Cina continuerà a affrontare in maniera adeguata le differenze e gli attriti con i paesi interessati. Ribadendo fermamente la propria sovranità, sicurezza e integrità territoriale, la Cina continuerà a mantenere la pace, la stabilita’ e un buon rapporto con gli Stati vicini, continuando a giocare un ruolo costruttivo nel risolvere problemi cruciali a livello regionale e globale, esortando al dialogo e lavorando infaticabilmente per risolvere adeguatamente le questioni importanti attraverso il dialogo e la negoziazione. Promuoveremo fortemente la cooperazione regionale in Asia e nel mondo. La Cina aumenterà l’interconnessione con gli Stati vicini, valutando la creazione di una piattaforma finanziaria regionale, portando avanti l’integrazione economica e aumentando la competitività. La Cina continuerà a sostenere e a promuovere la liberalizzazione commerciale e le agevolazioni sugli investimenti, incrementando gli investimenti bilaterali con gli altri Stati e incoraggiando la cooperazione in nuove aree prioritarie. La Cina sostiene fermamente l’apertura dell’Asia e la cooperazione con altre regioni per la promozione del loro sviluppo comune. La Cina e’ impegnata nel restringere il divario Nord-Sud e sostiene gli altri paesi in via di sviluppo nel loro percorso di sviluppo autonomo. Signore e Signori, Cari amici, Promuovere i buoni rapporti con i vicini e’ vecchia tradizione cinese. Migliorare uno sviluppo pacifico e una cooperazione di mutuo vantaggio in Asia e nel mondo e’ come una gara che ha continui punti di partenza e non conosce punti di arrivo. Noi in Cina siamo pronti a stringere la mano agli amici di tutto il mondo, impegnandoci congiuntamente per creare un brillante futuro e per apportare benefici all’Asia e al mondo intero.

Infine, auguro il successo dei lavori del Conferenza Annuale del Boao Forum 2013

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LA CORSA AL QUIRINALE: SCENARI E PROSPETTIVE

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È cominciata ufficialmente la competizione per l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Stante la natura parlamentare del nostro sistema di rappresentanza, il presidente della Repubblica è eletto direttamente dai membri delle due Camere del Parlamento riuniti in seduta comune, ai quali si aggiungeranno per l’occasione tre delegati per ogni regione appositamente scelti dal rispettivo Consiglio Regionale, ad eccezione della Valle d’Aosta che ha diritto di inviarne uno solo. Malgrado l’Italia resti una repubblica parlamentare e sia stata strutturata sulla base di una rete di “pesi e contrappesi” costituzionali che distribuissero i poteri dello Stato verso un numero di istituti maggiore rispetto a quanto avviene nei sistemi monarchici costituzionali (Gran Bretagna, Olanda o Spagna) e nei sistemi presidenziali o semipresidenziali (Stati Uniti, Francia o Federazione Russa), negli ultimi anni i poteri del Capo dello Stato hanno assunto una configurazione per certi aspetti inedita.

Ovviamente questi poteri non sono mai stati ufficialmente modificati da alcuna riforma costituzionale sul tema, tuttavia nel settennato di Giorgio Napolitano si è osservato come durante quei momenti critici di fronte ai quali il governo (che resta teoricamente la massima rappresentanza del potere esecutivo in Italia) si è trovato in serissima difficoltà o addirittura nell’impossibilità a procedere in accordo al suo mandato, il presidente della Repubblica ha de facto gestito la situazione, assumendo personalmente l’impegno di rassicurare gli interlocutori stranieri, le strutture internazionali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Nazioni Unite) o sovranazionali (Unione Europea e NATO) nelle quali l’Italia è integrata e addirittura quei soggetti non-governativi divenuti giocoforza quasi-vincolanti nel quadro recente dei mercati internazionali (agenzie di rating). Del resto, l’articolo 87 della Costituzione stabilisce in modo evidente i notevoli margini di manovra di cui il presidente dispone, in quanto rappresentante dell’unità nazionale e prima carica dello Stato:

  • Invio di messaggi alle Camere
  • Indizione delle elezioni per la formazione delle nuove Camere
  • Autorizzazione della presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa
  • Promulgazione delle leggi ed emanazione dei decreti aventi valore di legge e dei regolamenti
  • Indizione dei referendum popolari
  • Nomina dei funzionari dello Stato nei casi indicati dalla legge
  • Accreditamento e ricevimento dei rappresentanti diplomatici
  • Ratifica dei trattati internazionali previa, quando occorra (ma solo in quel caso, nda), l’autorizzazione delle Camere
  • Comando delle Forze Armate
  • Direzione del Consiglio Supremo di Difesa
  • Dichiarazione dello stato di guerra deliberato dalle Camere
  • Direzione del Consiglio Superiore della Magistratura
  • Concessione della grazia o commutazione delle pene
  • Conferimento delle onorificenze della Repubblica

Sulla carta, dunque, i poteri in materia di politica estera e difensiva non permettono di separare con nettezza e precisione tutti i limiti tra l’azione del governo e il ruolo del presidente. È altrettanto vero, però, che fin’ora nella storia repubblicana, stante l’adesione quasi immediata del nostro Paese alla NATO, l’attività estera aveva per lo più coinvolto i massimi rappresentanti del potere esecutivo, ovvero il Consiglio dei Ministri ed il suo presidente (che nella prassi giornalistica viene spesso indicato con la formula del cosiddetto “primo ministro”, una figura in realtà inesistente nel nostro Paese, dove il capo del governo è al contrario un primus inter pares con poteri più limitati rispetto al premier di tradizione anglosassone).

Negli ultimi due anni, invece, il Capo dello Stato ha esercitato un ruolo molto meno passivo in relazione ai temi dirimenti della politica internazionale e dell’economia mondiale. Durante l’esplosione della cosiddetta “primavera araba” e in particolare dopo l’avvio della guerra civile in Libia, il cosiddetto potere di esternazione del presidente ha costituito una fonte di valutazione dal fortissimo impatto, addirittura capace di sorpassare il parere del governo Berlusconi, rimasto in attesa di fronte al susseguirsi degli eventi per osservare con meno emotività l’evoluzione del quadro politico nel Paese maghrebino. Un crescendo di tensioni ed un consequenziale intervento militare esterno da parte della NATO avrebbero infatti compromesso il ruolo dell’Italia in Libia e vanificato il frutto di anni di elaborata diplomazia e di cooperazione economica tra le più importanti aziende strategiche semistatali del nostro Paese (ENI, ENEL e Finmeccanica) e la controparte libica. Tuttavia, Napolitano tuonò: “Non possiamo restare indifferenti alle repressioni”.

Purtroppo la sua intuizione, appoggiata da tutta la sinistra istituzionale (con il Partito Democratico, l’Italia dei Valori e SeL in prima linea), si rivelò fondamentalmente errata, dal momento che i fatti avrebbero poco più tardi evidenziato le pericolose connivenze tra i “ribelli” libici e la rete terroristica di al-Qaeda, costata la vita persino al diplomatico nordamericano Chris Stevens, analogamente a quanto sta avvenendo in Siria, dove i salafiti del fronte di al-Nusra hanno ormai egemonizzato il cosiddetto Esercito Libero Siriano. In quella fase concitata, durante un comizio del suo partito, Nichi Vendola ringraziò ufficialmente il presidente Giorgio Napolitano per “aver raccontato un’altra Italia, amica del popolo libico e nemica di Gheddafi”.

L’abbaglio ideologico della “primavera araba”, il coinvolgimento in un’aggressione militare non autorizzata (la risoluzione n. 1973 dell’ONU si era limitata semplicemente a stabilire una zona di non-sorvolo sulla Libia) e le gravi ripercussioni per l’economia italiana non hanno però messo in discussione la solida alleanza tra Washington e Roma, tanto che Napolitano ha per ben tre volte fatto visita negli Stati Uniti dal 2012 ad oggi. Nell’ultimo incontro avuto con Obama alla Casa Bianca il 15 febbraio scorso, il Capo dello Stato ha discusso delle imminenti elezioni politiche italiane, ha ricordato all’interlocutore statunitense i “meriti” del percorso di “risanamento finanziario” condotto dal governo tecnico guidato da Mario Monti, rispetto al quale il presidente statunitense si è augurato una continuità anche dopo il voto del 24-25 febbraio, nel segno di una più ampia integrazione del Continente Europeo all’interno di una prospettiva che preveda la definizione di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti. Napolitano ha concluso emblematicamente, affermando: «Ho avuto la prova che questo presidente non è affatto interessato solo all’area del Pacifico».

Insomma, Napolitano non soltanto è andato ben al di là del semplice protocollo formale imposto dalla diplomazia ma ha anche svolto un ruolo-chiave nella determinazione delle scelte più recenti del nostro Paese in campo internazionale. Già nel settembre 2008 aveva ricordato che dinnanzi allo scetticismo verso l’integrazione europea era necessario rispondere con un maggior attivismo in politica estera, lodando la comunione d’intenti espressa dal Consiglio Europeo in relazione alla crisi russo-georgiana dei mesi precedenti. Secondo alcuni osservatori, quella per la politica estera è una predilezione personale che l’ex migliorista coltiva sin dai tempi della militanza nel PCI. In passato Henry Kissinger definì Napolitano con l’esemplificativa formula del “mio comunista preferito”, in riferimento ai vari viaggi che dal 1978 in poi l’attuale Capo dello Stato effettuò negli Stati Uniti in qualità di “ambasciatore” del nuovo PCI post-togliattiano, allontanatosi da Mosca e riposizionato da Berlinguer lungo un percorso di adeguamento allo status quo e di sostanziale adesione al campo atlantico.

Insomma, la passione personale di Giorgio Napolitano per i temi internazionali è senz’altro un elemento che ha giocato un ruolo importante in questo settennato presidenziale. Eppure il presidente potrebbe aver aperto un nuovo corso non scritto della nostra politica nazionale che, nella consuetudine (altra modalità rigorosamente anglosassone), abitui i cittadini a percepire il Quirinale come un’istituzione legittimata a svolgere un ruolo sempre più attivo nella determinazione dell’indirizzo economico e geopolitico del Paese. Non sembra un caso che tra i principali nomi considerati potenzialmente in gara per l’elezione del nuovo presidente siano spuntati quelli di Massimo D’Alema, Emma Bonino, Giuliano Amato e Romano Prodi, quattro esponenti politici profondamente impegnati nel campo della politica internazionale.

Massimo D’Alema è stato a lungo deputato per il PCI, il PDS e i DS. Diventò presidente del Consiglio per poco tempo (fra l’ottobre del 1998 e il dicembre del 1999) ma fece in tempo ad autorizzare la partecipazione italiana alla disastrosa operazione Allied Forces condotta dalla NATO in Serbia nella primavera del 1999. Ha poi ottenuto la direzione del Ministero degli Esteri nel governo Prodi II (tra il maggio 2006 e il gennaio 2008). Fuori dagli incarichi di governo, ha ricoperto funzioni estremamente importanti tra le quali la presidenza, tutt’ora in carica, del COPASIR (Comitato Parlamentare di Controllo sui Servizi Segreti) e l’appartenenza alla Commissione per il Commercio Internazionale, alla Commissione per gli Affari Esteri, alla Sottocommissione per la Sicurezza e la Difesa, alla Delegazione Permanente per le Relazioni con il MERCOSUR (Mercato Comune del Sud America), alla Delegazione per le Relazioni con i Paesi del Maghreb e l’Unione del Maghreb Arabo.

Emma Bonino è la storica dirigente del Partito Radicale Italiano (poi Partito Radicale Transnazionale) e della Lista Bonino-Pannella, diventata (dagli anni Settanta ad oggi) deputata, senatrice ed europarlamentare. La più importante carica istituzionale che abbia mai ricoperto è stata senza dubbio la più recente, cioè la vicepresidenza del Senato al fianco del presidente Renato Schifani durante l’ultima legislatura (2008-2013). Tuttavia, in ambito governativo è stata ministro per il Commercio Internazionale e per le Politiche Europee fra il maggio 2006 e il maggio 2008. Impegnata a lungo negli anni Novanta presso l’Unione Europea, in qualità di Commissario Europeo per gli Aiuti Umanitari e per la Tutela dei Consumatori, e presso l’ONU, in qualità di Alto Commissario per i Rifugiati, Emma Bonino è una delle personalità più attive in politica estera, all’insegna di un convinto atlantismo del quale si è fatta promotrice sin dai tempi della Guerra Fredda attraverso mobilitazioni e campagne di sensibilizzazione in materia di diritti umani e autodeterminazione regionale interferendo negli affari interni della Russia e di altri Paesi asiatici, dove si batte per l’indipendenza della Cecenia, del Xizang (impropriamente chiamato “Tibet” nell’ambito della pubblica opinione), dello Xinjiang (che la Bonino e i suoi sodali ideologicamente definiscono col nome illegale ed improprio di “Uyghuristan” o “Turkestan Orientale”), del cosiddetto “Kurdistan” e numerosi altri contesti.

Giuliano Amato, ex socialista craxiano poi ulivista, è uno dei personaggi più navigati della politica nazionale: presidente del Consiglio per ben due volte (tra il giugno 1992 e l’aprile 1993 e tra l’aprile 2000 e il giugno 2001), ha guidato il Ministero del Tesoro tra il luglio 1987 e il luglio 1989 e tra il maggio 1999 e l’aprile 2000, nonché il Ministero dell’Interno tra il maggio 2006 e il maggio 2008. Ha ricoperto un incarico-lampo, durato appena cinque giorni, come ministro ad interim degli Esteri, allorquando fu chiamato nel giugno 2001 a sostituire Lamberto Dini (da poco nominato vicepresidente del Senato), che aveva guidato la Farnesina durante il mandato del centrosinistra, dal 1996 (insediamento del governo Prodi I) al 2001 (conclusione del governo Amato II). Pesa sul suo primo mandato (1992-1993), la delibera dell’accordo concluso tra il Commissario Europeo alla Concorrenza Karel Van Miert e il ministro degli Esteri Beniamino Andreatta: un accordo che sancì la completa distruzione della potente macchina economica statale dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), trasformandola in una società per azioni in pochi anni disossata dall’agguerrita concorrenza dei mercati occidentali.

Romano Prodi, ex democristiano, ha ricoperto numerosi ruoli nel campo della politica e dell’economia. È stato presidente del Consiglio per due volte: tra il maggio 1996 e l’ottobre 1998 e tra il maggio 2006 e il maggio 2008. Tuttavia, la sua carriera di alto profilo governativo era cominciata molto prima, ossia nel 1978 quando Giulio Andreotti lo nominò ministro dell’Industria e nel 1982 quando assunse la presidenza dell’IRI sino al 1989, avviando una prima fase di privatizzazione che coinvolse principalmente il gruppo SME, una dismissione alla quale lo stesso governo Craxi si era opposto accusando Prodi di aver proposto a Carlo De Benedetti un prezzo palesemente inferiore al valore reale dell’azienda. Chiamato a svolgere consulenze per la finanziaria statunitense Goldman-Sachs nel 1993, Prodi sembra oggi parzialmente pentito di aver contribuito alla realizzazione di quella che alcuni osservatori hanno definito la reaganomics italiana, tanto da sostenere recentemente che l’ex premier britannica Margaret Thatcher e l’ex presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan sarebbero tra i principali responsabili storici della crisi economica mondiale degli ultimi anni. Attualmente è consulente dell’ONU per l’Africa, ruolo nel quale si è trovato spesso ad elogiare le politiche cinesi nel Continente Nero, affermando che nessuno in America e in Europa è legittimato a dare lezioni morali sulle presunte politiche di ingerenza di Pechino. Nel 2006 Vladimir Putin gli offrì la presidenza della società che avrebbe avuto in gestione il gasdotto euro-russo South Stream, rispetto al quale Prodi ha sempre affermato di aver contribuito per gli interessi dell’Italia, ma rifiutò per evitare le possibili accuse mediatiche di “conflitto d’interessi” e “intelligenza con lo straniero”, accuse dalle quali non è riuscito a sfuggire, invece, per quanto riguarda i suoi rapporti con la Cina, dove insegna presso la China Europe International Business School di Shanghai, e che il giornalista italiano Franco Bechis gli ha recentemente rivolto dalle colonne di “Libero”, innescando un’aspra polemica per ora conclusasi con una querela per diffamazione.

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UNO STATO FALLITO NEL CORTILE DI CASA: LA PARABOLA HAITIANA E IL DESTINO DI HISPANIOLA

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Storia di schiavitù e dipendenza

L’isola di Hispaniola è la più leggendaria delle isole caraibiche. Fu la prima sulla quale Cristoforo Colombo sbarcò con la Santa Maria e nel corso dell’epoca moderna  è stata lo snodo principale di tante storie che hanno visto l’arcipelago delle Antille protagonista: come ad esempio la parabola dei bucanieri che della Tortuga (isoletta a nord-ovest) avevano fatto nel XVII secolo la loro sede; o le prime rivolte degli schiavi neri deportati dall’Africa nel Nuovo Continente, che cavalcando l’onda del mito della Rivoluzione Francese si erano ribellati contro la madre patria per raggiungere l’indipendenza nel 1802 (la seconda del continente dopo quella statunitense).

La divisione statuale, come oggi la conosciamo, è avvenuta nel 1844 quando la Repubblica Dominicana si dichiarò indipendente da Haiti occupando  de facto la parte centrorientale dell’isola,  rivendicando tradizioni diverse da quelle dei vicini di lingua francese. L’occupazione spagnola dell’isola è precedente infatti a quella francese (il re di Francia ne reclamò sovranità parziale solo nel 1665) ma venne divisa per ragioni demografiche. Gli spagnoli nel XVII secolo si spostarono gradualmente a est spopolando l’estremo ovest infestato dai pirati e lasciando campo alla colonie francesi. Seppur divisi nella lingua, i due popoli sono certamente accumunati dalla totale influenza politica e militare che gli Usa iniziarono ad esercitare dal XX secolo con occupazioni dell’isola volte a pacificare sollevazioni di piazza violente e a garantire i commerci. L’imposizione di governatori amici e collaborativi da parte degli Usa diede nel corso dell’ultimo secolo, sia ad Haiti che alla Repubblica Dominicana, importanti dittatori. Ad Haiti Duvalier padre e figlio dominarono incessantemente dal 1957 al 1986. Nella Repubblica Dominicana il regime di Rafael Leónidas Trujillo durò dal 1930 al 1961. La transizione democratica ha condotto i due paesi però in direzioni differenti: la Repubblica Dominicana ha trovato una stabilità politica e quindi economica già da Joacquin Balaguer eletto nel 1966, mentre ad Haiti il processo democratico è incompiuto vista l’impossibilità di transizioni pacifiche al potere, tanto che Jean-Bertrand Aristide è stato deposto due volte con un colpo di stato tra il 1991 e il 2004. Proprio l’incertezza governativa haitiana connessa alla possibilità di destabilizzazione della regione ha portato gli Usa e l’Onu ad intervenire direttamente nel 2005. Il terribile terremoto del 2010 e l’epidemia di colera conseguente ha azzerato la pur precaria  sicurezza e stabilità che Haiti era riuscita a garantirsi con le successioni pacifiche alla guida del  governo di Renè Preval e attualmente di Michelle Martelly. Ad oggi il dramma continuo confermato dei senta tetto, degli ammalati, dagli affamati e dalla criminalità palesa l’impossibilità per il territorio haitiano di uscire dall’abbraccio di una economia – e quindi di uno stato sociale – retta da aiuti esterni che impediscono sviluppo e sostanziale indipendenza con possibili ricadute anche per il vicino dominicano.

 

 

Uno Stato fallito

Il Failed States Index (1) pone Haiti al 7° posto – subito dopo l’Afghanistan – nel novero degli stati più insicuri e instabili del globo preceduto solo da Somalia, Congo, Sudan, Sud Sudan, Ciad e Zimbabwe. Per i redattori dell’indice le problematiche destabilizzanti maggiori sono il massiccio intervento esterno (Onu e ong), la crescente pressione demografica, il deterioramento dei servizi pubblici e, infine, il declino economico unito ad una mancata legittimazione del potere sovrano. Requisiti che espongono la società ad una lunga fase di violenza acuta ormai consolidata tant’è che il Global Peace Index (2) assegna ad Haiti i punteggi più alti per il tasso di omicidi (livelli simili solo in Africa Centrale e in America Latina) e per le dimostrazioni e il crimine violento che mettono a repentaglio la pace e l’assetto istituzionale.

Che la popolazione sia poi condannata ad uno stato di miseria duraturo non è solo confermato dal Pil pro capite (nemmeno due dollari al giorno) ma anche dall’Indice di Sviluppo Umano (3) che piazza Haiti all’ultimo posto delle Americhe. Le parole del presidente Martelly sui problemi cronici del paese acclarano senza dubbi l’impossibilità per Haiti di dirsi Stato sovrano e garante delle libertà fondamentali personali e collettive: “Le emergenze sono istruzione, occupazione, ambiente, energia e stato di diritto”(4) L’ultima (stato di diritto) è comprovata dalle rilevazioni degli indici, la prima  – l’istruzione – è una piaga non indifferente visto che l’alfabetizzazione riguarda appena il 52,9% della popolazione con una relativa ricaduta sull’occupazione (circa il 40% di forza lavoro non utilizzata) che non trova l’equilibrio del suo vicino dominicano per un differente mix della composizione del Pil. Haiti soffre di una sproporzione nella offerta dei servizi (oltre il 50% del Pil) rispetto all’industria (19%) tenuto conto che l’agricoltura, che pesa sul 25% del Prodotto, è solo di sussistenza. La mancanza di lavoro e i drammatici risvolti del terremoto hanno spinto circa un milione di haitiani a passare la porosa frontiera con la Repubblica Dominicana in questi tre anni. L’assorbimento della migrazione è stato reso possibile grazie ad un maggiore sviluppo industriale del Paese legato all’efficienza dei servizi (i due settori impiegano l’85% della forza lavoro occupata) e ad una differenza disposizione demografica. Rispetto ad Haiti, caratterizzata da una urbanizzazione selvaggia che ha portato 3 dei suoi 10 milioni di abitanti a vivere a Port-au-Prince e in generale sulla costa, la Repubblica Dominicana gode di una distribuzione della popolazione più omogenea che occupa e sviluppa il retroterra (5).

 

 

La partita a tre (o a quattro)

Il problema più gravoso dell’economia haitiana è però quello energetico. È l’approvvigionamento di carburanti che le impediscono uno sviluppo autonomo della propria industria e la totale dipendenza da uno Stato in particolare, il Venezuela. Se si comparano ancora una volta le importazioni di energia tra i due Paesi, si vedrà che entrambi gli Stati di Hispaniola godono delle agevolazioni della Petrocaribe: l’alleanza petrolifera che permette agli Stati caraibici l’acquisto  – con pagamento dilazionato – di carburante ad un interesse dell’1%. Entrambi sono ovviamente importatori netti di idrocarburi; ma mentre la Repubblica Dominicana riesce a variare il suo mix energetico con il gas, Haiti produce la sua energia solo ed esclusivamente grazie al “favore” venezuelano  di 14 mila barili al giorno di petrolio già raffinato (6). Come è noto Petrocaribe è il braccio energetico dell’organizzazione regionale Alba volta a diffondere il verbo bolivariano sui Caraibi attraverso un’influenza politica supportata dal greggio. Questo piano per il momento non vede grandi risultati dal punto di vista strategico poiché nella sostanza il Venezuela “regala” petrolio ai due Stati per produrre merci e servizi che poi vengono venduti per la maggior parte agli Stati Uniti (loro principale mercato) impedendo a pieno una cooperazione economica che però il Venezuela sta implementando attraverso le  infrastrutture: ad Haiti Petrocaribe sta costruendo una centrale elettrica e una raffineria mentre sul piano alimentare sta partecipando al miglioramento della produzione di zucchero nella Valle di Artibonite.

Haiti d’altronde non può fare a meno di sussidi e agevolazioni: basta guardare ai circa due miliardi e mezzo di dollari arrivati dopo il terremoto sotto forma di donazioni da parte di altri Stati, che però gestiscono il finanziamento senza demandare alle autorità locali.

Il controllo esterno sulla ricostruzione del paese si aggiunge al “sussidio” politico che l’Onu sta prestando ad Haiti – ormai dal 2004 – con l’azione di peacekeeping denominata United Nations Stabilization Mission in Haiti (Minustah) a supporto della democrazia messa in pericolo dal colpo di stato contro Aristide. La missione conta migliaia di cooperanti provenienti da oltre 40 paesi e la guida della missione è stata affidata al Brasile con il tenente generale Edson Leal Pujol. Haiti è dunque un banco di prova importante per un paese che vuole affermarsi come egemone nel continente e dunque gendarme dell’America Latina. Ad oggi i risultati però latitano a causa di una persistente alta percentuale di criminalità diffusa e l’incapacità dello Stato di garantire una polizia efficace aggravatasi dopo lo chock del terremoto che ha azzerato il paese. Il piccolo scacchiere dei Caraibi vede dunque il confronto tra tre potenze: il Venezuela desideroso di imporre un’egemonia ideologica a forza di petrolio; il Brasile che testa le proprie capacità di potenza regionale e di arbitro continentale;  e gli Stati Uniti che detengono ancora un’influenza economica e culturale preponderante lungi dal voler affievolire. All’orizzonte però si fa sempre più ingombrante la presenza di un’altra potenza emergente, molto più preoccupante per gli Stati Uniti che non per Venezuela e Brasile: la Cina è infatti intenzionata ad occupare più spazio possibile nel “cortile di casa” statunitense. Gli investimenti miliardari che le banche cinesi stanno indirizzando nei Caraibi sono seguiti da una buona percentuale di importazioni: sia nella Repubblica Dominicana che ad Haiti i cinesi sono ormai il quarto partner. I prestiti per lo sviluppo infrastrutturale sociale di tutte le Antille e l’occupazione di una fetta di mercato caraibico sono strategici all’insediamento economico della Cina proprio nella zona di massima influenza regionale statunitense.

Haiti da questo punto di vista potrebbe giocare un ruolo di primo piano nel prossimo futuro. Vista l’endemica povertà del paese, aggravata dai disastri naturali – e l’incapacità da parte di tutti gli attori più importanti del continente di impedire il paragone di parte dell’isola con i più sventurati stati africani –  la soluzione potrebbe arrivare da Pechino, la cui politica estera è nota: stanziarsi nei paesi divenendo un interlocutore privilegiato data la sua capacità di portare finanziamenti.

Le mire di questi paesi su Haiti, e in generale su Hispaniola, non sono destinate comunque ad esaurirsi al livello del confronto politico. Proprio il petrolio potrebbe essere l’obbiettivo primario di queste potenze e di conseguenza la possibile salvezza dell’isola. Pare che nel Mar dei Caraibi di esclusività haitiana ci siano riserve per quasi un miliardo di barili.  Petrolio che sarà ambito dalla sete energetica della Cina, dalle compagnie petrolifere nazionali venezuelana e brasiliana (PSVDA e Petrobas), e dalle multinazionali statunitensi del settore. Una partita che del resto già è iniziata: chi giocando la carta dell’assistenzialismo energetico, chi della missione umanitaria di pace, chi del supporto commerciale.

Nonostante il fallimento del suo vicino prossimo (Haiti), la Repubblica Dominicana riesce a crescere a buoni ritmi. La flessione che si è però registrata proprio a partire dal 2011 – anno successivo al terremoto – ha nelle concause proprio la difficoltà del commercio comune con la parte ovest di Hispaniola che rappresenta il secondo mercato per Santo Domingo. L’impossibilità di migliorare l’interscambio con Haiti è solo una delle problematiche disgreganti dell’intera isola. L’alta capacità di influenza negativa di Haiti potrebbe nel medio periodo intaccare la modesta economia dominicana messa già a dura prova dai flussi migratori e di certo impedirne una sviluppo esente da chock. Un’isola così grande e già in parte destabilizzata andrebbe così a sommarsi a Cuba trai i problemi politici endemici degli Stati Uniti.

 

 

 

*Salvatore Rizzi, dottore in Scienza della Politica

 

1) L’Indice degli Stati Falliti è stilato dall’organizzazione di Fund For Peace e pubblicato sulla rivista Foreign Policy. Il giudizio si basa sulla somma di una serie di indicatori politici, economici e sociali: http://ffp.statesindex.org/rankings-2012-sortable

2) L’indice in questione cerca di classificare gli Stati in base alla propria capacità di essere pacifico e privo di tensioni. È stato ideato da un imprenditore australiano, Steve Killelea, e unisce i dati statistici di vari enti ed istituzioni di tutto il mondo. http://www.visionofhumanity.org/gpi-data/

3) Indicatore Onu basato su Pil, alfabetizzazione e speranza di vita:  riguardo quest’ultimo parametro Haiti Spicca si pone nel novero dei paesi terzomondisti con 62,4 anni.       http://hdrstats.undp.org/en/countries/profiles/HTI.html

4) http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2013-03-14/haiti-tanti-aiuti-pochi-103421.shtml?uuid=Ab0IIxdH

5) I dati economici dei due paesi sono consultabili su https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/

6) http://www.petrocaribe.org/

 

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LE RELAZIONI ESTERE DELLA COREA POPOLARE

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Nel trattare la recente crisi coreana, le fonti occidentali sottolineano costantemente che la Corea Popolare è un paese completamente isolato dalla cosiddetta “comunità internazionale”. Sembrerebbe inutile sottolineare che nella concezione occidentale la “comunità internazionale” è solamente la somma delle nazioni che seguono i dettami atlantisti, salvo qualche sporadica apparizione di altre realtà nazionali che, vuoi per convenienza, vuoi per particolari circostanze storico-politiche, aderiscono alle posizioni occidentali. È quindi evidente che tale concezione occidentalocentrica è parziale e partigiana e mira a presentare i paesi che non si allineano come estranei al resto della “civiltà mondiale”.

Ma basta dare una semplice occhiata all’archivio della Korean Central News Agency per rendersi conto come la RPDC mantenga stabili e costanti rapporti diplomatici, politici e economici con numerose nazioni. Naturalmente i rapporti bilaterali sono di diversa natura: ci sono paesi legati con Pyongyang da alleanze strategiche, da posizioni ideologiche similari, da rapporti di amicizia storici, da comuni interessi tecnologici, da investimenti nelle risorse del paese oppure da semplici rapporti di cortesia. Giungono a Pyongyang anche delegazioni di paesi che hanno rapporti ostili con il governo centrale, composte anche da personalità conosciute, come ad esempio il cestista statunitense Dennis Rodman o il lottatore giapponese Antonio Inoki, che ha recentemente visitato il paese con delegazioni americane e nipponiche, o come la delegazione sudcoreana che hanno reso omaggio alla salma del defunto Kim Jong-Il, con a capo Lee Hee-ho, vedova dell’ex presidente Kim Dae-jung, e Hyun Jung-Eu, vedova Hyun Jung-Eu, due personalità che si spesero per la riunificazione coreana. Esistono anche associazioni e movimenti politici che fanno diretto riferimento a Pyongyang, come il Fronte Democratico per la Riunificazione della Corea, con sede a Seul, l’associazione dei Zainichi Chongryon (Associazione Generale dei Coreani residenti in Giappone), che riunisce i coreani che vivono in Giappone che rimangono fedeli al governo socialista di Kim Jong-Un, o la Korean Friendship Association, con sezioni in numerosi paesi del mondo.

Tutti elementi che dimostrano che la Corea Popolare è tutt’altro che un paese “totalmente isolato”.

Per andare più nello specifico dei rapporti internazionali di Pyoangyang, va Innanzitutto sottolineato che la RPDC appartiene, dal 1976, al Movimento dei Non Allineati, che recentemente ha ripreso vigore, in particolare grazie all’indirizzo critico nei confronti dell’unipolarismo americano impresso dagli iraniani e dal Venezuela (vedi ad esempio l’ultimo summit di Tehran del 26 – 31 agosto 2012, con il prossimo incontro già programmato per il 2015 a Caracas). Nel summit di Tehran, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad nell’apertura dei lavori dell’incontro, propose ai partecipanti di esprimere profonde condoglianze per la scomparsa di Kim Jong-Il, deceduto il 17 dicembre precedente. Tutti i delegati dei 120 paesi presenti osservarono un minuto di raccoglimento.

Tralasciando le storiche relazioni con Russia e Cina, su cui già molto si è scritto, il paese che ha una più stretta alleanza con la Corea è la Repubblica Islamica dell’Iran. Fin dai tempi della guerra Iran-Iraq, Pyongyang svolse un ruolo di alleato strategico di Tehran, fornendo il governo degli Ayatollah di armamenti che permisero di fronteggiare l’invasione irachena. Attualmente tra i due paesi sono costanti gli scambi economici e militari e per lo sviluppo tecnologico (ad esempio la tecnologia dei missili balistici iraniani Shahab è basata sul modello del missile nordcoreano No-Dong) e nucleare. Nel 2012, nell’ambito del summit dei Paesi non allineati, i due paesi hanno siglato un accordo di cooperazione scientifica e tecnologica, oltre che numerosi intese di natura economica ed energetica con la “benedizione” dell’Ayatollah Ali Khamenei: «la Repubblica Islamica dell’Iran e la RPD di Corea hanno comuni nemici e in particolare gli Stati Uniti e Israele, con questo accordo entrambi dovrebbero riuscire a resistere alle comuni minacce». Il sostegno iraniano non è venuto meno nemmeno durante questa crisi, come dimostrano le dichiarazioni del generale Massoud Jazaeri, che identificano nelle provocazioni statunitensi la causa dell’aumento delle tensioni nella penisola coreana: «tutta questa crisi dimostra che la politica guerrafondaia nordamericana vuole creare crisi in tutto il mondo, per poter intervenire militarmente e ledere la resistenza dei popoli, in questo caso contro la nazione coreana e i suoi dirigenti».

Alleato di ferro con l’Iran, è la Siria, che intrattiene anche un rapporto prioritario con i coreani, con i quali, già nel 2002 siglarono un accordo simile  quello siglato a Tehran 10 anni dopo. I tecnici di Pyongyang contribuirono alla costruzione di una centrale nucleare in Siria, vicino a Dayr az-Zawr, tanto che quando la centrale fu bombardata dagli israeliani (Operation Orchard del 6 settembre 2007) alcune ricostruzioni riportano tra le vittime anche esperti coreani (circostanza mai confermata da Pyongyang). Nell’attuale tragico periodo di tensione, sia in Siria che nella penisola coreana, i due stati hanno confermato la vicinanza anti-imperialista, anche con dichiarazioni ufficiali di stima tra i due leader.

Dopo aver parlato di Iran e Siria, diventa fondamentale discutere del ruolo del Pakistan, in questo arco di paesi che cercarono un deterrente nucleare per affrontare l’ingerenza statunitense. Già nei primi anni ’90 il governo di Pyongyang con esponenti pakistani, in particolare con quel Abdul Qadeer Khan, considerato “il padre dell’atomica islamica”. Secondo alcuni analisti, nella rete di contatti di Khan si trovava oltre a Iran, Siria e Corea Popolare, anche la Libia di Gheddafi (paese in cui lavoravano molti nord-coreani, rimpatriati con lo scoppio della rivolta antigovernativa), con la compiacenza di Pechino. Il Pakistan aprì le relazioni diplomatiche con Pyongyang nel 1970, con i buoni uffici di Pechino nel periodo di governo di Zulfikar Ali Bhutto. Un accordo di difesa tra Pakistan e Corea fu firmato nel 1990 per volontà di Benazir Bhutto, presidentessa considerata molto vicino all’Iran, che venne uccisa nel 2007 dopo il rientro in patria in un attentato. Attentato che secondo il marito e attuale presidente pakistano, Asif Ali Zardari, è stato commissariato dall’ISI, il servizio segreto pakistano, e dal governo di Musharraf, probabilmente proprio a causa di questi rapporti amichevoli nei confronti di Iran e RPDC.

Un altro paese con il quale la Corea Popolare ha un rapporto privilegiato è la Mongolia, dopo una ventina d’anni in cui le relazioni erano assenti, in seguito alla caduta dell’Unione Sovietica e del passaggio alla democrazia parlamentare ad Ulaanbaatar. In particolare negli anni ’90 i rapporti tra i due paesi divennero tesi, salvo migliorare radicalmente nei primi anni 2000, quando, nel 2002, Paek Nam-Sun, allora ministro degli esteri, visitò Ulaanbaatar. Nel luglio 2007, il Presidente dell’Assemblea Popolare Suprema, Kim Yong-Nam incontrò il presidente mongolo Nambaryn Enkhbayar e firmò importanti accordi in campo sanitario, auspicando una maggiore collaborazione nei settori della scienza e della cultura. Accordi che infastidirono non poco Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti che sono interessati allo sfruttamento delle ricchissime miniere mongole. Questi accordi hanno inoltre trovato un seguito e sono moltissimi i rapporti bilaterali mongolo-coreani come ad esempio un interscambio di tecnici, studenti e sportivi. Inoltre nel novembre scorso, sempre su iniziativa mongola, si sono incontrati ad Ulaanbaatar rappresentanti diplomatici di alto livello di Giappone e RPDC per discussioni bilaterali sui rapporti tra i due paesi e sulla questione dello sviluppo del nucleare. Negli ultimi anni è riscontrabile in Mongolia un interessante dinamismo diplomatico multivettoriale con prospettiva multipolare, con il presidente Enkhbayar (esponente della sinistra nazionalista) che, ad esempio, si è posto come garante del nucleare iraniano e che ha revocato le licenze al colosso statunitense Rio Tinto  per l’estrazione in una sezione chiave dell’enorme giacimento di oro e rame Oyu Tolgoj (oro e rame) che, da solo, dovrebbe produrre un terzo del Pil mongolo.

Nell’area del sud-est asiatico i rapporti migliori sono con Cambogia, Laos e Vietnam. Con Phnom Penh la vicinanza risale agli anni ’70, anche grazie all’amicizia personale tra Kim Il-Sung e il Re Norodom Sihanouk. Ora le due nazioni puntano a stabilire un solido legale commerciale e la recente visita di delegati coreani nella capitale cambogiana ha stabilito le linee per potenziare le esportazioni tra i due paesi: Phnom Penh mette sul piatto la produzione alimentare (in particolare di riso, frumento e patate), Pyongyang offre in cambio tecnologia a basso prezzo. Inoltre una ditta coreana sta costruendo un museo altamente tecnologico sulla civiltà Khmer per un valore di circa 10 milioni di dollari nei pressi dello scavo archeologico di Angkor Wat. Con il Vietnam, oltre che la tradizionale vicinanza ideologica tra i due partiti comunisti al potere, sono in corso relazioni proficue per lo sviluppo delle tecniche agricole. Rapporti prevalentemente nel campo militare sono attivati con il Laos. Sono ormai in crisi invece i rapporti con il Myanmar, dopo la liberalizzazione del paese, in particolare dopo la visita di Hilary Clinton a Naypyidaw, nel dicembre 2011, che ordinò un blocco dei rapporti bilaterali tra la Giunta guidata da Than Shwe e il governo di Pyongyang, in particolar modo attivi nel campo dello sviluppo nucleare e dell’interscambio degli armamenti.

Non mancano gli interscambi commerciali con l’India, seppur complicati dal rapporto pakistano-coreano. Solamente nel 2010-2011 lo scambio tra Pyongyang e Nuova Delhi toccava i 572 milioni di dollari.

Legata ad una comune visione ideologica è l’amicizia con Cuba. Nel 2010 l’ambasciatore coreano ha celebrato a L’Avana il cinquantesimo anniversario delle relazioni tra i due paesi (29 agosto 1960) e ha ricordato i vincoli e le posizioni comuni dei due governi. Due anni dopo, il 16 dicembre 2012, l’ambasciatore cubano Germán Ferrás Álvarez e il ministro del commercio estero coreano Ri Ryong-Nam hanno firmato a Pyongyang un protocollo di collaborazione e sviluppo del commercio, della scienza e della tecnologia per il 2013.

Nel continente indiolatinoamericano ottimi rapporti sono intrattenuti anche con la Repubblica Bolivariana del Venezuela, fin dal 1999, anno del primo governo Chávez.

Nell’Africa nera i paesi con i quali i rapporti sono prioritari sono lo Zimbabwe e l’Eritrea, anche se intercorrono rapporti costanti con numerosi altri paesi del continente tra i quali Sud Africa, Nigeria ed Egitto. Nel 1980 il Presidente Kim Il-Sung siglò con la controparte zimbabwese, Robert Mugabe, un accordo per l’interscambio delle conoscenze militari e per l’addestramento delle truppe di Hararae, che tutt’ora è in vigore. Nei confronti dell’Eritrea, i coreani sono, con Pechino, i maggiori fornitori dell’esercito di Asmara e, assieme all’Iran, l’unico paese a non aver rispettato le sanzioni ONU del 2008 contro il governo di Isaias Afewerki. Per quanto riguarda l’Egitto, rapporti miranti allo scambio tecnologico risalgono già agli anni ’80 quando il governo di Hosni Mubarak firmò un accordo per la fornitura di armamenti. In Egitto è anche presente l’ufficio navale commerciale coreano per il Mediterraneo. Recentemente la compagnia egiziana Orascom Telecom ha creato la rete per la telefonia mobile in Corea con la compagnia Koryolink. Ma le relazioni con l’Egitto risalgono già al 1967 quando circa 30 piloti dell’Armata Popolare Coreana parteciparono alla guerra dello Yom Kippur a fianco delle armate egiziane di Gamal Abd Nasser.

Da questa breve (e sicuramente parziale) analisi delle relazioni estere di Pyongyang si evidenzia che il governo socialista non ha pregiudiziali politiche o ideologiche (fermo restando una prospettiva multipolare e, di fatto, antimperialista, definita anche nell’ideologia Juché) nei confronti di nessun possibile alleato, ma cerca supporto e amicizia tra i paesi sovrani, che possano dialogare con Pyongyang su un piano di parità (e non secondo quella la velleità occidentale di guardare gli altri paesi “dall’alto al basso”) ponendo come unica precondizione la rispettiva non ingerenza negli affari interni. Ragionare secondo questa logica dovrebbe rappresentare una pilastro fondamentale di qualsiasi politica estera di qualsiasi paese sovrano.

 

 

 

 

Fonti:

La Repubblica Islamica dell’Iran a fianco della Corea Socialista
 
Minacce nucleari: Mongolia in primo piano nei rapporti diplomatici con la Corea del Nord
 
L’Eritrea e i suoi rapporti con Cina, Iran e Corea del Nord
 
Le relazioni tra la Corea socialista e la Siria di Assad
 
North Korea Leadership Watch
 
 

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GLI STATI UNITI SOTTO ATTACCO DOPO IL FALLIMENTO DEI COLLOQUI SU UN TRATTATO PER LE TELECOMUNICAZIONI

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Pubblichiamo la traduzione di un articolo apparso sul “Financial Times”, che riporta le parole di un protagonista delle telecomunicazioni in Italia e non solo. Lo scontro in atto fra Europa e Paesi emergenti da un lato e gli Stati Uniti dall’altro mette in luce le frizioni geopolitiche e gli interessi economici e produttivi incompatibili. Per tali motivi nella Conferenza Mondiale sulle Telecomunicazioni internazionali (WCIT12) tenutasi a Dubai, che pur si è conclusa con la revisione del Trattato che regola le telecomunicazioni internazionali (ITRs), si è evidenziata una profonda spaccatura. Da una parte chi ha un vantaggio competitivo e strategico controllando la rete (gli Usa) dall’altra tutti gli altri attori. Questi stessi temi, oltre ad essere di fondamentale importanza di per sé, devono essere letti con attenzione in vista del paventato trattato di libero scambio fra Europa e Usa.

[La redazione]

 

 

 

 

Franco Bernabè, Amministratore Delegato di Telecom Italia e Presidente del GSMA, l’associazione degli operatori di telefonia mobile, ha criticato quella che ha definito “guerra di propaganda”, condotta dagli Stati Uniti, che la settimana scorsa ha provocato il fallimento delle trattative per un’intesa per le telecomunicazioni.

Gli Stati Uniti, congiuntamente al Regno Unito e al Canada, hanno abbandonato i negoziati giovedì notte, sostenendo di essere preoccupati per come un accordo possa permettere alle nazioni di regolamentare la rete e reprimere la libertà di parola.

Bernabè, che in qualità di Presidente del GSMA rappresenta quasi 800 operatori mobili in 220 paesi, ha sostenuto che l’accusa mossa dagli Stati Uniti e dai loro alleati nei confronti di coloro che sono favorevoli al trattato, ritenuti vicini ad alcuni “regimi autoritari”, fosse “ridicola”.

In un’intervista al “Financial Times” ha affermato: “Questa è una guerra di propaganda. L’idea che una cospicua parte dell’industria europea sia stata associata all’Iran e ad altri regimi oppressivi è offensiva. Si tratta di accuse completamente prive di logica e inaccettabili.”

Bernabè, sollecitando le parti a riconsiderare le proprie posizioni, si è unito ai sostenitori dell’accordo nel suggerire che gli Stati Uniti stessero usando il principio di libertà come una copertura per proteggere compagnie quali Google e Facebook dai tentativi per coordinare la regolamentazione.

L’incontro dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, tenutosi a Dubai più di due settimane fa, ha cercato di costruire un ponte tra la rete internet e le reti delle telecomunicazioni.

Un proposito iniziale sarebbe stato quello di porre sullo stesso livello di regole tutte le compagnie internet intese come operatori di rete.

Bernabè ha ribadito: “La regolamentazione ha posto le compagnie europee in una posizione svantaggiata nel panorama competitivo. Non ci sarebbero potuti essere un Google o un Facebook europei, perché sarebbe stato molto complesso attenersi alle regole e agli obblighi delle leggi europee sulla riservatezza”.

I fautori di una rete libera, che comprenda Google, temono che le ampie clausole disposte dall’ITU circa la sovranità nazionale e la sicurezza possano essere usate per legittimare la censura, il monitoraggio clandestino e il blocco dei siti informatici.

“Si dovrebbe raggiungere un compromesso.” Bernabè ha continuato: “Abbiamo bisogno di maggiore regolamentazione da parte degli Stati Uniti, e molto meno norme sul fronte europeo. Se ci fosse lo stesso campo di azione non staremmo a discutere.”

“Mentre l’industria di tlc statunitense è stata capace, grazie al contesto normativo, di adattarsi e contenere nuovi concorrenti, l’industria europea è stata schiacciata, frammentata, resa incapace di reagire, inflessibile e costretta da un enorme mole di obblighi legislativi.”

Bernabè stava parlando al “Financial Times” durante il lancio del suo libro, Libertà vigilata, che racchiude le sue opinioni sulla riservatezza nell’era di internet.

Bernabè è in disaccordo con il carico di informazioni personali che passa attraverso organizzazioni statunitensi come Walmart, Google e Facebook.

 

 

Fonte: “Financial Times” 17 dicembre 2012.

 

 

Traduzione Lorena Orio

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INTERVISTA ALL’ON. RICCARDO MIGLIORI

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A cura di Andrea Turi

 

Per prima cosa la ringrazio della sua disponibilità a rispondere alle mie domande. Vorrei cominciare dagli ultimi sviluppi nelle relazioni tra Serbia e Kosovo. Secondo Lei, dopo il fallimento del dialogo a Bruxelles, ritiene che sia possibile che le due parti trovino un accordo nel breve e medio periodo?

Sarà arduo trovare un “accordo quadro” tra Serbia e Kossovo fino a quando Belgrado continuerà a rifiutare il riconoscimento di Pristina e Pristina si rifiuterà di riconoscere la particolarità dell’area aldilà dell’Ibar. Credo più alla politica dei piccoli passi concreti dettati dalla ragionevolezza.

 

 

Ritiene che il piano Ahtisaari, rigettato dalle parti nel momento in cui fu proposto, sia ancora un soluzione valida, praticabile e rappresenti un accettabile compromesso?

Una volta rifiutato, il piano Ahtisaari non ha possibilità di riesumazione sia perché le parti perderebbero la faccia, sia perché questa non è la stagione di “accordi quadro”.

 

 

Le ultime notizie diffuse dalla Radio Internazionale di Serbia parlano di pattugliamenti organizzati dalla popolazione serba sulla strada Priština-Raška, nella località di Rudare, nei pressi di Zvečan, a causa della forte presenza e della circolazione delle speciali unità “ROSU”, che sono sotto il comando delle istituzioni provvisorie kosovare. Si parla anche di nuovi attacchi. Prendo a pretesto le brevi notizie per domandarle se pensa che ci potrebbero essere atti di forza da parte di Pristina per ottenere questa parte del Paese.

Escludo atti di forza da parte di Pristina perché ciò comporterebbe una perdita di credibilità per lo Stato kossovaro e l’ammissione di una sovranità ancora limitata. Non escludo, invece, gli interessi molteplici, legati anche alle prossime elezioni albanesi, tesi in tale direzione e il vigore del dibattito politico interno ove Kurti è meno isolato di quanto si pensi.

 

 

Lei è stato rappresentante dell’OSCE. in base alla sua recente esperienza, quale è la situazione sociale in Kosovo,  soprattutto nel nord della regione? 

Pristina è un cantiere ed in generale c’è ottimismo circa il futuro economico del Paese nonostante le enormi difficoltà riscontrate inizialmente. La regione del Nord, invece, ha maggiori difficoltà sociali perché ha maggiori difficoltà politiche.

 

 

Il mancato raggiungimento di un accordo rappresenta una sconfitta per l’Unione Europea e la sua (presunta) politica estera?

Le sconfitte politiche dell’Europa, ormai, non si contano più. La Signora Ashton, del resto, ha difficoltà ad uniformare la politica estera quando l’UE non ha una unitaria politica di difesa e sicurezza.

 

 

Quale è la sua opinione sull’operato della diplomazia di Bruxelles in qualità di mediatore?

L’atteggiamento di Bruxelles verso Belgrado è sempre molto severo. Tra l’altro risulta inaccettabile un atteggiamento illuminista secondo il quale i Serbi sarebbero sempre costretti ad emendarsi. La storia va avanti.

 

 

Il Primo Ministro serbo Dacic ha dichiarato a metà del mese di Marzo che gli Albanesi del Kosovo non sono ancora pronti ad un accordo perché hanno le spalle coperte dal potere statunitense. Bene, le chiedo: quali sono gli interessi di Washington nella regione?

A Pristina c’è una grande statua di Bill Clinton e le bandiere USA sventolano dappertutto. Il sistema delle comunicazioni è appannaggio della Signora Albright. Mi dicono che si potrebbe continuare nella elencazione.

 

 

In caso ancora l’avesse, qual’è l’importanza del Kosovo sullo scenario internazionale? Quali altri Paesi oltre agli Stati Uniti hanno ancora interesse alle sorti della regione e quali sono questi interessi?

Alla Casa Bianca sostengono (ufficialmente) che le priorità USA oggi non sono i Balcani, ma l’Asia Centrale. Si tratta, comunque, di un impegno in più per l’Europa che ha interesse non solo alla stabilità dei Balcani, ma anche a testimoniare la convivenza tra democrazia e società islamica seppur ampiamente secolarizzata.

 

 

L’Ambasciatore statunitense a Belgrado Michael Kirby ha fatto sapere (8 aprile 2013) che il suo Paese è pronto a partecipare attivamente al dialogo. Pensa che davanti ad un possibile scenario anche la Federazione Russa decida di giocare un ruolo più “pesante” che vada oltre la solidarietà verso il popolo e le istituzioni serbe?

La Serbia nella UE sarà anche un nuovo ponte di dialogo con Mosca per recuperare lo spirito positivo di Pratica di Mare. Un ruolo concreto della Federazione Russa sarebbe auspicabile perché sarebbe “riequilibratore”.

 

 

L’Ambasciatore della Federazione Russa a Belgrado, Aleksandar Cepurin, ha recentemente dichiarato che la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1244 è un documento ancora valido ed in essere. Concorda con il fatto che il luogo giusto per risolvere la questione possano essere le Nazioni Unite?

Certamente lo è anche se molta acqua sotto i ponti della storia è passata da allora costituendo una situazione “de facto” irreversibile per quanto riguarda la questione della sovranità.

 

 

Come reputa il lavoro dell’amministrazione internazionale in Kosovo dal 1999 e l’applicazione del diritto e della legge nel Paese?

E’ stato fatto moltissimo ma ancora moltissimo resta da fare soprattutto nel settore giudiziario. L’indipendenza della magistratura, che è essenziale nella tripartizione autonoma dei poteri, è necessario quanto urgente obiettivo da raggiungere.

 

           

Quale sarà, quindi, il futuro dei due Paesi? È il cammino europeo, l’opzione europea, la migliore soluzione per entrambi? O, forse, ci sono altre alternative più praticabili, soprattutto per la Serbia?

Il popolo serbo vuole l’ingresso nella UE ed è nostro interesse l’integrazione serba. Con l’avvicinarsi delle elezioni tedesche, la richiesta della Merkel di reintroduzione dei visti per l’area Shengen per i cittadini serbi si è fatta più insistente. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, è una tesi da rigettare con forza anche perché in controtendenza coi negoziati con Bruxelles. Tutt’altra questione concerne la NATO ovviamente.

 

 

Crede che la data di inizio delle negoziazioni per l’ingresso di Belgrado nell’UE verrà fissata nonostante il dialogo con Pristina non abbia portato, per il momento, a niente oppure tale decisione verrà rimandata ad un prossimo futuro? Nel caso in cui la decisione venga rimandata, sarà la questione Kosovo ad essere decisiva o questa sarà un semplice pretesto per chiudere le porte a Belgrado?

Spero ardentemente che non vi siano slittamenti sui tempi né scuse per dire NO a Belgrado. Certo la questione kossovara ha il suo peso, ma se abbiamo preso Cipro senza avere risolto la questione cipriota, possiamo prendere la Serbia senza avere risolto la questione kossovara.

 

 

Ultima domanda: immaginiamo un futuro europeo per Belgrado. Saranno maggiori i benefici che la Serbia ricaverà dall’ingresso nell’UE o quelli dell’Europa con l’approdo di Belgrado nella casa comune europea?

E’ interesse di tutti la stabilità. L’Europa più grande è una Europa più forte e credibile. Come ha dimostrato la storia, una Serbia più europea è interesse della Serbia come di tutti i Paesi che sono diventati membri dell’Unione Europea.

 

 

 

* L’on. Riccardo Migliori Presidente dell’Assemblea Parlamentare dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce).

 

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CHI CONTROLLA INTERNET? IL DIBATTITO NEGLI STATI UNITI

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Mercoledì 10 aprile un disegno di legge riguardante la “politica degli Stati Uniti relativa alla governance di Internet” è stato presentato alla Camera dei Rappresentanti Usa. La parte saliente dice semplicemente:

“E’ interesse degli Stati Uniti promuovere la libertà globale in internet fuori dal controllo governativo,  preservare e promuovere il modello multilaterale e di successo che governa la rete.”

Ma questo tentativo di formulare un principio chiaro e renderlo giuridicamente vincolante è diventato una controversia politica proprio a Washington.  E’ successo perché il disegno di legge porta alla luce le contraddizioni latenti che caratterizzano la politica internazionale degli Stati Uniti su internet.  Si è così assistito ad una frattura fra il fronte unito di democratici e repubblicani contro le incursioni delle organizzazioni intergovernative come l’ITU (gli scontri alla recente Conferenza Mondiale sulle Telecomunicazioni internazionali (WCIT12) tenutasi a Dubai parlano chiaro).

Il problema, a quanto pare, è che la parte democratica dell’agone politico non può dire che è contro “il controllo del governo” in sé. Infatti, il disegno di legge ha costretto persone legate all’amministrazione Obama a palesarsi e ammettere apertamente che “il controllo del governo” di Internet è accettabile quando viene esercitato dagli Usa, e bisogna preoccuparsi solo quando altri Stati o organizzazioni lo attuano.

Gli Stati Uniti sono stati profondamente coinvolti in questa contraddizione fin dal Vertice mondiale sulla società dell’informazione nel 2003-5, quando si opponevano alle critiche all’ICANN (controllata dagli Stati Uniti) e allo stesso tempo dicevano di essere contrari al controllo governativo. Nel frattempo diverse agenzie istituzionali statunitensi hanno (nella gran parte dei casi senza rendersi conto di contraddire la retorica sulla libertà di Internet) conquistato silenziosamente posizioni di potere su vari aspetti del web (nel controllo dei domini, ACTA, gioco d’azzardo in rete, armi cibernetiche ecc…).

Fino ad ora la contraddizione latente è rimasta nell’ombra.  Solo pochi accademici sono stati disposti ad articolare l’argomento.

Oggi invece da altri paesi si guarda all’ICANN come una forma di controllo globale di Internet esercitata da un governo, ossia quello degli Stati Uniti.  Si sbagliano?  ICANN deve la sua autorità decisionale sui DNS principali direttamente da un contratto con il governo degli Stati Uniti e, in cambio della ricezione di tale contratto, ICANN deve rimanere negli Stati Uniti conformandosi alle sue politiche.  Questo non è uno stretto coordinamento, è vero e proprio controllo.

Anche gruppi della società civile come Public Knowledge (PK), che si erano espressi contro il controllo governativo di internet, sono tornati sui propri  passi dichiarando di temere che il disegno di legge vada a mettere in pericolo le garanzie per la cittadinanza, garantite dal controllo istituzionale.

Si applicano in questi casi due pesi e due misure:  si distingue tra il monitoraggio del governo in casa (quello buono) e il controllo governativo che coinvolge il resto del mondo (quello negativo).

In realtà questo tipo di approccio, sebbene debba considerare che oggi tutte le società operanti nel controllo della rete risiedano ancora negli Stati Uniti, ci pare quello migliore per due serie di motivi.

Il primo è che appellandosi a istituzioni transnazionali slegate dalle sovranità degli Stati non si fa altro che immergersi nell’ennesimo pantano giuridico e politico. Forse gli esperti di internet non hanno ben seguito la parabola di un’istituzione come l’Onu (per citare la più grande): nata in un determinato periodo storico, risulta oggi completamente bloccata; svolta la sua funzione si è rivelata un’enorme scatola vuota e appellarsi a organizzazioni di questo tipo rimane ideologia se non utopia.

Il secondo motivo è che lasciando fare a grandi organizzazioni intergovernative o tecniche, si rimane comunque vincolati a chi il potere riesce ad esercitarlo davvero. Per ora la più grande potenza rimane quella statunitense, che riuscirebbe  ad influenzare scelte e baricentro.

E’ proprio invece una rete legata alla sovranità degli Stati che potrebbe garantire multilateralismo e libertà. La possibilità di non dipendere strutturalmente da Washington è la migliore garanzia della libertà della rete. Ovviamente l’Europa dovrebbe anche in questo caso capire che il proprio futuro non può essere dentro il recinto di vincolanti alleanze atlantiche. Ma questa è un’altra storia.

 

 

 

*Matteo Pistilli è redattore di “Eurasia”, vicepresidente del Centro Studi Cesem e fondatore di “Informazione Scorretta”.

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LA NUOVA DOTTRINA DIFENSIVA CINESE: POCHE PAROLE MA CHIARE

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Con la solita puntualità cinese, lo scorso 15 aprile è stato pubblicato il nuovo Libro Bianco della Difesa. A distanza di due anni dalla presentazione del documento intitolato Difesa Nazionale della Cina nel 2010, lo Stato Maggiore della Repubblica Popolare Cinese presenta alla stampa e al mondo un testo senz’altro più snello e sintetico. In appena cinque capitoli, contro i dieci del precedente elaborato, il resoconto, dal significativo titolo L’impiego diversificato delle Forze Armate della Cina, va ad integrare – piuttosto che a modificare – tutti i principali motivi geostrategici stabiliti nel 2011. Stante la lettura del quadro politico mondiale sull’onda dell’idea-cardine in base alla quale l’accelerazione del processo di globalizzazione economica degli ultimi anni sta irreversibilmente ridefinendo gli assetti internazionali secondo nuovi criteri multipolari, lo Stato Maggiore cinese ribadisce l’incremento dei pericoli crescenti nel mondo, individuati in rinnovate forme di interventismo e di egemonismo. Rimarchevole importanza viene assegnata dunque alla regione Asia-Pacifico, definita come un’area fondamentale per lo sviluppo dell’economia mondiale e per l’interazione strategica tra le maggiori potenze. In generale, il processo storico delineato dall’apparato comunista cinese si muove secondo direttrici complesse, che da un lato incrementano le opportunità di crescita e pacificazione ma dall’altro presentano nuovi rischi connessi al percorso di ridefinizione della strategia statunitense nella regione e alla riemersione di vecchi rancori mai sopiti, come evidenziato dal crescendo di tensione con il Giappone per la disputa relativa alle Isole Diaoyu e dalla crisi a “corrente alternata” con l’illegittimo governo di Taiwan. Come previsto, dunque, la dottrina difensiva conferma una sostanziale continuità tra la visione strategica generale del Comitato Centrale precedente e quella del Comitato in carica anche per quanto riguarda l’approccio ai temi della difesa.

Nel corso degli ultimi “stati generali” del Partito Comunista Cinese nel marzo scorso, che hanno visto l’ufficializzazione del passaggio di consegne tra il presidente uscente Hu Jintao e il neoeletto Xi Jinping, la nomina di Chang Wuanquan alla direzione del Ministero della Difesa è apparsa forse imprevista. Durante il Congresso del novembre scorso, difatti, altri due alti gradi delle Forze Armate erano stati chiamati a comporre la vicepresidenza della Commissione Militare Centrale del Partito, su decisione del nuovo massimo responsabile dell’organismo difensivo, cioè lo stesso Xi Jinping. Si trattava di Xu Qiliang e di Fan Changlong. Il primo proveniva dall’Aviazione e si era messo in luce negli ultimi anni attraverso la proposta strategica dei “cieli armoniosi”, ovverosia un’applicazione dell’idea di “società armoniosa” (promossa durante il mandato di Hu Jintao) ai piani di sviluppo nel settore aerospaziale. Il secondo aveva appena lasciato il comando della Regione Militare di Jinan, la più piccola delle sette divisioni territoriali geostrategiche cinesi ma senz’altro una tra le più importanti, alla luce della sua posizione geografica (sul Mar Giallo proprio di fronte alla Penisola di Corea) e del rapido sviluppo di centri strategici come Qingdao, Weifang e Wendeng, che hanno incrementato le rispettive capacità aeronavali grazie all’ingresso in servizio di nuovi sottomarini a propulsione nucleare e nuovi cacciabombardieri JH-7A1, introdotti nel 2004 come sviluppo del vecchio modello JH-7 progettato alla fine degli anni Ottanta.

Invece, durante l’ultima Assemblea Nazionale del Popolo a marzo, è arrivata una inaspettata doppia promozione per il generale Chang Wuanquan, diventato in un solo colpo ministro della Difesa, in sostituzione del generale Liang Guanglie, e Consigliere Strategico di Stato al posto del diplomatico Dai Bingguo. Prima di entrare a far parte della Commissione Militare Centrale di Stato nel 2008, Chang Wuanquan è stato comandante della Regione Militare di Shenyang, composta dalle tre divisioni amministrative nordorientali di Heilongjiang, Jilin e Liaoning, e compresa tra il fiume Amur e le coste del Mar Giallo. Ancor prima aveva assunto per due anni il comando della complessa ed estesa Regione Militare di Lanzhou, che racchiude l’intera Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, le intere province di Qinghai, Gansu, Ninxia e Shaanxi, e parte del Tibet settentrionale. Sebbene questa regione militare sia completamente priva di sbocchi marittimi, il comando di Lanzhou è uno dei compiti più critici, poiché finalizzato ad affrontare e neutralizzare i pericolosissimi fenomeni terroristici e separatisti presenti nelle due regioni occidentali del Tibet e dello Xinjiang e a monitorare le delicatissime aree montuose di confine con il Pakistan (Karakorum), con l’Afghanistan (Wakhan), con il Tagikistan (Pamir), con il Kirghizistan (Tien Shan) e con il Kazakistan (Passo d’Alataw). È perciò indubbio che la preparazione sul campo del generale Chang Wuanquan sia chiaramente di altissimo profilo e sufficientemente completa di esperienze di comando sia in aree ad attività prevalentemente terrestre che in aree ad attività prevalentemente aeronavale.

Non è possibile quantificare con esattezza il preciso contributo fornito dal neoeletto ministro alla stesura del nuovo Libro Bianco della Difesa tuttavia, rispetto al documento pubblicato due anni fa, lo Stato Maggiore pone con più forza l’accento sulle cosiddette operazioni MOOTW (Military Operations Other Than War), evidenziando con dovizia di particolari l’impiego delle truppe nei più disparati teatri di intervento:

 

  1. L’antiterrorismo nelle regioni autonome occidentali, già da tempo integrato con le cosiddette “Peace Mission” condotte assieme a Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan nel quadro dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai
  2. L’antipirateria lungo le principali direttrici navali della Linea Marittima di Comunicazione (SLOC) Aden-Malacca
  3. Il peacekeeping condotto in concerto con le Nazioni Unite, che sino al dicembre 2012 aveva coinvolto militari e/o civili cinesi in nove missioni internazionali, tra cui quelle in Congo (MONUSCO), in Liberia (UNMIL), in Libano (UNIFIL), nel Sud Sudan (UNMISS) e in Darfur (UNAMID)
  4. L’intervento di supporto e assistenza alle popolazioni cinesi colpite da calamità naturali.

 

All’approfondimento del processo di modernizzazione e informatizzazione (xinxihua), annunciato dall’ex presidente Jiang Zemin nel 2002 e maturato pienamente nel decennio di Hu Jintao, è invece dedicato un minor spazio, probabilmente per due principali motivi: uno è di carattere organizzativo, nella misura in cui lo Stato Maggiore potrebbe sentirsi adeguatamente soddisfatto dal livello di sviluppo raggiunto nel settore informatico militare (dai supercomputer ai sistemi d’arma integrati sino alle acquisizioni conoscitive nell’ambito del conflitto simultaneo2); l’altro è di carattere politico, dal momento che Pechino non ha ovviamente alcuna intenzione di avvantaggiare i suoi competitori, mettendoli al corrente delle proprie innovazioni militari più importanti.

Confermato il ruolo politico delle Forze Armate, sottoposte in modo assoluto alla volontà del Partito Comunista Cinese, in forza del loro impiego nella fase di sviluppo socio-economico del Paese, nel mantenimento dell’ordine sociale e nella promozione della costruzione della pace mondiale, obiettivo ritenuto inseparabile da quello – su scala nazionale – della crescita e dello sviluppo del socialismo con caratteristiche cinesi.

 

 

 

Note

  1. A. Chang, Analysis: Shandong buildup – Part 1, Space War, 24 giugno 2008.
  2. Cfr. C. Jean, Militaria. Tecnologie e strategie, CSGE, Franco Angeli, Milano, 2009.

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ISLAMIZM PRZECIWKO ISLAMOWI – ROZMOWA Z PROF. CLAUDIO MUTTIM

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Leonid Sawin: Panie Profesorze, chcielibyśmy z Panem porozmawiać na temat fenomenu politycznego islamu i związanej z nim aktywności. Na początku, czy mógłby Pan go scharakteryzować i określić zasady jego działania?

Claudio Mutti: Termin „polityczny islam” został wprowadzony do użytku przez francuskiego orientalistę Oliviera Roy w jego książce L’Echec de l’Islam politique (Le Seuil, Paris 1992). Olivier Roy nazywa „politycznym islamem” to, co inny francuski orientalista Gilles Kepel nazywa „islamizmem” (Le Prophète et Pharaon. Aux sources des mouvements islamistes, Le Seuil, Paris 1984; Jihad : expansion et dйclin de l’islamisme, Gallimard, Paris 2000) i „radykalnym islamem” (The roots of radical Islam, Saqi, London 2005). „Polityczny islam”, „islamizm”, „radykalny islam”to po prostu „islamski fundamentalizm” i „islamski integryzm”- terminy związane z modernistycznymi tendencjami, którym początek dali „islamscy reformatorzy” i które potępione zostały przez przedstawicieli tradycyjnego islamu jako odchylenia. Tym niemniej, język polityczny Zachodu często posługuje się szeroko tymi terminami w ich nieprawidłowym znaczeniu, utożsamiając islamizm z islamem oraz prezentując wywody, odpowiadające schematowi „zderzenia cywilizacji”.

LS: Jak to się przejawia w UE i na Bliskim Wschodzie? Gdzie leży różnica wewnątrz tego ruchu?

CM:  Tak zwany „polityczny islam” wynika z teorii wahhabickiej i salafickiej. Wahhabizm czerpie swą nazwę od Mahometa ibn al-Wahhaba, który żył na Półwyspie Arabskim w XVIII wieku i według Henry’ego Corbina był „ojcem ruchu salafickiego na przeciągu wieków”. Sukcesorem ideologicznym salafizmu był Dżamal ad-Din al-Afgani, który w 1883 r. założył towarzystwo Salafija i w 1878 r. wstąpił do loży wolnomularskiej w Kairze. Jego uczniem i następcą był Mahomet Abdo, również będący wolnomularzem, który w 1889 r. został z nadania władz brytyjskich egipskim muftim. Głównym spadkobiercą tych szkół myśli jest Bractwo Muzułmańskie założone w Egipcie w 1928 r. przez Hasana al-Bannę. Obecnie Bractwo Muzułmańskie to ruch polimorficzny, reprezentujący pragmatyczny, realistyczny i polityczny wariant całej plejady związanej z ideologią wahhabicko-salaficką. Tym niemniej, określenie „salaficki” zazwyczaj wiąże się z ruchami o celach maksymalistycznych i z grupami ekstremistycznymi, mniej skłonnymi do taktycznych kompromisów, lub parającymi się działalnością paramilitarną lub terrorystyczną.

LS: W jaki sposób islamizm, rozumiany jako ruch radykalny, uciekający się do stosowania przemocy, ma się do islamu, państwa i aktorów współczesnej sceny politycznej?

CM: Wspomnieć należy, że angielski agent John Philby był głównym doradcą króla Ibn Sauda, uzurpatora protektoratu nad Miejscami Świętymi, który wahhabicką herezję uczynił oficjalną ideologią Arabii Saudyjskiej. Królestwo wahhabickie, historyczny sojusznik anglo-amerykańskich imperialistów, szczodrze finansuje i popiera grupy islamistyczne. Obecnie, grupy te znalazły sobie drugiego kasjera – emira Kataru. Al-Tani dał siedzibę Al-Dżazirze i otworzył kwaterę dla regionalnego sztabu USA w nadziei przejęcia roli lidera w świecie arabskim, stając się w ten sposób głównym konkurentem Arabii Saudyjskiej w koalicji proamerykańskiej. W ten sposób, kto płaci muzykantom, ten decyduje też o muzyce, która, koniec końców, jest muzyką amerykańską.

LS: Czy możliwe jest zorganizowanie sojuszu pomiędzy skrajnie islamistycznymi grupami a państwami? Mam na myśli nie tylko przykład Arabii Saudyjskiej, ale także udział Departamentu Stanu USA w tajnych operacjach i moderowanie islamu.

CM: Samuel Huntington pisze, że podstawowym problemem dla Stanów Zjednoczonych nie jest islamski fundamentalizm, ale islam jako taki. Zatem jeśli islam jest strategicznym wrogiem USA, islamski fundamentalizm może być jego taktycznym sojusznikiem. Teoria ta była zastosowana w Afganistanie, na Bałkanach, w Czeczenii, Libii i Syrii. Co się tyczy Departamentu Stanu USA, to w CV Abd al Wahida Pallaviciniego można przeczytać (A Sufi Master’s Message. Milan 2011, s. 11), że Departament Stanu organizował kursy dla przywódców muzułmańskich w Instytucie Polityki Migracyjnej w Waszyngtonie. Celem tych kursów jest stworzenie liderów muzułmańskich made in USA.

LS: Niepokoje społeczne i ruchy muzułmańskie na Bliskim Wschodzie i w Afryce Północnej – co Pan o nich myśli? Samir Amin uważa, że to stara Lunga Manus kapitalizmu, który obecnie pracuje w nowych warunkach bazarowych sieci, by walczyć z lewicowymi ideami sprawiedliwości etc.

CM: W świecie islamskim idee sprawiedliwości nie są ideami lewicowymi, lecz koranicznymi. Ponieważ islam nie daje się pogodzić z kapitalizmem, liberałom potrzebny jest islam „reformowany”, który ktoś nazwał „arabską wersją etyki kalwińskiej”. Wykonawcami tego projektu są ruchy wahhabickie i wszyscy ci, którzy chcą „reform demokratycznych” w świecie arabskim. Sponsorami tej manipulacji dokonywanej na świecie muzułmańskim są naftowe monarchie i emiraty Zatoki Perskiej, które tworzą Bliskowschodni Bank Rozwoju, który będzie kredytował kraje arabskie dla wsparcia ich transformacji w kierunku demokracji, oraz dla utrwalenia ich zależności finansowej. Między innymi w Egipcie, Bractwo Muzułmańskie zwróciło się do Międzynarodowego Funduszu Walutowego z wnioskiem o przyznanie kredytu wysokości 3,2 mld. dolarów.

LS: Wspomnijmy o tradycyjnym islamie – począwszy od zakonów sufickich i szyitów, związanych z Iranem, Irakiem, Libanem itd. Czy jest to antidotum na nowy postmodernistyczny islam, czy kolejna grupka, która stanie się celem dla nowo powstałych sekt i dla Zachodu?

CM: Na Półwyspie Arabskim i w Turcji, wahhabici i kemaliści zakazali działania zakonów sufickich, w złudnej nadziei, że mogą w ten sposób wykorzenić sufizm. W Libii, Tunezji i w Mali salafici i inni islamiści zniszczyli tradycyjne miejsca kultu i islamskie biblioteki, podobnie jak miało to miejsce w Mekce i w Medynie pod wahhabicką okupacją. Wspólnoty szyickie podlegają prześladowaniom ze strony reżymów wahhabickich, na przykład w Bahrajnie. Heterodoksyjne grupy i rządy atakują tradycyjny islam we wszystkich jego formach – zarówno sunnitów, jak i szyitów, uznając je za poważne przeszkody dla swojej wywrotowej działalności.

LS: A jakie jest przeznaczenie Izraela? Wywiad USA prognozuje, że Izrael przestanie istnieć w ciągu najbliższych 30 lat. Czy wzrost islamu przedstawia dla niego realne zagrożenie, czy też USA dokonają przeformułowania swoich stosunków z tym państwem, mających w ważnym regionie krytyczne znaczenie?

CM: Nowa i ambitna strategia USA, którą Obama przedstawił w swoim wystąpieniu w Kairze, nakierowana jest na ustanowienie hegemonii USA w świecie arabskim i na Bliskim Wschodzie za zgodą samych Arabów. Dla tego celu należy zgromadzić państwa arabskie w wielkim froncie przeciw Iranowi, który wyrasta na głównego wroga w tej strefie, dlatego też państwa arabskie powinny współpracować z reżymem syjonistycznym. Muszą one zatem zadeklarować swoje poparcie dla reżymu syjonistycznego, który w zamian za to powinien zezwolić na utworzenie nic nieznaczącego tworu palestyńskiego.

LS: Prócz tego wszystkiego, widzimy dobry przykład współistnienia państwa i religii, tak jak w przypadku Indonezji i idei ruchu umiarkowanych. Jak Pan uważa, czy idea fundamentalizmu i stosowania przemocy jako siły zewnętrznej zależy od regionu, etnosu, interpretacji Koranu i fatw, czy od dobrobytu społecznego?

CM: Zgodnie z doktryną islamską, polityka jest częścią religii; państwo zbudowane jest na religijnych podstawach i ma cele religijne, tak aby, jak powiedział imam Chomeini, „zarządzać środkami dla wypełnienia praw koranicznych”. Co się tyczy wspólnot muzułmańskich żyjących w państwach niemuzułmańskich, obowiązek uczonych islamskich sprowadza się do tego, by znaleźć takie rozwiązania, które odpowiadając wymogom prawa islamskiego, pozwoliłyby tym wspólnotom współistnieć z niemuzułmanami. W Europie, gdzie obecność dużej liczby muzułmanów niedawno zaistniałym faktem, praca ta dopiero się zaczyna.

LS: Na zakończenie, jaka jest Pańska prognoza na najbliższą przyszłość – jak funkcjonował będzie ruch politycznego islamu, rozumianego we wszystkich jego aspektach, w szczególności w UE?

CM: Antyislamskie zjawisko znane jako islamizm zależy w dużym stopniu od poparcia reżymu wahhabickiego, pozostającego w sojuszu ze Stanami Zjednoczonymi. Dlatego można się spodziewać, że „polityczny islam” będzie wykorzystywany w zgodzie z potrzebami strategii USA, na przykład w Algierii, która, co bardzo prawdopodobne, będzie następnym celem francuskiego subimperializmu, zależnego od USA. Co się tyczy Unii Europejskiej, doświadczenie uczy nas, że służby specjalne USA i Izraela są ekspertami w przedmiocie manipulowania grupami ekstremistycznymi, dlatego nie da się wykluczyć, że grupy salafickie mogą zostać użyte, by szantażować rządy europejskie.

 

 

Z prof. Claudio Muttim rozmawiał Leonid Sawin (czasopismo „Геополитика”)

(tłumaczenie z języka rosyjskiego: Ronald Lasecki)

Tłumaczenie wywiadu ukazało się na portalach geopolityka.org oraz Xportal.pl

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LA REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN TRA ORDINAMENTO INTERNO E POLITICA INTERNAZIONALE

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Sabato 27 aprile alle ore 15:30, nella sala circoscrizionale di via Pietro Pasquali 5 a Brescia, verrà presentato al pubblico il libro “La Repubblica Islamica dell’Iran tra ordinamento interno e politica internazionale“.

 

Intervengono:

Claudio Mutti – Direttore di “Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici”.

Alì Reza Jalali Autore del libro.

Jafar Rada – Associazione Islamica ” Imam Mahdi”.

Alessandro Iacobellis – Esperto in questioni mediorientali.

 
L’incontro è organizzato dall’associazione “Nuove Idee” e dalla rivista di studi geopolitici “Eurasia”.

 
Ingresso libero.

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LA TEORIA DEL COMPLOTTO IN AMERICA LATINA: SPUNTI PER INTERESSANTI RIFLESSIONI

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Di seguito riportiamo la traduzione di parte di un’intervista rilasciata da Percy Francisco Alvarado Godoy (1) dal titolo Confermando un’ipotesi: Chavez è stato assassinato dalla CIA (2) e parte di un articolo dello stesso Godoy, pubblicato sul proprio blog e dal titolo Non solo si cerca di assassinare Maduro in Venezuela (2). Tali contributi non vogliono “imporre” al lettore una visione complottista delle dinamiche che interessano l’America Latina, ma perlomeno suscitare quesiti ed una visione critica e attenta di ogni singolo evento che avviene in quello o in qualsiasi altro continente. Non sempre esistono complotti (ovviamente), ma spesso si verificano eventi di dubbia “spontaneità”.

Nell’intervista rilasciata da Godoy al periodico venezuelano El Correo del Orinoco l’oggetto è la “guerra bioterrorista” ossia l’utilizzo “bellico” di armi non convenzionali, ma biologiche. Parliamo, per intenderci, delle armi contestate all’Iraq di Saddam Hussein o all’attuale regime siriano. Per Godoy “esistono molti antecedenti che possono dimostrare la mancanza di etica militare da parte degli Stati Uniti, non solo nella fase di investigazione e prova delle armi biologiche in altre nazioni, ma contro i suoi stessi cittadini. […] [esistono] vari esempi che dimostrano come il Pentagono abbia convertito Fort Detrick nel suo centro per lo sviluppo della ricerca di armi biologiche:

1947 – la CIA iniziò a studiare l’Acido Lisergico (LSD) per utilizzarlo come arma biologica contro esseri umani. Nel 1960, il Gruppo di Assistenza Principale dell’intelligence dell’Esercito (ACSI), autorizzò l’impiego dell’LSD in Europa e nel Lontano Oriente, per valutare le reazioni negli umani. Entrambe i progetti furono codificati rispettivamente come Terza Opportunità e Cappello a Fungo [o Bombetta].

1953 – la CIA iniziò il progetto MK ULTRA, il quale si estese durante 11 anni di ricerca, essendo concepito per produrre, provare droghe e microrganismi per controllare la mente e modificare il comportamento degli esseri umani senza il consenso degli stessi.

1965 – la CIA ed il Dipartimento di Difesa iniziano il Progetto MK SEARCH, con la finalità di manipolare la condotta umana tramite l’uso di droghe psichedeliche.

1966 – la CIA inizia il Progetto MK OFTEN, diretto a testare gli effetti tossicologici di alcune droghe negli uomini e negli animali.

1966 – il Pentagono ha rotto varie ampolle contenenti il batterio Bacillus Sutilis nella rete di ventilazione della metropolitana di New York, esponendo più di un milione di civili deliberatamente.

1967 – la CIA e il Dipartimento di Difesa implementarono il progetto MK NAOMI, successore  dell’MK ULTRA, disegnato per mantenere, riservare e testare le armi biologiche e chimiche.

1970 – la Divisione di Operazioni Speciali in Fort Detrick, sviluppò tecniche di biologia molecolare per produrre retrovirus (VIH).

1970 – la CIA e il Pentagono svilupparono “armi etniche” designate all’eliminazione di gruppi etnici specifici, suscettibili per le proprie peculiarità genetiche e per le variazioni nel DNA.

1977 – L’Assemblea del Senato, nella Commissione Investigativa Scientifica e di Salute, confermò la contaminazione deliberata da parte del Pentagono e della CIA, di 239 popolazioni con agenti biologici, tra il 1949 e il 1969, fondamentalmente a San Francisco, Washington, D.C., Centro-Ovest degli Stati Uniti, Città di Panama, Minneapolis e St. Luis.

1987 – il Dipartimento di Difesa ammise la ricerca e lo sviluppo di agenti biologici in 127 laboratori e università in giro per gli Stati Uniti.

1990 – Somministrazione a Los Angeles a più di 1500 bambini di colore e ispanici di sei mesi d’età di un vaccino “sperimentale” del morbillo, non autorizzato dal CDC [Centers for Disease Control and Prevention]

1994 – Si scoprì, mediante una tecnica chiamata “inseguimento dei geni”, da parte del Dr. Garth Nicolson, scienziato del Centro Tumorale MD Anderson di Houston, che i soldati della missione Tormenta del Deserto, furono infettati con una catena alterata di Microplasma Incognitus, un batterio normalmente utilizzato nella produzione di armi biologiche, il quale contiene un 40% della proteina del virus dell’AIDS. Durante il 1996, si ammetterà che circa 20000 soldati furono infettati.

1995 – il Governo americano ammise di aver offerto ai criminali di guerra e scienziati giapponesi, soldi e immunità dalla persecuzione in cambio dei dati della loro ricerca sulla guerra biologica.

1995 – Il Dr. Garth Nicolson rivelò l’evidenza che gli agenti biologici usati durante la Guerra del Golfo furono prodotti in Houston (Texas) e Boca Raton (Florida) e testati sui prigionieri nel Dipartimento Carcerario del Texas.

1996 – il Dipartimento di Difesa ammise che soldati della missione Tormenta del Deserto furono esposti ad agenti chimici, ciò portò 88 membri del Congresso a firmare una carta, un anno dopo, esigendo un’indagine sull’uso delle armi biologiche nella Guerra del Golfo.

Cuba è stata la principale vittima del terrorismo e in particolar modo della guerra biologica. […] Mentre il Pentagono utilizza la guerra biologica contro le forze attive dei nemici, la CIA esegue principalmente azioni selettive contro persone o azioni segrete per provocare il caos economico di nazioni alle quali in molti casi gli Stati Uniti non hanno dichiarato guerra […] la CIA si dedica all’esecuzione di piani bioterroristici specifici.[…] già nel 1987 sei milioni di persone furono assassinate come risultato delle operazioni coperte della CIA […] Nella fattispecie del cancro si sa che, dal 1975, si è ampliato Fort Detrick come installazione dove esiste una sezione speciale all’interno del Dipartimento Virus del Centro per la ricerca in materia di Guerra Biologica, conosciuta come “Installazione Fredrick per la Ricerca del Cancro” […] Altro elemento sullo sviluppo della guerra biologica da parte del governo nordamericano, con particolare riferimento al cancro, lo da la testimonianza del Dr. Maurice Hilleman, prestigioso ricercatore nei veccini dei Laboratori Merck, dome ammette che i suoi laboratori produssero vaccini contaminati con leucemia e virus del cancro nella decade degli anni ’70, i quali furono somministrati deliberatamente a cittadini sovietici […] La forma di induzione più efficace e meno rintracciabile potrebbe essere […] mediante l’ingerimento di alimenti o per via aerea, ottenendo un maggior risultato mediante la ripetizione pianificata di questo processo. […] Il Presidente Hugo Chavez scoprì nel dicembre 2011 il vaso di Pandora nell’esporre i suoi sospetti sull’inusuale malattia per cancro dei vari presidenti e personalità progressiste latinoamericane negli ultimi anni, tra le quali si segnalavano: lo stesso Chavez, la presidentessa argentina Cristina Fernandez, il presidente paraguayano Fernando Lugo, la presidentessa brasiliana Dilma Rousseff e l’ex presidente brasiliano Luiz Inacio da Silva tra gli altri. […] Altri allo stesso modo hanno indicato la CIA quale colpevole. Il periodico inglese The Guardian ha fatto eco a questa ipotesi […] altri media iraniani e di altre nazioni hanno aumentato i propri dubbi sulla fatidica morte del leader bolivariano.[…] Per dimostrare questa tesi si richiede un serio studio dei campioni conservati da parte dei più eminenti scienziati non compromessi con questi programmi o sperare, almeno, che qualcuno dei coinvolti, se non viene assassinato prima, porti alla luce la verità. È realmente una questione di tempo.”

Ed ora veniamo al secondo estratto che focalizza l’attenzione sulla situazione venezuelana nel dopo Chavez. Qui Godoy identifica un piano preparato da alti funzionari del governo statunitense, dalla CIA, altri governi latinoamericani, gruppi antibolivariani con base a Miami e dai gruppi terroristi anticubani esistenti sempre a Miami, con oggetto la destabilizzazione della Repubblica Bolivariana del Venezuela. “[…] Questo piano contempla ugualmente la scomparsa fisica di determinati membri della destra come Henrique Capriles, Antonio Ledezma ed altri, accusando le forze bolivariane di questi fatti di assassinio selettivo. “[…] l’obbiettivo è quello di creare il caos costituzionale, promuovere una possibile guerra civile o, in ultima ipotesi, l’intervento militare di forze esterne sotto la tutela dell’ONU […]”. L’autore elenca un cospicuo numero di persone e organismi coinvolti in tale missione e non solo presenti sul territori statunitense, ma dislocate in gran parte dell’America Latina, Europa e Israele. “[…] fondamentalmente i piani previsti dalla CIA, il Mossad e il resto degli implicati, con l’assassinio selettivo di quadri della direzione e altre personalità, mirano al sabotaggio economico e alla generazione di guerriglie e altre manifestazioni di disobbedienza sociale.

Sulla base di quanto sin qui riportato, si lascia al lettore ogni conclusione finale e parziale. Il tutto può esser visto come un eccesso di sospetto o un insieme di congetture forzate della realtà. Perlomeno, comunque vada, un minimo di dubbio viene creato e resta al lettore ogni approfondimento su fonti e fatti storici riconducibili alle affermazioni di Percy Francisco Alvarado Godoy. Tuttavia, tralasciando l’oggetto di questo stesso approfondimento proposto, l’invito di fondo è quello a non prendere ogni informazione come obbiettiva e reale, ma da analizzare e vagliare con l’ausilio di altre fonti ed altri fatti (che se pur distinti possono celare un forte nesso con l’oggetto della ricerca).

 

 

 

* William Bavone è Segretario Scientifico e responsabile dell’area latinoamericana del CeSEM (Centro Studi Eurasia Mediterraneo) e autore del saggio “Le Rivolte Gattopardiane – analisi e prospettive del bacino del Mediterraneo”

 

 

 

(1) Percy Francisco Alvarado Godoy (Guatemala, 1949) è laureato in Scienze politiche. Attualmente lavora come specialista in commercio internazionale per il governo cubano oltre ad essere scrittore di saggi d’inchiesta. Per 29 anni ha agito come Agente della Sicurezza Cubana lavorando da infiltrato nell’ala terroristica della Fondazione Nazionale Cubano-Americana (Miami – U.S.A.).

(2) Per una lettura completa http://percy-francisco.blogspot.it/2013/04/confirmando-una-hipotesis-chavez-fue.html

(3) Per una lettura completa http://percy-francisco.blogspot.it/2013/04/no-solo-se-busca-asesinar-maduro-en.html

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