Quantcast
Channel: finalandia nato – Pagina 65 – eurasia-rivista.org
Viewing all 107 articles
Browse latest View live

L’ARGENTINA E IL PROBLEMA DELL’INFLAZIONE

$
0
0

In Argentina uno dei temi caldi è certamente rappresentato dall’inflazione galoppante, che sta caratterizzando l’economia del Paese.

La questione inflazionistica è recentemente salita alla ribalta principalmente attraverso due episodi: innanzitutto il provvedimento di censura adottato dal Fondo Monetario Internazionale nei confronti di Buenos Aires; secondariamente la figuraccia di cui si è reso protagonista ultimamente il Ministro dell’Economia argentino.

Per quanto riguarda la prima questione, il 2 febbraio scorso il FMI ha adottato una dichiarazione di censura nei confronti di Buenos Aires, accusandola di fornire dati poco accurati e non veritieri riguardo all’inflazione. Ad occuparsi di tali statistiche nel Paese sudamericano è l’ Indec (Instituto Nacional de Estadísticas y Censos), il quale ha calcolato per il 2012 un’inflazione del 10,8%; invece i dati proposti da alcune agenzie private o enti internazionali attestano l’inflazione mediamente intorno al 25%.

Tale divario ha lentamente generato l’attuale messa in discussione della credibilità dei dati forniti dall’istituto e quindi l’accusa di mancanza di trasparenza in capo al governo argentino da parte del FMI. Quest’ultimo ha infatti intimato al Governo di Cristina Kirchner di correggere al più presto le inesattezze, non oltre il 29 settembre 2013. (1)

Si tratta della prima tappa di un processo di sanzione all’interno dell’organizzazione internazionale; un processo che, se non vedrà un celere ravvedimento da parte delle autorità argentine, non farà che aggravare il conflitto tra FMI e Argentina, potendo potenzialmente sfociare nell’espulsione del Paese dall’organizzazione.

La risposta della Kirchner non è stata affatto docile; dalla sua pagina twitter ha tuonato contro il FMI, accusandolo di non essere stato in grado di prevedere le crisi economiche degli anni passati, né di aver sostenuto l’Argentina durante la sua gravissima crisi del 2001.

Da Buenos Aires non sembrano quindi volersi piegare facilmente ai dettami provenienti da Washington; a questo proposito sembra che le lezioni del passato siano state recepite. La Kirchner afferma infatti che negli anni ’90, il suo Paese sia stato “alunno modello” del Fmi, mettendone in campo le politiche di privatizzazione generalizzata e non ottenendo da tale zelo altro che la distruttiva crisi economica del 2001.

Al contrario, la Kirchner sembra voler dare un taglio netto al passato di subordinazione ai dettami stranieri, puntando da più direzioni verso un approccio più strettamente nazionalista. In particolare ciò emerge da due episodi noti: la nazionalizzazione dell’impresa petrolifera Ypf e il contrasto con Londra per riottenere le Malvinas.

Infatti, nel 2012 Buenos Aires ha deciso di nazionalizzare la Ypf, suscitando forti polemiche; tale impresa petrolifera era stata privatizzata negli anni ’90, seguendo le indicazioni di stampo neoliberista del Fmi. Nel corso degli anni 2000, però, la produzione di gas e petrolio è notevolmente diminuita, non riuscendo a soddisfare il fabbisogno interno di tali risorse e quindi causando un incremento notevole delle importazioni argentine di tali beni. Nel 2011 le quote di tali importazioni sono addirittura raddoppiate rispetto all’anno precedente. (3) Alcuni dati resi noti dalle autorità statali sono anche più significativi. Essi attestano infatti per quanto riguarda il petrolio il passaggio da 110 milioni di barili estratti nel 2009 a 10 milioni solo due anni dopo; invece, relativamente all’estrazione di gas nei medesimi anni (2009-2011), il passaggio è stato dai 533mila metri cubi a 441mila. (4)

L’Argentina ha deciso di non rimanere a guardare e la scelta di nazionalizzare la propria industria petrolifera appare orientata da ragioni prettamente economiche, per altro già esperita da molte altre nazioni.

Un aspetto invece più ideologico del nazionalismo, ha preso forma con la crisi argentino-britannica rispetto alla questione delle Malvinas-Falklands.

Ad ogni modo, che si tratti di motivate ragioni economiche orientate al benessere del Paese o che se ne voglia preferire una lettura ideologicamente connotata, certo è che le scelte economiche e politiche della Presidentessa argentina rappresentano un punto di rottura col passato di subordinazione al neoliberalismo imposto dal mercato e incarnato nel Fmi. È necessario attendere le prossime scelte di Cristina Kirchner per comprendere se sarà possibile un dialogo con l’organizzazione o se si arriverà davvero alla rottura.

A svantaggio di Buenos Aires, rimane però l’evidenza di un’economia problematica, dominata dall’incertezza, che il Governo non sembra volere o sapere affrontare.

Emblematica è la figura pessima di cui si è reso protagonista Hernan Lorenzino, attuale Ministro dell’Economia.

Ci si riferisce a un’intervista effettuata da un televisione greca a Lorenzino, da cui emerge la sua sconcertante mancanza di preparazione e risposte concrete.

La giornalista, consapevole della rilevanza e della problematicità dell’inflazione nell’economia attuale dell’Argentina, si rivolge in maniera molto diretta al Ministro, domandandogli di quanto sia l’inflazione in Argentina in quel momento.

Lorenzino mostra immediatamente la sua sorpresa e tenta di aggirare la questione, affermando che le uniche statistiche attendibili in Argentina sono quelle dell’INDEC  (Instituto Nacional de Estadisticas y Censos), istituto che dipende dal Ministero dell’Economia.

Solo in seguito all’insistenza della giornalista, Lorenzino attesta con estrema incertezza il tasso d’inflazione al 10,2%, senza dare ulteriori spiegazioni.

La situazione però precipita quando viene affrontata la polemica che oppone ormai da oltre un anno il Fondo Monetario Internazionale e Buenos Aires. La giornalista fa riferimento alle sanzioni imposte da Washington “per la statistiche erronee” comunicategli dall’Indec e chiede al Ministro come abbiano intenzione di agire.

A questo punto il protagonista di questa pessima figura tenta con imbarazzo di rispondere in maniera confusa, balbetta e poi chiede una pausa, ma i microfoni rimangono accessi. L’intervista si interrompe qui. Si sente chiaramente l’argentino affermare “Me quiero ir”, perché in Argentina “parlare di statistiche sull’inflazione è complesso”.

Il problema nasce quando a rilasciare tali dichiarazioni è il Ministro dell’Economia. Chi altro dovrebbe affrontare, comprendere, risolvere tali questioni?

Interviene infine un assistente del Ministro, il quale si premura di spiegare all’incredula intervistatrice le ragioni di una tale brusca interruzione; il fatto è che in Argentina di inflazione non si parla, nemmeno coi media argentini.

La giornalista però sa che non è così. Per meglio dire, il Governo non ne parla; ma l’Argentina, gli argentini sì. “ […] Se si va per strada tutti dicono che c’è un’inflazione molto alta, tutti ne parlano; non è possibile che io non lo chieda. È come se non facessi bene il mio lavoro”.

Tali preoccupazioni, non sembrano però affliggere Lorenzino, né essere al primo posto nell’agenda della Presidentessa Kirchner.

A questo proposito, Nelson Castro, giornalista argentino, durante una puntata del suo programma televisivo El juego limpio, affronta la questione della figuraccia del Ministro Lorenzino, scagliandosi più che contro il protagonista, direttamente contro il Capo del Governo Cristina Kirchner.

Innanzitutto Castro ridicolizza Lorenzino, evidenziando come ci sia un lato positivo in questa vicenda e cioè che finalmente gli argentini sanno chi è il Ministro dell’Economia e che non sa di quanto è l’inflazione. Dunque, vista l’inutilità di un tale funzionario, perché non realizzare il desiderio di Lorenzino e permettergli di andarsene?!

Il giornalista non si ferma qui e rincara la dose, proponendo alla Kirchner di cogliere l’opportunità per assumere un vero Ministro, perché ne ha bisogno, come tutti hanno bisogno di aiuto per comprendere le cose che non conoscono.

L’argentino conclude affermando che “l’economia dell’Argentina è a bordo di un Titanic e purtroppo lei, che è il capitano […] di questo Titanic, è convinta che l’iceberg non esista”. (5)

Inoltre, l’economia argentina vive una seria restrizione alle importazioni a causa del blocco dell’acquisto di dollari, che sta mettendo in ginocchio parecchie industrie locali.

La scelta di impedire l’acquisto di dollari è stata presentata dal governo come una misura volta a combattere l’evasione fiscale e la fuga di capitale verso l’estero, ma è fonte di dure critiche, sia per la messa in dubbio della sua efficacia, sia per gli effetti collaterali che provoca.(6)

Buenos Aires, infatti, si trova ora a dover fronteggiare un attivo mercato parallelo del dollaro, contraddistinto da forti divergenze col tasso di cambio ufficiale. Si registra cioè un divario di circa 3 punti tra i due tassi; se sul mercato nero il dollaro viene cambiato a 7,93 pesos, il cambio ufficiale si ferma invece a soli 4,94 pesos.(7)

Lo scenario dell’economia argentina appare quindi caratterizzato dalla mancanza di una direzione chiara, peggiorata dalla poca definizione degli obiettivi perseguiti dal governo, come rilevato dall’Istituto di Cooperazione Economica Internazionale e dal suo Presidente Alfredo Somoza: “[…] Se avessero voluto solo bloccare o controllare la fuga di capitali verso altri stati, avrebbero avuto altri strumenti per farlo. Anche di tipo repressivo, come il controllo delle frontiere o delle banche stesse. Queste misure nuove invece colpiscono tutto e tutti e non si capisce a cosa servano”.(8)

In Argentina convivono quindi un mercato nero di valuta e statistiche inattendibili sull’inflazione e sul Pil. Un primo passo per la soluzione di tali problemi e la prevenzione di una generalizzata crisi economia potrebbe essere una corretta informazione dei tecnici e la sintonizzazione delle riforme economiche e amministrative con i problemi reali del Paese e della sua popolazione, che vede e vive la costante erosione del proprio potere d’acquisto e il conseguente abbassamento dei propri standard di vita.

 

 

 

* Rachele Pagani, laureanda in Diritti dell’uomo ed etica della cooperazione internazionale presso L’Università degli Studi di Bergamo

 

 

 

(1) Il Fondo monetario censura l’Argentina: non ha fornito dati accurati sull’economia, Luca Veronese, http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-02-02/fondo-monetario-censura-argentina-185355.shtml?uuid=AbgCTfQH

(2) Fmi, censura all’Argentina: corregga i dati, http://www.avvenire.it/Economia/Pagine/fmi-censura-argentina.aspx

(3) La nazionalizzazione dell’YPF: le ragioni degli argentini, di Mark Weisbrot, da The Guardian, http://temi.repubblica.it/micromega-online/lanazionalizzazione-dellypf-le-ragioni-degli-argentini/

(4) Nazionalizzazione YPF. Quale scenario si apre ora per l’Argentina?, Matteo Villa, http://www.meridianionline.org/2012/05/25/nazionalizzazione-ypf-argentina/

(5) Nelson Castro comenta el papelon del Ministro, http://www.youtube.com/watch?v=B0c-v40W10k

(6) e (8) Argentina, fra dollari e mercato nero, http://www.eilmensile.it/2012/06/11/argentina-fra-dollari-e-mercato-nero/

(7) Argentina, mercato a 3 dollari dalla realtà: situazione economica rischiosa, http://pangeanews.net/economia/argentina-mercato-a-3-dollari-dalla-realta-situazione-economia-rischiosa/

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

“COMO MÁXIMO UNIÓN EUROPEA DURARÁ 10 AÑOS MÁS…”

$
0
0

“Como máximo Unión Europea durará 10 años más…”

Entrevista de “VESTI” con el conocido politólogo ruso, presidente del Comité Islámico de Rusia Geidar Dzhemal

 

Ves.lv, 29-05-2013

 

Traducido del ruso por Arturo Marián Llanos

 

Geidar Dzhemal es uno de los expertos más populares en los canales de televisión rusos. Su opinión es interesante no solamente cuando la noticia sobre algún acontecimiento aún es candente y la polvareda de las discusiones todavía no ha reposado sobre las páginas de los periódicos en papel y los portales de internet. Otra cosa es más importante – los pronósticos políticos de Geidar Dzhemal a menudo se cumplen de una manera sorprendente. También ahora nos describe la futura Europa que nos cuesta comprender, en la que desaparecerá la corrección política, se esfumará el compromiso de la élite ante las amplias capas bajas y se perfilarán los contornos de la nueva organización, parecida al feudalismo con los prejuicios estamentales y elementos de presión violenta por parte de las fuerzas de seguridad. Todo ello, claro, acompañado de alto desarrollo tecnológico.

 

 

Larisa Pérsikova Nika Pérsikova

 

Hace 14 años, cuando Vladimir Putin acababa de ser elegido para su primer mandato y para la mayoría de la población no era más que heredero de Yeltsin, Geidar Dzhemal estuvo en Riga. Le entrevistamos y nos dijo una cosa muy interesante. “Putin llevará ahora una política patriótica, se pondrá a restaurar el estado y la dignidad nacional del pueblo.” “¿Por qué?” – preguntamos sorprendidas. Ya que por entonces el presidente de Rusia tenía clara fama de liberal. “Cualquier hombre que accediera ahora al cargo de presidente de Rusia, tendría que hacerlo, porque el tiempo ha llegado.”

Pasaron algunos años y en 2004 volvimos a entrevistar a Geidar Dzhemal. En esta ocasión también dijo una cosa significativa: si los EE.UU. quieren “sondear” a Rusia, montarán una provocación en Osetia del Sur o en Abjasia. Cuatro años después de esta conversación tuvo lugar la guerra georgiano- osetia.

De lo que ocurre en el mundo hoy, sobre los nuevos puntos calientes y peligros, del lugar que ocupa Letonia en los enfrentamientos entre el Oeste y el Este, Norte y Sur, conversamos ahora con el conocido politólogo.

 

Nueva Restauración

 

– Señor Dzhemal, recientemente en las elecciones en Gran Bretaña obtuvo éxito el partido de la independencia, que propone la salida de Gran Bretaña de la Unión Europea. En Italia y en España también se habla de la posible salida de estos países de la eurozona. En su opinión ¿hoy por hoy la Unión Europea es un sistema sólido?

– En primer lugar la Unión Europea fue construida según los moldes estadounidenses. Es decir, no cómo lo querían los europeos y por lo que lucharon durante varios siglos. Porque, en realidad, la unión europea ya existía en el siglo XIX. Porque toda Europa estaba gobernada por el concilio de las monarquías, entrelazadas por las relaciones de parentesco. Como se sabe, todas las monarquías clave, salvo Francia republicana, donde los Borbones fueron apartados, y Bonaparte perdió el imperio tras una guerra desastrosa – toda la demás Europa sencillamente estaba gobernada por parientes – primos hermanos y sobrinos.

La Unión Europea actual, que fue creada para sustituir aquella idea de la unidad, por la que en su tiempo luchó Napoleón y la que tenía en mente el Führer del Tercer Reich, esa Unión Europea no se corresponde en absoluto con el sueño histórico de los europeos. Porque existe como el sistema que sirve a la OTAN. Y la OTAN es el yugo que les fue colocado a los europeos después de la derrota de Europa en 1945. Es decir, que la OTAN es la forma que representa la pérdida de soberanía y el sometimiento de Europa por los Estados Unidos. Es por lo que actualmente la Unión Europea con respecto a los Estados Unidos está obligada a cumplir un papel servicial, incompleto.

Recordaré que los EE.UU. ejercen el papel de gendarme internacional desde hace tan solo un par de generaciones. Y que antes de la Segunda Guerra Mundial aunque ya se trataba de un país poderoso, que estaba entre los cinco primeros de Occidente, no era la potencia principal. Y antes de la Primera Guerra Mundial era un país con el estatus de Australia actual. Es decir, que la importancia de los EE.UU., su papel de superpotencia había aumentado increíblemente a costa de la derrota de Europa en 1945. Y a costa de la aparición del sistema bipolar, que sencillamente fue una confabulación entre Moscú y Washington, en última instancia un juego, además con una sola portería.

 

– Pero el mundo bipolar ya no existe, la Unión Soviética como superpotencia ha desaparecido…

– Y actualmente el Occidente de nuevo se acerca al umbral de la crisis cuyas proporciones, posiblemente, superen, los resultados de la Primera Guerra Mundial. Y, por cierto, la destrucción de la Unión Soviética, que a primera vista parece la victoria de Occidente, representa en realidad un durísimo golpe contra el orden mundial. Porque justamente la Unión Soviética proporcionaba a Occidente un seguro y se colocaba como un obstáculo en el camino de los

movimientos revolucionarios que podían socavar y posiblemente derrumbar este orden mundial (Che Guevara, por ejemplo, era perfectamente consciente de este papel de la URSS – N. del T.). O sea que la Unión Soviética de hecho no aprovechó a toda una serie de circunstancias favorables para destruir el sistema capitalista occidental – después de Vietnam y cuando comenzó a derrumbarse la estructura de la OTAN en Europa – junto con los acontecimientos de 1968 en Francia, la revolución de 1974 en Portugal – todo ello fue bloqueado por la URSS. (Hacia 1974 quedaba claro que la URSS había ganado la “guerra fría”, pero el Politburó se asustó ante tal perspectiva y no quiso forzar la victoria. Por un lado, los dirigentes soviéticos temían que la situación mundial derivara en el caos y, por el otro, no querían quedarse a solas con China. Posteriormente el segmento soviético de la corporatocracia mundial y parte de la nomenklatura dirigente pasaron de la “convergencia” con Occidente a la rendición consciente, abandonando todo compromiso ideológico – N. del T.). Y en actualidad la Unión Soviética ha desaparecido, desestabilizando la situación mundial general. Por lo que en mi opinión a Occidente le espera una reestructuración muy seria. Incluido el reformateo de la Unión Europea que difícilmente podrá sobrevivir en su forma actual…

El caso es que ahora el Occidente y todo el mundo vive la fase inicial de la transición de una formación socio-política a otra. Porque se ha acabado la era del, digamos capitalismo financiero, basado en la división entre la producción y el consumo a nivel global. Cuando en una parte del mundo se concentra el consumo, y en otra la producción barata. Todo ello organizado y protegido por el sistema del crédito especulativo. Esa forma del capitalismo financiero, de consumo, está agotada y se acaba. Mientras tanto, los Estados Unidos como el país, basado en el capitalismo liberal, ejerce de gendarme mundial. Los EE.UU. por lo tanto representan un obstáculo para dar el siguiente paso histórico. Hacia una nueva formación político-económica que se basará en otros principios totalmente distintos.

 

– ¿De qué formación se trata? ¿Cuál será su base?

– Se trata de la economía postconsumista, que se basará en el retorno de algunas prácticas propias de las formaciones anteriores. En particular ciertas formas del neofeudalismo y la coacción de las personas, sacada fuera de la esfera económica.

 

– ¿O sea que volvemos a la Edad Media?

– Se puede decirlo así. Pero en una nueva etapa, de alta tecnología. En resumen, los Estados Unidos representan un obstáculo para esta transición histórica y serán barridos por esta ola histórica.

 

– ¿Y cómo se imagina la transformación de la Unión Europea, cómo será la nueva Europa?

– Europa se liberará del papel de gendarme de los EE.UU. Lo cual no significa que Europa de nuevo se descomponga en estados nacionales y pierda la unidad. En esa época postliberal y postconsumista Europa de nuevo será transformada en un espacio unido, pero ya sin el factor estadounidense. Por así decir, sin las consecuencias del año 1945. Ya ahora en Europa se está planteando este tema y creo que dentro de 10 años en general se hará una revalorización de los años 1930-40 del siglo XX y la corrección política, relacionada con la derrota de Europa en 1945, con Núremberg será abandonada. Esa tendencia poco a poco, subterráneamente comienza a dominar en el espacio europeo.

Segundo. Y casi lo más importante. La Europa del mañana no tendrá nada que ver con la Europa de los años 1960-70. En primer lugar porque la élite europea en el espacio posterior al de la UE, me refiero al espacio de Europa unida posterior a la descomposición de la UE, se liberará de todos los compromisos sociales ante las amplias capas populares. Estos compromisos fueron asumidos cuando existía la URSS. Durante la etapa cuando los movimientos sindicales, obrero y comunista ejercían una fuerte presión. Durante la etapa posterior a 1945 cuando los principales partidos de Europa fueron el partido comunista francés y el partido comunista italiano. Mientras que los liberales de Gran Bretaña, que llegaron después de Churchill, atacaron con mucha fuerza a la clase dirigente tradicional, aristocrática – con sus leyes sobre la herencia y demás. Ahora ya no existe el factor que obligaba a las élites a hacer grandes concesiones a las capas bajas. Por eso se van a librar de cualquier compromiso social y de nuevo pasar a una sociedad estamental con los privilegios estamentales. Lo cual prácticamente ya está en el aire.

Es interesante además observar que, al igual que nuestros actuales oligarcas fueron criados en el seno del komsomol y del KGB, igualmente los dirigentes de Europa del mañana hoy se están criando dentro del marco de la estructura que le han permitido tener los EE.UU. Los europeos ya hoy están criando a su burocracia internacional. Pero en el seno de un sistema ajeno, que les fue impuesto de la Unión Europea. Está claro que este sistema ya se está resquebrajando y que desaparecerá.

 

Memorias del futuro

– Díganos, en el caso del derrumbe de la UE, que Ud. pronostica para dentro de 10 años, ese proceso de reformateo del espacio europeo – ¿qué destino le espera a Letonia, a las repúblicas bálticas?

– No excluyo que las repúblicas bálticas pierdan su estatus soberano, porque el estatus soberano seguramente será algo del día de ayer. Porque a Europa la espera el retorno al nuevo feudalismo. Será un sistema de vasallajes y de protectorados señoriales. En este sentido a las repúblicas del Báltico no les espera nada bueno. En primer lugar porque va a haber el retorno de los

estamentos y el Báltico no tiene gran tradición histórica propia, su propia aristocracia. Aunque, por supuesto, está Lituania. Pero en el caso de Lituania se trata más bien de un mito, no se entiende dónde están sus Gediminas. ¿Dónde están los representantes de la nobleza de Rech Pospolita, aquella unión polaco-lituana de hace 500-400 años? Existe en los manuales de historia, pero no en la realidad. Y en la realidad apenas está presente el factor clerical.

En cuanto a Letonia y Estonia allí, como sabemos, la nobleza estaba representada por los barones – caballeros germanos. Y, ciertamente, lo siguen siendo hasta el día de hoy. O sea que con la vieja, tradicional aristocracia de Alemania todo está en orden. Todos ellos se reúnen en los consejos de las corporaciones transnacionales. Todos ellos siguen controlando sus viejos castillos y sus cuentas bancarias y entran el puñado de oro, por así decir, de los señores del mundo. Por lo que en el futuro lo más probable es que a Letonia y Estonia les espera el papel de vasallos dentro del marco de la nueva unidad europea. En cuanto a Lituania, probablemente, su situación sea algo mejor.

Pero debo decir, que la pasada pertenencia a la URSS y la participación en el proyecto soviético – de los mismos tiradores letones rojos en la Guerra Civil – ya coloca al país en una situación desigual dentro del futuro sistema europeo. Así que los bálticos no deberían de esperar ningún plus de este futuro…

 

– Si le hemos entendido bien, se refiere a que la población letona para los europeos son más bien letones soviéticos y ante sus ojos ya no son neutrales.

– Sí, todo lo que se refiere a la Unión Soviética es percibido como elemento del sistema en el que fue interrumpida la sucesión histórica. Es decir la sucesión histórica de aquella nobleza que sigue considerando que es la única con los derechos globales para el dominio mundial. Ahora, en cuanto se vayan los liberales, los nuevos ricos y arribistas – y se irán muy pronto – y cuando pierda su importancia el imperio estadounidense, como el gendarme mundial, donde al menos de palabra se proclama el factor democrático e igualitario, de nuevo serán restaurados los privilegios de las viejas casas. Que, por cierto, existen no solo en Europa, porque el sistema de la vieja aristocracia interconectada se expande por todo el mundo. En él entra, pongamos, la dinastía hachemita de Jordania, la casa imperial de Japón y muchas otras.

La estructura monárquica no se ha ido a ninguna parte, está como en el frigorífico. Se une tranquilamente a la cúspide del capital bancario, la así llamada internacional financiera. Todos comprendemos que ningún príncipe trabaja de camarero, todos están metidos en los consejos de directores de las corporaciones transnacionales, como “General motors”, “Opel” y otras… Si se fija en cuántas monarquías hay en actualidad, descubrirá que muchas. En realidad, la mitad de los países que podamos señalar en el mapa resultarán ser

monarquías: Bélgica, Holanda, Escandinavia. Y en Alemania todas las dinastías están en su sitio. Claro que se trata de una república federal, pero a quién le importa. La casa real bávara está al completo. Y lo que se dice “vivita y coleando”. La casa real de Wurtemberg, todos esos archiduques de Sajonia y de Westfalia, todos están ahí. Todos están ocupados. En los demás países del mundo no europeo, tenemos la casa real Libia, la casa real Egipcia, todas están, por cierto, refugiadas en Europa y esperan su hora.

 

– Díganos, dentro del marco de lo que Ud. llama el neofeudalismo, ahora estamos hablando de la resurrección del Imperio Otomano, que está resurgiendo ante nuestros ojos – ¿tal vez muy pronto veamos al sultán?

– El caso es que ya en actualidad a Erdogán le llaman el sultán electo. Ya hoy en día él se ve en este papel. Se considera como tal. Le conozco personalmente, rezamos juntos en la mezquita – y he visto como dejaba que la gente le besara las manos. Eso fue todavía antes de que se convirtiera en el presidente, por entonces era el alcalde de Estambul – y ya le besaban las manos. Aunque eso en realidad va contra todas las normas islámicas. O sea que se comportaba como un bey, un pachá y no como un musulmán hermano.

 

Rico, pobre…

 

– Señor Dzhemal, Ud. decía que los programas sociales en Europa Occidental se irán recortando. Y ya se están recortando. Ciertamente, ya no existe la Unión Soviética, no hay competencia ideológica. Pero de momento en Letonia existe la esperanza de que simplemente estamos algo atrasados con respecto a Occidente, que pasará un poco de tiempo, avanzaremos y también tendremos buenos sistemas médicos y subsidios dignos. Pero, posiblemente, no seamos más que la vanguardia de la nueva realidad social. ¿Tal vez, en los territorios como el nuestro se está ensayando este futuro sistema social?

– Claro, con ustedes son menos considerados. Mientras que en Occidente aún existen restos del movimiento social. Allí todavía existen sindicatos, movimientos estudiantiles, a la calle salen centenares de miles de personas. En las condiciones actuales los burócratas europeos no están preparados para arriesgarlo todo, es decir para causar la explosión social. Pero ya se están preparando para esta explosión, para estar bien armados. Es por lo que están desmontando las estructuras sociales, creadas durante el enfrentamiento con la URSS, no de golpe, sino poco a poco. Pero se debe decir que el terreno ya está preparado, hoy el uno por ciento de la población posee el 90 por ciento de las riquezas mundiales.

Veamos cómo ha transcurrido este proceso. En 1920 el uno por ciento de la población mundial poseía el 40 por ciento de las riquezas mundiales. En 1970, después del medio siglo de la presencia de la URSS, el uno por ciento poseía tan solo el 20 por ciento de las riquezas. Por lo que la competencia con la

Unión Soviética les había obligado a reducir el porcentaje del control sobre las riquezas mundiales el doble. Pero hacia 1990 este porcentaje de nuevo comenzó a subir ¡y en actualidad el uno por ciento de la población mundial posee… el 90 por ciento de las riquezas mundiales! Lo cual quiere decir que en actualidad el uno por ciento de la población de la Tierra mantiene unas posiciones materiales-financieras mucho más poderosas que en 1920, cuando el poder soviético apenas acababa de aparecer, es decir que en comparación con los principios del siglo XX, monárquicos, capitalistas etc. – el uno por ciento de hoy ha reforzado sus posiciones el doble…

Por eso hoy el papel de las repúblicas bálticas en Europa se diferencia poco del papel, por ejemplo, de los serbios, que se han convertido en los inmigrantes interiores y también trabajan para la Unión Europea. Se diferencia poco del papel de los rumanos. Se trata de Europa periférica con el estatus rebajado, con el nivel rebajado de reconocimiento, que sufre la explotación del factor humano. En la práctica poco se diferencian los habitantes chabolistas de la India de los sin hogar de París. Pues en realidad a la verdadera nobleza y al capital bancario les da igual dónde vivan los parias. Para ellos el espacio europeo forma parte de la sociedad global. Hay que decir que este sistema semicolonial en Europa se estuvo expandiendo con la ayuda y apoyo de la nobleza periférica, local. Que tuvo lugar, lo mismo que en su día en la India y otros lugares, la confabulación entre la nobleza europea y la periférica.

Y como resultado, naturalmente, este puñado de oro, este 1 por ciento no piensa compartir los beneficios, no hay motivos que pudieran obligar a la nueva élite a compartir ahora algo con los de abajo. Claro que los programas sociales se van a cerrar. Ese será el futuro de Europa. Nada hace pensar lo contrario.

 

 

Parodia del incendio de Reichstag

 

– Señor Dzhemal, hace diez años cuando le entrevistamos y todavía se empezaba a hablar sobre el peligro del terrorismo islámico, de repente Ud. nos dijo que no existe ningún terrorismo islamista, que no son más que juegos de los servicios secretos de los EE.UU…

– En realidad ahora lo veo un poco distinto. Veamos, por ejemplo, los últimos acontecimientos de Boston. Las incongruencias son demasiado evidentes, por lo que no cabe valorar las explosiones en Boston más que como una representación. Representación con diferentes candidatos para el papel de los organizadores. Al principio fue detenido un súbdito saudita al que luego soltaron. Como resultado escogieron a los hermanos Tsarnáev con los que desde hacía tiempo trabajaba FBI, pero salta a la vista que los hermanos Tsarnáev no participaron en la organización del asunto, que todo fue organizado por ciertas fuerzas internas. Yo creo que luego, en un momento x, se desenmascarará esa operación de Boston, lo cual hace falta, seguramente, para comenzar la revisión de las conclusiones oficiales con respecto al 11 de septiembre. Es decir, que desde mi punto de vista, hay en marcha una ofensiva contra los neoconservadores, contra el Partido Republicano. Creo que muy pronto se planteará la cuestión de que el establishment político de los EE.UU. participó en todas estas operaciones especiales, que hicieron posibles las guerras en Afganistán e Iraq.

 

– Ud. dice que son los objetivos de política interior. Pero todavía antes de que fueran nombrados los sospechosos, Ud. había escrito en su artículo que lasacusaciones necesariamente se volverían contra el islam. Y, ciertamente, así ha sido. Y no solamente contra el islam, sino contra Rusia, el Cáucaso, Kazajistán y Kirguisia, o sea en realidad contra el marco de la Unión Aduanera…

– Sí, pero verá, en este asunto tan grande, muy de representación, participan muchas fuerzas, cada una con su propio orden del día. En mi opinión, en primer lugar los organizadores se proponen como objetivo la completa desacreditación de la máquina administrativa de los EE.UU. Porque han programado tantas incoherencias y han dejado tantos cabos sueltos que a la hora del juicio el asunto no se va a sostener.

En lo que se refiere a otras fuerzas, se proponen otros objetivos. Las fuerzas que llevan a cabo la investigación claro que utilizan a los Tsarnáev para la temática antirrusa. Surge la pregunta ¿quién los había enviado a Rusia? ¿Por qué Rusia no puso objeciones? Por qué Tamerlán ha pasado medio año en Rusia – cuando para un checheno que vive en el extranjero, viajar hasta Dagestán y vivir allí tranquilamente es prácticamente imposible. Hay muchas partes oscuras, misteriosas.

 

– Recordemos que cuando se derrumbaron las torres gemelas el 11 de septiembre, Putin fue uno de los primeros en apoyar a Bush. Hubo incluso un episodio de amistad entre Rusia y los Estados Unidos, de colaboración. Ahora en Boston ha sucedido un acto terrorista análogo, pero no se ha logrado recuperar algo parecido a aquella amistad…

– En primer lugar, Putin apoyó a los republicanos para distanciarse de la Familia, de los demócratas (“Familia” llaman en Rusia al segmento de la nomenklatura, ligado a Yeltsin, que se puso bajo la tutela de la pareja Clinton para llevar a cabo la privatización y la restauración del capitalismo en Rusia – N. del T.). Dado que precisamente la privatización, Yeltsin, Familia, estaban estrechamente ligados a la época Clinton. Todo aquello quedó desacreditado. Así que Putin buscando ensanchar la posibilidad de maniobra apostó por los neocones, los republicanos. Exactamente por eso en contra de las evidencias se puso a apoyar la versión de Bush y su proyecto. Pero hoy en la Casa Blanca se encuentra el continuador de la causa demócrata. Ahí se sienta Obama. Y es, digamos, que todavía más cosmopolita de lo que era Clinton. Obama en mucha mayor medida está relacionado con las fuerzas no estadounidenses o extraestadounidenses que cualquier otro demócrata antes de él. Por eso no tiene ningún sentido correr hacia él con saludos para alguien que ha estado 10 años trabajando con los republicanos.

 

– Pero después de la caída de las torres gemelas y la acusación contra los musulmanes los Estados Unidos tuvieron las manos libres e introdujeron las tropas en Afganistán. Si la acción terrorista en Boston es una operación especial similar ¿hasta qué punto desata las manos a los EE.UU. en sus

relaciones con Rusia, con Cáucaso? Por ejemplo, la ex-gobernadora de Alaska Sarah Palin hizo el llamamiento para bombardear a Chechenia, aunque la confundió con Chequia…

– Lo de Sarah Palin no fue más que una anécdota. Con respecto a lo de desatar las manos. Los acontecimientos de 2001 y los recientes de Boston son especularmente opuestos. Boston es una parodia de lo que ocurrió hace 12 años. Mientras que los acontecimientos de 2001 fueron por su esencia se podría decir que el incendio del Reichstag 2. Lo mismo que el incendio del Reichstag, la destrucción de las torres gemelas había permitido reformatear el campo del derecho dentro de los EE.UU. Fueron suprimidas multitud de garantías que ofrecía la Constitución de los EE.UU., de hecho los Estados Unidos fueron convertidos en un estado policial. Todo ello pasó con mucha velocidad, como una apisonadora, sobre el país que eran los EE.UU. anteriores al 11 de septiembre de 2001.

 

– Ud. habla del “estado policial”. Curiosamente, cuando pasó lo de Boston, los parientes estadounidenses de Tamerlán Tsarnáev asustados renegaron de él, incluso redactaron una declaración oficial que leyeron ante las cámaras. Luego habló una muchacha, en representación de la comunidad musulmana local – y con voz temblorosa también renegó de los hermanos Tsarnáev. Lo cual recordaba mucho cómo en 1937 en la URSS los hijos renegaban de los padres, cuando en público se leían las declaraciones: “Reniego de mi padre, porque es un enemigo del pueblo”. Cuando en Rusia ocurrían actos terroristas similares, mostraban a los parientes de los terroristas en Daguestán, en Chechenia – nadie renegaba de sus hijos. Es incluso imposible imaginarse algo así. ¿Qué ocurre hoy en los Estados Unidos?

– Sí, los estadounidenses están asustados. Pondré un ejemplo. Después de que comenzara la así llamada búsqueda de Dzhajar Tsarnáev, las cien millas cuadradas de Boston, junto con los suburbios fueron prácticamente sellados. Sellados por la operación policial. A la gente la sacaban de su propia casa, con las manos levantadas, a punta de metralleta, y registraban sus casas. Es decir que se pisoteaban directamente todos los derechos constitucionales de los ciudadanos estadounidenses. Y a escala de una ciudad entera. Algunos observadores, incluidos tan serios como Paul Craig Roberts, quien fuera el editor de Wall Street Journal, escribieron con respecto a lo que pasó en Boston, que ni siquiera el rey Jorge, quien combatió a la revolución estadounidense, se hubiera podido permitir dar una orden semejante a sus casacas rojas – llevar a cabo la operación con registros en el espacio de cien millas cuadradas como la que acababa de realizar la seguridad nacional de los EE.UU. Es decir que el país ha cambiado radicalmente en los últimos años.

 

Misión en Kabul

 

– Señor Dzhemal, recientemente Letonia ha enviado a Afganistán un grupo de soldados de turno. En su día nuestros chicos letones lucharon en Afganistán con las tropas soviéticas. Ahora están luchando en el mismo país pero encuadrados en la OTAN. Entonces la consigna era cumplir el deber internacionalista, ahora es defender los valores democráticos. Díganos ¿existe alguna diferencia fundamental en los objetivos para los cuales fueron destacados las tropas soviéticas y ahora los de la OTAN? ¿O se trata del mismo fenómeno?

– Sí, existe cierto paralelismo. Sin embargo en Afganistán las tropas soviéticas y las de la OTAN no hacían exactamente lo mismo. Las tropas soviéticas entraron en Afganistán para prevenir lo que luego había pasado. Es decir la invasión de Afganistán por pare de Occidente. Porque fueron provocadas. Porque los servicios secretos de los EE.UU. lograron convencer al Politburó que iban a entrar allí de un momento a otro. Y provocaron a la Unión Soviética para dar el paso correspondiente. Y como resultado lo de Afganistán enterró al poder soviético. Es decir que se había convertido en una de las causas principales de la crisis interna del imperio y de su hundimiento. Pero debo decir, que Afganistán en cierta medida también representa la tumba de los EE.UU. y de la OTAN. Si no es tan evidente es porque están utilizando los enormes recursos de los medios para ocultar este hecho. Pero sé una cosa: los talibanes se han negado a negociar con los Estados Unidos de Norteamérica y dijeron que mientras un solo soldado extranjero permanezca en el territorio de Afganistán, no hay nada de qué hablar.

 

– Díganos, en general ¿qué han ganado y qué han perdido los Estados Unidos con la invasión de Oriente? Con la ayuda de las tropas, como en Afganistán e Iraq, o de las revoluciones de color…

– Únicamente han perdido. Después de 12 años de terribles esfuerzos que han causado tres millones de víctimas, el Occidente hoy se encuentra en una situación mucho más crítica y mucho más débil que a comienzos del 3 milenio.

Y en segundo lugar, como resultado de estas guerras los Estados Unidos han quedado desacreditados como el país que desea el bien a la humanidad. O sea que cuando ahora dices que tu objetivo es luchar contra la dictadura de los Estados Unidos de Norteamérica, todos asienten, diciendo – sí, comprendemos que es el imperio del mal. Hace doce años hubiera sido imposible, aún no era tan evidente para todos. Es decir que los EE.UU. han perdido la reputación. Miren como China cuida hoy su reputación de un estado pacífico. Por ejemplo, Australia que había permanecido intacta hasta la llegada de los navegantes ingleses, en el siglo XVIII, para China, que representaba un tercio de la economía mundial, como hoy, no le hubiera costado nada descubrir y colonizar este país. Pero la reputación del estado que no lleva el mal al mundo es muy importante y tiene mucho valor.

 

Triángulo Rusia, China, Irán

 

– Hace diez años en la entrevista para nuestro periódico Ud. había pronosticado que si los Estados Unidos bombardeaba a Irán, la siguiente sería Rusia. Ud. creía que la guerra entre los EE.UU. y Rusia era inevitable. ¿Ha cambiado de opinión en cuanto a la sucesión de los hechos o la inevitabilidad de este proceso? En cualquier caso, sobre el gran tablero del ajedrez mundial ahora vemos otra partida – Obama cree necesario rodear con las bases militares a China. Y de una manera sorprendentemente rápida se reaniman los conflictos que antaño China mantuvo con los estados vecinos…

– Existe el triángulo – Rusia, China, Irán – que en actualidad está retando a los EE.UU. Pero no es porque esté retando a los Estados Unidos y a Occidente como al reino de la oscuridad y porque luche por todo lo bueno y luminoso. Sino simplemente porque la propia existencia de semejante estructura independiente ya es un reto inaceptable para Occidente. Es inaceptable la toma independiente de las decisiones políticas por parte de los países que se apoyan unos a otros en este triángulo. Por ejemplo, la aprobación de la resolución contra la invasión extranjera de Siria a través del Consejo de Seguridad. Por eso hoy el principal objetivo de los Estados Unidos es romper este triángulo y neutralizar a cada uno de sus vértices. Pero desde el punto de vista de los EE.UU. el principal peligro en la actualidad está representado por China.

 

– Es decir que la sucesión de los turnos sí ha cambiado a lo largo de estos diez años. Ud. creía que el primer candidato para el bombardeo sería Irán…

– La situación cambia de manera dinámica. Hace diez años Rusia, China e Irán no estaban tan coordenados como aliados. Por entonces, lógicamente se les podía golpear uno por uno. Hace diez años China estaba mucho más atada a los Estados Unidos, porque estaba atada a la exportación para el mercado interno de los EE.UU. Dependía completamente del producto consumido en los EE.UU. y producido en China. Mientras estos países no estaban reunidos en el triángulo, sino que actuaban cada uno por su lado, era más lógico golpearlos por separado. Ciertamente, comenzar por el eslabón más débil, es decir primero Irán, luego Rusia, porque entonces estaba débil, y luego ya ir a por China. Dado que China aún era necesaria para los Estados Unidos en calidad del taller mundial, productor de mercancías.

Hoy la situación ha cambiado. Rusia, China e Irán representan ya una figura geométrica perfilada, atada – por eso es imposible atacarlos. Resultó imposible incluso atacar a Siria, que tan solo es la aliada de Irán y de Rusia. Porque además del propio triángulo, cada uno de sus lados tiene sus aliados. Irán tiene a Siria, China a Paquistán, Rusia a Kazajstán. Como resultado ya tenemos un grupo de países. Y podemos observar una serie de acciones contra ellos. Por ejemplo, Paquistán sufre ataques de los “drones”. En Paquistán aumenta la situación crítica, mañana podrían asumir el poder los militares nacionalistas, lo cual favorecería a los EE.UU., porque obligaría a India a jugar contra China, del lado de los Estados Unidos. También en Asia Central ocurren determinados sucesos: allí los EE.UU. han optado por cambiar los regímenes existentes… Se trata de la lucha contra los aliados del triángulo Rusia – China – Irán.

 

– ¿Díganos qué opina del destino de Siria? ¿La situación de la guerra civil permanente no puede durar eternamente?

– No, no puede. En mi opinión, en actualidad a la oposición siria solo la apoyan Turquía, Qatar y Arabia Saudí. Occidente de hecho ya se ha salido del apoyo a la oposición. Creo que Asad está ganando. La guerra civil en Siria se va a acabar y, lo más probable es que estas fuerzas se vayan a otro sector.

Y les diré otra cosa – los actuales musulmanes de Europa son un destacamento muy importante, aquí se elaboran las opiniones que ejercen influencia sobre los países tradicionalmente musulmanes. Recordaré que gran parte de la oposición radical que, por ejemplo, había regresado a Túnez o Egipto, es la oposición radical que estuvo en la emigración precisamente en Europa.

 

Hacia la nueva orilla

 

– Señor Dzhemal, en esta gran partida de ajedrez, de la que estamos hablando ¿de qué lado le recomendaría situarse a Letonia?

– Eso lo tendrán que decidir ustedes. Debo decir que la confrontación continuará. Pero Occidente se encuentra en el umbral de una gran crisis. Se acaba el período histórico en el que los Estados Unidos fueron el eslabón central. Nos estamos aproximando al sistema para el que ya no hace falta el mercado, y para la élite mundial van a sobrar enormes masas de la población, gran cantidad de mano de obra sobrante. Esto ya pertenece al día de ayer. Para la élite mundial aproximadamente el 80 por ciento de la población actual representa simplemente un lastre, del que habrá que deshacerse. Porque no hay recursos para todos.

Y si no es por la futura Rusia, este 80% no tiene ninguna posibilidad. Rusia no puede existir más que como la abanderada de la libertad para el mundo entero. Si el enfrentamiento continúa, será el variante bueno. El malo será si el Occidente logra partir a Rusia en varios trozos y estos trozos se pondrán a vender sus recursos naturales directamente en el mercado mundial, y serán controlados por las compañías militares privadas, que con sus helicópteros sobrevolarán pongamos Kémerovo, Novosibirsk, Ekaterimburgo etc. Será una mala variante. En este caso habrá pocas esperanzas para la humanidad. O ninguna. Porque sin Rusia la resistencia será más bien efímera y podrá ser aplastada con los recursos de los que disponga el gobierno mundial. En cuanto

a las repúblicas del Báltico, creo que su población va a repensar muchas cosas y se dará cuenta de muchas cosas, creo que, al menos los letones, tienen recursos intelectuales suficientes. Este intelecto es suficiente para ver de manera crítica la situación a la que actuales repúblicas del Báltico están llegando.

 

Geidar Dzhemal (n.1947, Moscú) es teólogo del Islam revolucionario, filósofo, presidente del Comité Islámico de Rusia (Islamkom.org), activista político y social. Cofundador de Unión Internacional – Intersoyuz (interunion.org), miembro de la coordinadora del Frente de Izquierda – Levi Front (Leftfront.ru).

 

Fuente: http://www.ves.lv/vesti/

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

THALASSOCRATIE ET SANCTIONS

$
0
0

Mégare et l’Italie

En 1991, un colloque d’historiens et politologues européens et américains sur la “rivalité hégémonique entre Athènes et Sparte et entre Etats-Unis et Union Soviétique” fut publié sous le titre From Thucydides to the Nuclear Age. Thucydide, l’historien de cette “guerre mondiale de l’antiquité” qui a été la guerre du Péloponnèse, est un auteur particulièrement apprécié dans certains milieux politico-intellectuels atlantistes, qui ont essayé de faire de lui le témoin du bipolarisme et de la confrontation entre deux blocs militaires.

La philologie classique, à partir de Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (1) a souvent reproché à Thucydide de laisser dans l’ombre le blocus commercial imposé à Mégare par la thalassocratie athénienne en voulant attribuer à Sparte les causes du conflit.

Et pourtant la guerre du Péloponnèse commença précisément par le décret contre les Mégariens du 432 av. J. – C. (le Mégaréon pséphisma), une série de sanctions économiques qui interdisaient aux Mégariens l’accès aux ports, aux mouillages et aux marchés de la Ligue de Délos, c’est à dire de l’alliance hégémonisée par les Athéniens.

Pour les historiens il est évident que les sanctions contre Mégare n’étaient pas seulement un moyen pour affaiblir les rivaux et étendre son influence. Helmut Berve, par exemple, a dit qu’avec l’embargo, qui a également affecté les alliés de Mégare, Athènes “mettait le couteau sur la gorge des Péloponnésiens” (2). En effet, le décret d’embargo était un défi, une provocation qui devait procurer à Athènes le casus belli nécessaire pour justifier le déclenchement d’une guerre contre Sparte et les Péloponnésiens. Toutefois, comme on sait, la guerre termina, trente ans après, par la défaite d’Athènes et le renversement de sa démocratie.

Un autre épisode exemplaire dans l’histoire des sanctions: le 18 novembre 1935, pour la première fois, la Société des Nations décréta les sanctions économiques contre un pays membre, c’est à dire contre l’Italie, comme réponse à la campagne d’Ethiopie. Le pays anticolonialiste par excellence, l’Angleterre, envoya la Home Fleet à patrouiller la Méditerranée pour faire respecter l’embargo.

Quelques ans après, Carl Schmitt commentait: “Les puissances sociétaires ne faisaient pas la guerre, mais elles imposaient des sanctions. Le fameux art anglais des ‘méthodes indirectes’ célébra un nouveau triomphe. La typique distinction entre opérations militaires et opérations non militaires, actions belliques et actions pacifiques, perdit toute sa signification, parce que les actions non militaires pouvaient être hostiles dans une façon plus efficace, immédiate et intense” (3).

D’ailleurs le fondateur même de la Société des Nations, le président nordaméricain Thomas Woodrow Wilson, avait théorisé: “Une nation boycottée finit par céder. Appliquant ce remède économique-pacifique, silentieux mais mortel, on évite d’avoir recours à la force” (4).

Evidemment l’Angleterre avait bien appri la leçon synthétisée dans le célèbre axiome de Sir Walter Raleigh: “Qui maîtrise la mer maîtrise le commerce du monde et à celui qui maîtrise le commerce du monde appartiennent tous les trésors du monde et le monde même”.  

Il semble que les puissances thalassocratiques privilègent les sanctions comme formes spéciales de guerre et les utilisent dans le cadre d’une conception générale de la guerre et de l’ennemi; mais une conception très différente de celle qu’on trouve à la base du jus publicum Europaeum, parce qu’elle ignore la distinction entre combattants et non-combattants.

“La guerre maritime – écrit Carl Schmitt – n’est pas une guerre de combattants; elle se base sur une conception totale de l’ennemi, laquelle considère ennemis non seulement tous les citoyens de l’Etat ennemi mais aussi tous ceux qui commercent avec l’ennemi et supportent son économie. Dans cette guerre il est permis, sans contestation possible, que la propriété privée de l’ennemi soit soumise au droit de pillage; le blocus, moyen qui appartient spécifiquement au droit maritime reconnu par le droit international, frappera sans exception l’ensemble de la population des régions concernées. Grâce à un autre moyen également reconnu par le droit international et également appartenant au droit maritime, le droit de pillage, aussi la propriété privée des neutres pourra être saisie” (5).

En 1946, par exemple, les Etats Unis ont prétendu que la Confédération Helvétique consigne les avoirs des citoyens allemands déposés dans les banques suisses, prétention contraire à l’ordre juridique privé international (6), mais conforme au droit de butin spécifique du droit maritime.

 

 

Les sanctions selon la doctrine des relations internationales

Selon la doctrine des relations internationales, les sanctions économiques sont des dispositions adoptées par un Etat, ou par une coalition d’Etats, ou encore par une organisation internationale, dans le but de contraindre un Etat à respecter les règles de la coexistence internationale, sans faire recours aux armes.

Dans le texte de Martin I. Glassner sur les relations internationales on peut lire que “des sanctions spéciales, imposées dans des circonstances particulières et respectées efficacement, peuvent modifier le comportement de l’Etat sanctionné, tout en renforçant le prestige du sanctionneur. Toutefois, Il existe peu de preuves démontrant que les sanctions puissent à elles seules effrayer un Etat qui ne soit pas très petit et faible ” (7).

Les sanctions économiques les plus communes sont les suivantes:

1) l’embargo

2) le boycottage

3) la congélation des biens et des capitaux que l’Etat sanctionné ou ses citoyens possèdent à l’exterieur

4) la défense de donner des créances

5) la défense de transaction financière

6) l’interdiction de faire éscale pour les navires et les avions de l’Etat sanctionné

7) la révocation de l’assistance financière et technique

 

L’embargo, en particulier, est l’ordre donné à un navire marchand de ne pas lever l’ancre du port où il se trouve ou bien de ne pas accoster. Dans une acception plus large l’embargo est le blocus des échanges commerciaux décidé par un pays ou bien plusieurs pays à l’égard d’un autre pays.

Le boycottage – comme aussi le blocus – est un ensemble de mesures qui visent à bloquer le commerce extérieur et les communications d’un pays ennemi. En particulier, le boycottage consiste dans la défense d’acheter des biens provenant du pays qui fait l’objet de la sanction.

Embargo et boycottage sont considérés par l’O.N.U. comme des sanctions pacifiques à appliquer contre les Etats qui violent le droit international ou ne respectent les droits de l’homme.

En réalité, comme affirment les colonels chinois Qiao Liang et Wang Xiangsui dans leur fameux livre sur “la guerre sans limites”, “L’imposition d’embargos sur les exportations de technologies fondamentales (…) peut avoir un effet destructif égal à celui d’une opération militaire. A cet égard, – ils rappellent – l’embargo total contre l’Irak est un exemple classique de manuel” (8).

 

 

La “guerre économique” et ses buts

Un autre militaire chargé de cours de stratégie, le général italien Carlo Jean, déjà il y a dix-huit ans annonçait l’intensification de l’emploi des armes économiques, comme l’embargo et les autres sanctions, pour la réalisation des mêmes buts qui ont été poursuivis par la guerre traditionnelle.

En effet, la guerre “économique” est une vraie guerre, puisque son but stratégique est la victoire sur l’ennemi, c’est à dire l’assujettissement du vaincu à la volonté du vainqueur, exactement comme dans la guerre proprement dite.

D’ailleurs le général Jean expliquait comme dans ce contexte les moyens d’ordre économique ne sont pas employés pour la production ou pour le commerce, mais exactement comme des armes, pour obtenir des buts analogues aux buts poursuivis par la force militaire, c’est à dire, “pour détruire la volonté de résistance de l’adversaire (par exemple en le privant de ses capacités militaires, en provocant graves dommages à sa base productive, famines, épidémies, révoltes, changement de classe dirigéante ou de gouvernement, coups d’Etat, sécessions etc.)” (9).

Ainsi le même auteur définissait l'”arme économique” comme le moyen que les Etats ou les coalitions d’Etats “peuvent licitement employer pour le contrôle de l’économie nationale ou internationale, si cet emploi vise à obtenir des buts analogues à ceux qu’on pourrait poursuivre par la force militaire, en particulier la victoire sur un Etat ou bien sur une coalition adversaire” (10).

Il observait également que “dans l’ordre international ce principe protège les puissances économiquement prédominantes et favorise le maintien du statu quo” (11), ainsi qu’il pouvait conclure affirmant: “Il est donc normal que ce principe ait été soutenu et imposé par l’Occident, qui dans la phase historique actuelle jouit d’une écrasante suprématie économique sur le reste du monde” (12).

On a dit aussi que le concept de guerre économique est ambigu et multiforme, parce qu’il s’agit d’une guerre qui peut poursuivre des buts différents: économiques, stratégiques ou politiques (13).

La guerre économique poursuit des buts économiques quand l’Etat n’a pas comme but essentiel l’endommagement de l’adversaire, mais il vise à accroître le bien-être de ses citoyens ou bien sa richesse, par exemple recourant à pratiques commerciales illégitimes.

La guerre économique poursuit des buts stratégiques si, dans une conflit militaire, elle vise à priver l’ennemi des ravitaillements nécessaires aux Forces Armées et à la population par blocs navaux, aériens ou terrestres. Mais on poursuit un but stratégique aussi quand, en absence d’un conflit militaire direct, on vise à interdire à un Etat adversaire produits et technologies considérés comme “critiques”.

Enfin, la guerre économique poursuit des buts politiques, si l’arme économique est employée pour pousser un Etat à accepter la volonté de celui qui la employe, exactement comme dans les formules clausewitziennes: “continuation de la politique de l’Etat par d’autres moyens”, “act de violence ayant le but d’obliger l’adversaire à se soumettre à notre volonté”, “act inspiré par un dessein politique”.

Dans le cas de la République Islamique de l’Iran, le but de la guerre économique est sûrement stratégique, puisque l’objectif déclaré des sanctions est celui de bloquer l’acquisition d’uranium et des technologies utiles pour le programme nucléaire.

Mais, pour ce qui est des sanctions unilaterales imposées par les Etats Unis d’Amérique, le but est aussi et surtout politique, voire même géopolitique, étant donnée la nécessité de la thalassocratie nordaméricaine de contrôler le Rimland de la géopolitique spykmanienne, dont l’Iran constitue précisément un segment central.

En effet, si Sir Halford Mackinder avait formulé la doctrine selon laquelle qui contrôle le Heartland gouverne le monde, Nicholas J. Spykman a énoncé la thèse complementaire: “Who controls the Rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world“.

 

 

 

1. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Curae Thucydideae, 1885, p. 17.

2. Helmut Berve, Griechische Geschichte, II 1952, p. 11.

3. Carl Schmitt, Inter pacem et bellum nihil medium, “Zeitschrift der Akademie für Deutsches Recht”, VI, 1939, pp. 594-595.

4. Cité par P. M. Gallois, Le sang du pétrole – Irak, L’Age d’Homme, Lausanne 1966, p. 31.

5. Carl Schmitt, Souveraineté de l’Etat et liberté des mers, in Du Politique, Pardès, 1990, pp. 150-151; cfr. Idem, Terra e mare, Adelphi, Milano p. 90.

6. “Neue Zürcher Zeitung”, 14 Sept. 1996.

7. M. I. Glassner, Manuale di geografia politica II. Geografia delle relazioni tra gli Stati, Franco Angeli, Milano 1995, p. 36.

8. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, LEG, Pordenone 2001, p. 81.

9. Carlo Jean, Geopolitica, Laterza, Bari 1995, p. 140.

10. Carlo Jean, Geopolitica, cit., p. 141.

11. Ibidem.

12. Ibidem.

13. Claude Lachaux, La guerre économique: un concept ambigu, “Problèmes Economiques”, 14 oct. 1992, pp. 28-31.

 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

DA KEYNES A FRIEDMAN, E RITORNO. I LIMITI DELL’IDEOLOGIA

$
0
0

L’entità della crisi economica indotta dall’onda d’urto propagatasi dallo shock del 2007-2008 ha sortito ripercussioni decisamente inaspettate sul piano delle teorie economiche dominanti e, conseguentemente, sulle operazione compiute dai vari Paesi in campo economico. Il successo che in questi anni hanno riscosso economisti “keynesiani” come Paul Krugman, Joseph Stiglitz, ecc. è effettivamente dovuto al fallimento del economia imperniata sul concetto di “laissez-faire”, di cui i padri della “scuola austriaca” (Ludwig Von Mises e Friedrich Von Hayek) e i loro allievi della “scuola di Chicago” (Milton Friedman in primis) sono stati i principali sostenitori. Il disastro economico odierno può essere infatti considerato come il risultato delle misure neoliberali applicate inizialmente in tutti i Paesi industrializzati, e successivamente in quasi tutto il mondo per effetto del processo di globalizzazione irradiato dal pulsar statunitense attraverso le sue potenti propaggini finanziarie (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale).

Ma l’affermazione delle teorie neoliberali è a sua volta dovuta all’inadeguatezza delle ricette keynesiane manifestatasi in seguito allo shock petrolifero del 1973.

La validità della teoria generale di John Maynard Keynes rimase praticamente indiscussa dagli anni ’40 fino a quel particolare episodio storico per alcuni motivi piuttosto peculiari.

In sostanza, la teoria economica sviluppata da Keynes è incardinata sul concetto di “domanda aggregata”, che risulta dalla somma della domanda di consumi da parte dei cittadini, della domanda di investimenti da parte delle imprese, la domanda del settore statale mediante la spesa pubblica e i tassi di interesse, e la domanda dei mercati internazionali, sostenibile incentivando le esportazioni e quindi correggendo verso il basso i tassi di cambio.

Focalizzando l’attenzione sulla variabile della domanda aggregata e sui suoi componenti, Keynes offrì una base teorica volta a combattere due dei principali problemi che le economie nazionali si sarebbero potute trovare ad affrontare, ovvero la disoccupazione e l’inflazione.

Dal momento che riteneva che la disoccupazione scaturisse da una depressione della domanda aggregata, Keynes suggeriva di intervenire per sostenere questa domanda. Per una nazione sarebbe quindi  stato possibile:

 

A – stimolare i consumi attraverso il taglio delle imposte dirette, in modo da consentire ai cittadini di conservare più soldi da spendere;

B – favorire gli investimenti delle imprese applicando bassi tassi di interessi  così da rendere più abbordabile il costo del denaro;

C – edificare nuove infrastrutture e potenziare quelle esistenti allargando i cordoni della spesa pubblica, coinvolgendo direttamente i cittadini nella costruzione di strade, ponti, ferrovie, ospedali, ecc.;

D – colmare la carenza della domanda interna orientando la produzione verso le esportazioni, da promuovere mediante la svalutazione della moneta locale.

 

D’altro canto, Keynes era convinto che l’inflazione fosse dovuta a un aumento eccessivo ed incontrollato della domanda aggregata cui non corrisponderebbe una offerta adeguata, e indicava pertanto di agire per comprimere la richiesta di beni e servizi. Lo Stato sarebbe quindi stato chiamato ad applicare misure diametralmente opposte a quelle necessarie per fronteggiare la disoccupazione. Avrebbe quindi potuto:

 

A – deprimere i consumi aumentando le imposte dirette;

B – scoraggiare gli investimenti delle imprese applicando alti tassi di interesse;

C – focalizzare l’attenzione sul bilancio adottando politiche di austerità volte a tagliare la spesa pubblica;

D – sostenere la moneta locale in modo da rendere più problematiche le esportazioni.

 

I presupposti che Keynes fissò per escogitare questa brillante teoria non contemplavano, naturalmente, che i fenomeni di disoccupazione e inflazione potessero manifestarsi contemporaneamente, dal momento che la disoccupazione, spingendo verso il basso i prezzi, si manifestava generalmente in periodi deflazionistici. Va sottolineato che nel momento in cui il grande economista britannico ideò le sue teorie gli Stati erano molto “chiusi” verso l’esterno, e riuscivano quasi sempre a rifornirsi dei beni di cui avevano bisogno attingendo alle risorse di cui disponevano all’interno dei confini nazionali o importandoli alle proprie insindacabili condizioni dalle colonie. Ma la decolonizzazione e le sue logiche di base, associata all’aumento costante della domanda di energia determinarono una progressiva apertura dei mercati nazionali, che cominciarono ad interconnettersi tra di loro in maniera sempre più salda.

Così, quando si verificò lo shock del 1973, il “paradosso” keynesiano finì per verificarsi, poiché l’aumento esorbitante del prezzo del petrolio (pari al 400%) circa innescò un brusco aumento dei costi di produzione da parte delle imprese che si videro costrette a scaricare il tutto sul prezzo finale. Le politiche keynesiane adottate per arginare il fenomeno si rivelarono completamente fallimentari, poiché in quel caso l’inflazione non era dovuta a un aumento incontrollato della domanda, ma a una decisione politica assunta dai Paesi membri dell’OPEC in combutta con lo Shah di Persia, nonché con Richard Nixon ed Henry Kissinger.

Il trionfo del neoliberismo nacque proprio sulle ceneri delle ricette keynesiane, il cui fallimento costituì un’occasione da non perdere per i principali esponenti della “scuola di Chicago”. Milton Friedman in persona ebbe a scrivere che: «Soltanto una crisi, reale o percepita che sia, produce vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica, le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano. Questa, io credo, è la nostra funzione principale: sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle in vita e disponibili finché il politicamente impossibile diventa il politicamente inevitabile».

La celebre giornalista canadese Naomi Klein ha individuato in questa espressione la base su cui è stata costruita la cosiddetta “shock therapy”, ovvero la prassi operativa attraverso cui decine e decine di Paesi sono stati convertiti, sotto la sorveglianza di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, all’economia liberista dopo l’“esperimento” attuato dagli esponenti della scuola di Chicago nel Cile di Augusto Pinochet.

Secondo il nuovo paradigma di riferimento, l’attenzione generale non sarebbe più dovuta cadere sul lato della domanda, ma su quello dell’offerta, e l’approccio alla realtà sarebbe dovuto passare dal macroeconomico al microeconomico. Lo Stato si sarebbe pertanto dovuto limitare a mantenere i conti a posto, ad applicare tassi di interesse volti a garantire la stabilità e a ridurre le imposte allo scopo di stimolare le aziende ad investire migliorando la qualità dei loro prodotti. In tal modo si sarebbe favorita la concorrenza, e ciascuna impresa sarebbe stata costretta a comprimere i cosiddetti “costi fissi” per mantenersi competitiva sui mercati mondiali. L’aumento dei costi indotto dallo shock petrolifero fu quindi mitigato con  il taglio dei salari, la rimozione degli apparecchi volti a limitare l’impatto ambientale e tutte le altre misure rientranti nel programma di “razionalizzazione produttiva”.

Grazie a queste circostanze, le tesi di Milton Friedman sostituirono quelle di Keynes, giudicate ormai obsolete, e numerosissime nazioni di tutto il mondo vararono robusti programmi imbevuti di neoliberismo.

Con lo scoppio della crisi del 2007-2008, le teorie di Keynes sono state rapidamente riscoperte ed evocate specialmente in riferimento all’Europa, alla luce del fatto che nel Vecchio Continente ha cominciato a permanere nuovamente il fenomeno di deflazione combinato a disoccupazione di massa. Numerosi economisti come Paul Krugman hanno ripetutamente stigmatizzato l’Unione Europea e la Banca Centrale Europea, perché impediscono per statuto ai singoli Paesi sia di stabilire i tassi di interesse da applicare sia (soprattutto) di svalutare la moneta per favorire le esportazioni. Ciascun Paese ha il potere di agire unicamente attraverso strumenti fiscali. Ma limitarsi ad aumentare la spesa pubblica ed abbassare le tasse senza poter intervenire sui tassi di interesse e sulla moneta finisce soltanto per alimentare il deficit e il debito pubblico. Con la sottoscrizione del cosiddetto “patto di stabilità”, gli Stati sono stati espropriati anche del potere di avvalersi di questi strumenti, poiché ogni Paese è tenuto a rientrare in determinati parametri di disciplina di bilancio (deficit al 3% e debito pubblico al 60% del Prodotto Interno Lordo).

Secondo la teoria keynesiana, i Paesi mediterranei, che hanno tassi di disoccupazione che in alcuni casi supera il 20%, necessiterebbero di politiche espansive, in cui la spesa in disavanzo dovrebbe essere associata a una riduzione delle tasse, a una diminuzione dei tassi di interesse  e a una svalutazione competitiva, ma l’Unione Europea proibisce l’applicazione di questo genere di misure. La BCE ha abbassato notevolmente i tassi di interesse e concesso denaro a basso costo alle banche che, lungi dall’utilizzare questa liquidità per sostenere imprese e famiglie, hanno fatto incetta di Buoni del Tesoro dei Paesi mediterranei e successivamente scommesso pesantemente sul loro declino attraverso i Credit Default Swap, in modo da lucrare sull’aumento degli spread. Le banche tedesche (Deutsche Bank e Commerzbank) si sono distinte per solerzia e disinvoltura con cui hanno applicato questa prassi allo stesso modo in cui Berlino si è opposta a qualsiasi genere di apertura finalizzata a dar respiro all’economia greca, spagnola, italiana e portoghese. La Germania intende mantenere le condizioni che le consentono di registrare i propri esorbitanti avanzi nella bilancia dei pagamenti, il 60-65% dei quali è assorbito dai Paesi membri dell’Eurozona. Angela Merkel e il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble si sono irriducibilmente opposti sia alla svalutazione dell’euro, sia alla federalizzazione del debito sia al lancio dei cosiddetti “Eurobond” –  che impedirebbero le periodiche fiammate degli spread –, sostenendo che la “fiducia” dei “mercati” si recupererà soltanto mostrando finanze pubbliche in salute, in conformità alle tesi sostenute da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff clamorosamente rivelatesi prive di alcun fondamento. In tal modo l’intera Europa mediterranea rischia concretamente di sprofondare nella depressione economica, con tutti i suoi corollari di disoccupazione galoppante e disintegrazione del tessuto sociale ad essa connessi.

L’opposizione a qualsiasi genere di politica espansiva è peraltro aggravata dal cambio di paradigma deciso dal nuovo governo giapponese, che intende, molto keynesianamente, raddoppiare la base monetaria nazionale nell’arco di pochi anni allo scopo di far lievitare sensibilmente l’inflazione e di deprimere la valutazione dello yen, in modo da favorire le esportazioni.

Negli Stati Uniti, le istituzioni hanno addirittura attinto a piene mani alle teorie di Keynes. Ma ciò non toglie che la politica espansiva condotta dal Dipartimento del Tesoro e dalla Federal Reserve appaia estremamente pericolosa, nonostante l’intero comparto informativo continui a parlare incessantemente di “ripresa degli USA” e di “calo della disoccupazione”. Con i suoi continui quantitative easing, la Federal Reserve sta infatti riacquistando titoli di debito emessi dal Tesoro al ritmo di circa un trilione di dollari all’anno, cosa che ha reso i bond estremamente costosi e portato la loro redditività a livelli negativi, in termini reali. Per la Fed si tratta di una mossa indispensabile ad assicurare la solvibilità delle banche, le quali, nonostante la loro spaventosa esposizione sul mercato dei derivati (la sola JP Morgan Chase ha un’esposizione sui derivati equivalente al Prodotto Interno Lordo mondiale), hanno utilizzato questa liquidità non per allargare il bacino del credito a famiglie e imprese, ma per operare pesantemente sui mercati azionari – non è un caso che gli indici Dow Jones e Standard & Poor’s abbiano registrato ben due record nell’arco di poche settimane. Ma l’evidente surriscaldamento degli stock market rappresenta un segnale molto pericoloso, perché indica la presenza di un’euforia capace di dissolversi in pochi attimi, provocando una caduta ben peggiore di quelle verificatesi nel 1987 e nel 1999.

L’evidente collusione tra la Fed e Wall Street (va ricordato che la Banca Centrale è controllata da banche private – gruppi Rothschild, Warburg, Lazard, Rockefeller, Kuhn Loeb e banche come Goldman Sachs, Citigroup, ecc. – azioniste dei 12 distretti che compongono la “riserva federale”) si è tuttavia spinta ben oltre il sostegno indiscriminato ed illimitato alle grandi banche. Un economista molto addentro a queste questioni come Paul Craig Roberts (ex alto funzionario al Tesoro nonché padre della cosiddetta “reaganomics”) sostiene infatti che la Federal Reserve abbia più o meno direttamente affidato ai giganti del credito il compito di inondare di short “nudi” il mercato dei future sull’oro. Merrill Lynch e Goldman Sachs in primis avrebbero teleguidato questa potente offensiva tesa a far crollare il valore del metallo, in modo da scoraggiare gli investitori a puntare sul bene-rifugio per eccellenza orientandoli verso la divisa statunitense.

Con il valore del dollaro tenuto a galla attraverso questo genere di “prodigi”, la Fed è riuscita a tenere (molto) parzialmente a freno l’inflazione (già altissima, come sostiene l’economista John Williams, il quale, attraverso calcoli specifici, ha scoperto che i dati ufficiali sottostimano notevolmente il livello reale dell’aumento dei prezzi), che aumenterebbe inesorabilmente in misura esponenziale qualora l’allontanamento generalizzato dalla divisa statunitense attualmente in atto dovesse ulteriormente radicalizzarsi. L’effetto di aumentare considerevolmente l’offerta di valuta statunitense in presenza di una sensibile contrazione della domanda innescherebbe automaticamente una sonora caduta di valore del dollaro, e per un Paese come gli USA, la cui bilancia dei pagamenti è cronicamente in passivo per effetto della pesante deindustrializzazione subita in passato (anche a causa delle dinamiche legate alla globalizzazione), il deprezzamento della moneta provocherebbe forti fiammate inflazionistiche immobilizzando i redditi.

Per mitigare l’aumento dei prezzi, la Federal Reserve si vedrebbe costretta ad alzare il tassi di interesse, ma ciò provocherebbe la caduta del valore e la conseguente esplosione della redditività dei Treasury bond, il che appesantirebbe enormemente gli oneri a carico dello Stato e indurrebbe una drastica stretta creditizia (credit crunch) suscettibile di strangolare defintivamente l’arrancante economia reale. Verrebbe così innescata una tremenda spirale distruttiva che abbatterebbe i redditi e farebbe crollare le entrate fiscali, alimentando il già colossale deficit nazionale. Si manifesterebbe, in altre parole, di una forma estremamente radicale di stagflazione, in cui il fenomeno dell’inflazione galoppante si presenterebbe in presenza di una grave fase depressiva. La materializzazione del fenomeno che la dottrina economica ha sempre bollato come paradosso (inflazione mista a depressione) delineerebbe i contorni di una catastrofe inaudita di fronte alla quale non esistono rimedi.

Sull’economia statunitense gravano quindi tre gigantesche bolle (obbligazionaria, azionaria e del dollaro), che potrebbero scoppiare da un momento all’altro generando ripercussioni inimmaginabili che si propagherebbero ben oltre l’economia e il tessuto sociale nordamericano. Tutto dipende quindi da quale atteggiamento Cina e Giappone in primis decideranno di tenere nei confronti della valuta statunitense. Malgrado Pechino e Tokio siano ben consapevoli che un deprezzamento del dollaro ridurrebbe considerevolmente il volume del credito che possono vantare nei confronti di Washington, non sono mancati segnali di fastidio. Il 26 dicembre 2011, infatti, si è tenuto il vertice di Pechino, al termine del quale l’allora capo del governo cinese Wen Jibao e l’allora primo ministro giapponese Yoshihiko Noda hanno sottoscritto un accordo dall’enorme coefficiente strategico, che prevede l’abbandono del dollaro come valuta di riferimento nell’ambito degli interscambi tra le due potenze asiatiche. Yuan e yen saranno chiamate a sostituire la moneta statunitense, che fino a quella fatidica data costituiva l’indice di riferimento di oltre la metà delle transazioni commerciali tra Pechino e Tokio. Come se non bastasse, i governi di Corea del Sud, Malaysia, Australia, Indonesia, Bielorussia, Argentina e Brasile hanno stipulato accordi bilaterali con Pechino attraverso cui si è stabilita la possibilità di utilizzare lo yuan come moneta di riferimento alternativa al dollaro. La Cina ha fatto valere le proprie posizioni al riguardo anche nella riunione del BRICS tenutasi a Durban nel marzo 2013, al termine della quale i Paesi membri hanno deciso di escludere il dollaro dai loro scambi e di dar vita a un ente bancario destinato verosimilmente ad esercitare una forte concorrenza alle istituzioni di Bretton Woods, controllate dagli USA.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

UN GOLFO, UNO STRETTO, UN MARE (IRAN 1975-1995)

$
0
0

Un Golfo, uno Stretto, un Mare (Iran 1975-1995)

immagini di Bandar-e ‘Abbâs, Qeshm, Hormoz e Châh-Bahâr

Fotografie di Riccardo Zipoli

con poesie di Hâfez e musiche dello Hormozgân

Mostra prodotta da:

Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea (Università Ca’ Foscari Venezia)

Scuola in Produzione e Conservazione dei Beni Culturali (Università Ca’ Foscari Venezia)

Con il contributo di:

Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran – Roma

Teatro Ca’ Foscari

con il patrocinio dell’Assessorato alle Attività Culturali del Comune di Venezia

Il Golfo Persico, lo Stretto di Hormoz e il Mare di Oman identificano gli spazi acquei che bagnano le coste meridionali dell’Iran e quelle di numerosi paesi arabi: l’Oman, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar, il Bahrain, il Kuwait e l’Iraq. Si tratta di una regione coinvolta in complesse vicende geografiche, storiche, politiche, economiche e linguistiche che la mettono al centro dell’attenzione mondiale e che però, in questa sede, restano in secondo piano. Il presente omaggio si concentra infatti sulla cultura di quei luoghi e trova le radici nella sfera degli affetti e dei ricordi relativi a tre viaggi compiuti da Riccardo Zipoli molti anni fa, nel 1975, nel 1980 e nel 1995, lungo i litorali nel sud dell’Iran. Dall’archivio fotografico di quei tre viaggi sono state scelte 36 fotografie con il fine di costruire un repertorio che, oltre a essere un diario personale di tre lontane vicende, possa anche dare un’idea di quei luoghi, in un misto di memoria e di documentazione.

La mostra presenta anche una raccolta di brani musicali, un video, un’antologia di poesie e una serie di schede scientifiche.

I brani musicali sono stati registrati dal grande iranista Ilya Gershevitch (1914-2001) nel Golfo Persico nel 1956, e sono inediti. Il prodotto è stato realizzato grazie alla generosità dell’Ancient India and Iran Trust di Cambridge (Regno Unito), in collaborazione con il Conservatorio Musicale veneziano Benedetto Marcello.

Il video, con la voce recitante di Ottavia Piccolo, raccoglie alcuni materiali della mostra ed è stato realizzato in collaborazione con ilDipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica dell’Università Ca’ Foscari Venezia.

Le poesie, tradotte in italiano da Riccardo Zipoli, sono di Shamsoddin Mohammad Hâfez (1320-1390), da tutti considerato il più importante poeta lirico di lingua persiana.

Le schede scientifiche, che descrivono da vari punti di vista le zone oggetto della mostra, sono a cura di Gerardo Barbera.

L’esposizione propone un percorso suggestivo in cui fotografie, musiche, poesie, mappe e descrizioni scientifiche si alternano in un itinerario che descrive aspetti del Golfo Persico lontani dallo stereotipo contemporaneo dominato da tematiche economiche e militari. Il quadro che ne esce è quello di una zona estranea alle contese di cui è stata ed è oggetto, una zona bella, affascinante, pacifica.

La mostra è è allestita a Ca’ Cappello, palazzo che ospita la sezione del Vicino e Medio Oriente, Caucaso e Subcontinente Indiano del Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea dell’Università Ca’ Foscari Venezia. L’intento è stato quello di creare un allestimento che entrasse in sintonia con la vita universitaria di questa sede proponendosi come un’iniziativa artistica e come uno stimolo per la riflessione e per il dibattito. Si tratta anche di un omaggio a un palazzo storico dell’ateneo veneziano, un palazzo dove hanno studiato e si sono formati molti studiosi di discipline orientalistiche.

L’esposizione è stata curata da Riccardo Zipoli, fotografo e docente di Lingua e letteratura persiana e di Ideazione e produzione fotograficapresso l’Università Ca’ Foscari Venezia, con la collaborazione di Alberto Prandi, architetto di rinomata esperienza negli allestimenti, e si è avvalsa delle capacità di due stampatori d’eccellenza, la ditta Center Chrome (Firenze), che ha curato la stampa delle immagini fotografiche, e il Gruppofallani (Venezia), che si è occupato della stampa e della messa in posa di tutti gli elementi espositivi.

Della mostra è stato stampato un catalogo in inglese a cura della casa editrice Cafoscarina.

Ca’ Cappello, San Polo 2035, Venezia

14 giugno-15 ottobre 2013

lunedì – venerdi 9 – 19

sabato 9 – 12

chiuso 12 -17 agosto

ingresso libero

 
 
Capture venezia

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

TALASSOCRAZIA E SANZIONI

$
0
0

Megara e l’Italia

Nel 1991, gli Atti di un colloquio di storici e politologi europei ed americani avente per tema “la rivalità egemonica fra Atene e Sparta e fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica” furono pubblicati sotto il titolo From Thucydides to the Nuclear Age. Tucidide, lo storico di quella “guerra mondiale dell’antichità” che fu la guerra del Peloponneso, è un autore particolarmente apprezzato in certi ambienti politico-intellettuali atlantisti, che hanno cercato di farne il testimone del bipolarismo e del confronto fra due blocchi militari.

La filologia classica, a partire da Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff1, ha rimproverato a Tucidide il fatto che, volendo attribuire a Sparta le cause del conflitto, ha lasciato in ombra il blocco commerciale imposto a Megara dalla talassocrazia ateniese. Eppure la guerra del Peloponneso ebbe inizio col decreto contro i Megaresi del 432 a. C. (il Megaréon pséphisma), una serie di sanzioni economiche che interdicevano ai Megaresi, alleati di Sparta, l’accesso ai porti, agli scali ed ai mercati della Lega di Delo, l’alleanza egemonizzata da Atene.

Per gli storici è evidente che le sanzioni contro Megara non erano semplicemente un mezzo con cui Atene intendeva estendere la propria influenza indebolendo i rivali. Helmut Berve, per esempio, ha affermato che con l’embargo, che coinvolgeva anche gli alleati di Megara, Atene “puntava il coltello alla gola dei Peloponnesii”2. Infatti lo pséphisma era una una sfida, una provocazione che doveva procurare agli Ateniesi il casus belli necessario per giustificare la guerra contro Sparta e i suoi alleati. Tuttavia, come è noto, trent’anni più tardi il conflitto si risolse con la sconfitta di Atene e l’abbattimento del suo regime democratico.

Un altro episodio esemplare nella storia delle sanzioni: il 18 novembre 1935, per la prima volta, la Società delle Nazioni decretò le sanzioni economiche contro un paese membro, l’Italia, come risposta alla campagna d’Etiopia. La Gran Bretagna, capofila mondiale dell’anticolonialismo, inviò la Home Fleet a pattugliare il Mediterraneo per far rispettare l’embargo.

Qualche anno dopo, Carl Schmitt commentava: “Le potenze societarie non facevano la guerra, ma imponevano delle sanzioni. La famosa arte inglese dei ‘metodi indiretti’ celebrò un nuovo trionfo. La tipica distinzione fra operazioni militari e operazioni non militari, azioni belliche e azioni pacifiche, perse ogni significato, perché le operazioni non militari potevano essere ostili in un modo più efficace, immediato ed intenso”3.

D’altronde era stato lo stesso fondatore della Società delle Nazioni, il presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson, a teorizzare: “Una nazione boicottata finisce per cedere. Applicando questo rimedio economico-pacifico, silenzioso ma mortale, si evita di fare ricorso alla forza”4.

Quanto all’Inghilterra, evidentemente essa aveva ben imparato la lezione sintetizzata nel celebre assioma di Sir Walter Raleigh: “Chi domina il mare domina il commercio mondiale; e a chi domina il commercio mondiale appartengono tutti i tesori del mondo e il mondo stesso”.

A quanto pare, le potenze talassocratiche privilegiano le sanzioni come forma speciale di guerra e le utilizzano nel quadro di una concezione della guerra e del nemico che è molto diversa da quella che sta alla base dello jus publicum Europaeum, poiché ignora la distinzione tra combattenti e non combattenti.

“La guerra marittima – ha scritto altrove Carl Schmitt – non è una guerra di combattenti; essa si basa su una concezione totale del nemico, la quale considera nemici non solo tutti i cittadini dello Stato nemico, ma anche tutti coloro che commerciano col nemico e ne sostengono l’economia. In questo genere di guerra è permesso, senza contestazione possibile, che la proprietà privata nel nemico sia sottoposta al diritto di preda; il blocco, mezzo che appartiene specificamente al diritto marittimo riconosciuto dal diritto internazionale, colpirà senza eccezione l’insieme della popolazione delle regioni coinvolte. Grazie ad un altro mezzo parimenti riconosciuto dal diritto internazionale e parimenti appartenente al diritto marittimo, il diritto di saccheggio, anche la proprietà privata dei neutrali potrà essere presa”5.

Nel 1946, per esempio, gli Stati Uniti pretesero che la Confederazione Elvetica consegnasse i beni dei cittadini tedeschi depositati nelle banche svizzere, pretesa contraria all’ordine giuridico privato internazionale6, ma conforme al diritto di preda specifico del diritto marittimo.

 

 

Le sanzioni secondo la dottrina delle relazioni internazionali 

Secondo la dottrina delle relazioni internazionali, le sanzioni economiche sono disposizioni adottate da uno Stato, o da una coalizione di Stati, o da un’organizzazione internazionale, allo scopo di costringere un altro Stato a rispettare le regole della coesistenza internazionale, senza fare ricorso alle armi.

Nel testo di Martin I. Glassner sulle relazioni internazionali si può leggere che “sanzioni specifiche, imposte in circostanze particolari e fatte rispettare efficacemente, possono modificare il comportamento dello Stato a cui sono rivolte, rafforzando nel contempo il prestigio della parte che le impone. Esistono comunque poche prove che le sanzioni da sole possano spaventare Stati che non siano molto piccoli e deboli”7.

Le sanzioni economiche più comuni sono le seguenti:

1) l’embargo

2) il boicottaggio

3) il congelamento dei beni e dei capitali che lo Stato sottoposto a sanzioni o i suoi cittadini possiedono all’estero

4) il divieto di concedere crediti

5) il divieto di transazione finanziaria

6) il divieto di fare scalo per le imbarcazioni e gli aerei dello Stato sottoposto a sanzioni.

7) la revoca dell’assistenza finanziaria e tecnica.

L’embargo, in particolare, è il divieto, rivolto ad un’imbarcazione mercantile, di levare l’ancora dal porto in cui si trova o di accostarsi ad un porto. In un’accezione più ampia, l’embargo è il blocco degli scambi commerciali decretato da un paese o da più paesi contro un paese terzo.

Il boicottaggio, come pure il blocco, è un insieme di misure che mirano a bloccare il commercio estero e le comunicazioni di un paese nemico. In particolare, il boicottaggio consiste nel divieto di acquistare i beni provenienti dal paese che è sottoposto a sanzioni.

Embargo e boicottaggio sono considerati dall’ONU sanzioni pacifiche applicabili nei confronti degli Stati che violano il diritto internazionale o non rispettano i diritti umani.

In realtà, come affermano i colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui nel loro libro sulla “guerra senza limiti”, “l’imposizione di embarghi sulle esportazioni di tecnologie fondamentali (…) può avere un effetto distruttivo pari a quello di un’operazione militare. Al riguardo, l’embargo totale (…) contro l’Iraq, iniziato dagli Stati Uniti, è l’esempio classico da libro di testo”8.

 

 

La “guerra economica” e i suoi obiettivi

Un altro militare, il generale Carlo Jean, già diciott’anni fa preannunciava l’intensificarsi di un uso delle armi economiche – quali l’embargo e le altre sanzioni – finalizzato a conseguire gli stessi obiettivi perseguiti dalla guerra tradizionale. Infatti la “guerra economica” è pur sempre una guerra, poiché il suo obiettivo strategico consiste nello sconfiggere il nemico per assoggettarlo alla volontà del vincitore, così come nella guerra propriamente detta. D’altronde il generale Jean osserva che in questo contesto i mezzi d’ordine economico non vengono impiegati per la produzione o per il commercio, bensì, come se fossero vere e proprie armi, per ottenere risultati analoghi a quelli perseguiti tramite la forza militare, vale a dire “per distruggere la volontà di resistenza dell’avversario (ad esempio, privandolo delle proprie capacità militari, provocando gravi danni alla sua base produttiva, carestie, epidemie, rivolte, cambio di classe dirigente o di governo, colpi di Stato, secessioni, e così via)”9.

Il medesimo autore definisce l'”arma economica” come il mezzo che gli Stati o le coalizioni di Stati “possono lecitamente impiegare per il controllo dell’economia nazionale o internazionale, qualora tale impiego sia teso a conseguire obiettivi analoghi a quelli conseguibili con l’impiego della forza militare e, in particolare, la vittoria su uno Stato o una coalizione nemica”10. Parimenti egli osserva che “questo principio tutela nell’ordinamento internazionale le potenze economicamente dominanti, favorendo il mantenimento dello statu quo”11, sicché gli è possibile concludere affermando: “Ovvio dunque che esso sia stato sostenuto e imposto dall’Occidente, che nell’attuale fase storica gode di una schiacciante supremazia economica sul resto del mondo”12.

È stato anche detto che il concetto di “guerra economica” è ambiguo e multiforme, in quanto si tratta di una guerra che può perseguire obiettivi differenti: economici, strategici o politici13.

La guerra economica ha obiettivi economici, quando lo scopo principale dello Stato che la intraprende non consiste nel danneggiamento dell’avversario, ma nell’aumento del benessere dei propri cittadini o nella crescita della propria ricchezza.

La guerra economica si propone invece degli scopi strategici allorché, in un conflitto militare, essa mira a privare il nemico dei rifornimenti necessari alle Forze Armate ed alla popolazione mediante blocchi navali, aerei o terrestri. Ma si persegue uno scopo strategico anche quando, in assenza di un conflitto militare diretto, vogliono interdire a uno Stato avversario tecnologie e prodotti considerati “critici”.

Infine, la guerra economica si pone degli obiettivi politici quando l’arma economica viene usata per indurre uno Stato ad accettare la volontà di chi la usa, sicché essa si manifesta esattamente come è definita dalle  note formule clausewitziane: “continuazione della politica dello Stato con altri mezzi”, “atto di violenza finalizzato a costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà”, “atto ispirato da un disegno politico”.

Nel caso della Repubblica Islamica dell’Iran, lo scopo della guerra economica è sicuramente strategico, poiché l’obiettivo dichiarato delle sanzioni è quello di bloccare l’acquisizione di uranio e di tecnologie utili al programma nucleare.

Ma, per quanto concerne le sanzioni unilaterali imposte dagli Stati Uniti d’America, lo scopo è anche e soprattutto politico, anzi, geopolitico, considerata la necessità della talassocrazia statunitense di controllare lo spykmaniano Rimland, del quale l’Iran costituisce un segmento centrale.

Infatti, se Sir Halford Mackinder aveva formulato la dottrina secondo cui chi controlla lo Heartland governa il mondo, Nicholas J. Spykman ha enunciato la tesi complementare, con una formula che non sarà mai ripetuta abbastanza: “Who controls the Rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world“.

 

 

 

 

1. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Curae Thucydideae, 1885, p. 17.

2. Helmut Berve, Griechische Geschichte, II 1952, p. 11.

3. Carl Schmitt, Inter pacem et bellum nihil medium, “Zeitschrift der Akademie für Deutsches Recht”, VI, 1939, pp. 594-595.

4. Citato da Gallois, Le sang du pétrole – Irak, L’Age d’Homme, Lausanne 1966, p. 31.

5. Carl Schmitt, Souveraineté de l’Etat et liberté des mers, in Du Politique, Pardès, 1990, pp. 150-151; cfr. Idem, Terra e mare, Adelphi, Milano p. 90.

6. “Neue Zürcher Zeitung”, 14 Sept. 1996.

7. M. I. Glassner, Manuale di geografia politica II. Geografia delle relazioni tra gli Stati, Franco Angeli, Milano 1995, p. 36.

8. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, LEG, Pordenone 2001, p. 81.

9. Carlo Jean, Geopolitica, Laterza, Bari 1995, p. 140.

10. Carlo Jean, Geopolitica, cit., p. 141.

11. Ibidem.

12. Ibidem.

13. Claude Lachaux, La guerre économique: un concept ambigu, “Problèmes Economiques”, 14 oct. 1992, pp. 28-31.

 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

ELEZIONI PRESIDENZIALI IN MONGOLIA

$
0
0

Il 26 giugno i cittadini della Repubblica di Mongolia saranno chiamati a decidere il nuovo Presidente, massima carica dell’immenso paese mongolo. La figura del Presidente della Repubblica in Mongolia è una figura ibrida: da un lato è fortemente rappresentativo del paese, visto che è eletto direttamente dalla cittadinanza, e ha il diritto di veto rispetto alle leggi votate dal Parlamento (il Grande Hural di Stato), dall’altra è legato a doppio filo alle decisioni del suo partito visto che può essere costretto a dimettersi in qualsiasi momento. Tra le prerogative più importanti del Presidente c’è un’ampia autonomia nella gestione della politica estera (nomina Ambasciatori e riceve gli Ambasciatori degli altri stati, rappresenta il paese negli incontri bilaterali e nelle Organizzazioni internazionali).

L’elezione cade in un momento storico estremamente positivo con l’enorme paese asiatico (grande 5 volte l’Italia, ma con una popolazione di appena 3 milioni e 180 mila abitanti, poco meno della somma delle sole città di Roma e Milano) protagonista di una crescita economica senza precedenti, grazie alla presenza sul suo territorio di ricchezze naturali (petrolio, oro, pietre rare, rame, carbone) senza pari che hanno attirato l’attenzione dei maggiori investitori mondiali, con Russia, Cina, Stati Uniti, Giappone e Sud Corea a scontrarsi per le licenze di sfruttamento del sottosuolo. Questa costante crescita del PIL con percentuali a due cifre ha però una duplice faccia: se il paese sta oggettivamente crescendo dal punto di vista economico e si può proporre su numerosi tavoli negoziali e diplomatici come paese sovrano, si registrano anche preoccupanti squilibri socio-economici con una soglia di povertà sempre più estesa e problemi socio-culturali come la diffusione dell’alcoolismo.

È quindi evidente che questa scadenza elettorale rappresenti uno snodo di primaria importanza per il futuro della massa continentale eurasiatica, visti gli enormi interessi in gioco.

Di seguito presenteremo brevemente il profilo dei tre candidati, che come vedremo sono tre rappresentanti di partiti che potremmo collocare nell’emisfero di sinistra secondo un paradigma politico eurocentrico.

Cahiagijn Ėlbėgdorž: presidente in carica, eletto nel 2009, con il Partito Democratico, formazione di centrosinistra, che si richiama alla tradizione europea liberal-socialista. È sostenuto anche dal Partito Civile-Partito Verde e dal Partito Nazional-democratico. Secondo gli analisti la sua rielezione è altamente probabile. Ex giornalista formatosi in Ucraina e Stati Uniti è stato tra i promotori della democratizzazione del Paese, fin dai primi anni ’90 (la cosiddetta Perestrojka mongola), è stato primo ministro in due periodi (aprile-dicembre 1998 e agosto 2004 – gennaio 2006). Di tendenza liberale, è considerato il candidato più filo-occidentale. In realtà nel suo primo mandato ha messo sul tavolo una politica estera pragmatica: ha saputo allacciare ottimi rapporti con l’Occidente e con i paesi dell’Unione Europea in particolare, ma non ha rinunciato a rapporti bilaterali con Iran, Corea del Nord e Cina, oltre a rafforzare la presenza nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai. Nella politica energetica ha sollevato più di qualche malumore nei dintorni di Washington, per quanto riguarda la concessione delle licenze di estrazione. È il candidato pragmatico che piace ai “nuovi ricchi” di Ulaanbaatar e alla borghesia.

Badmaanyambuugiin Bat-Erdene: candidato del Partito del Popolo Mongolo, partito erede del partito unico al potere durante il periodo socialista. Bat-Erdene è una leggenda sportiva del paese, essendo il più grande lottatore della storia contemporanea di Bökh (vincitore per 11 volte, primato assoluto, del titolo nazionale del Naadam), la lotta libera mongola, la cui popolarità è pari solo a quella dal lottatore di sumo Asashōryū (vero nome Dolgorsürengiin Dagvadorj), schierato nelle file del Partito Democratico. Deputato dal 2004 è una figura fortemente carismatica, proposta dal Partito come candidato di “unità nazionale”. Tradizionalmente il Partito è vicino a Russia e Cina e segue con interesse il modello centralista del socialismo di mercato cinese. Negli ultimi anni il partito è stato penalizzato dalla Rivoluzione Colorata del 2007 che lo ha estromesso dal potere e dalle politiche poco trasparenti dell’ex Presidente Ėnhbajar (vedi sotto), accusato di corruzione. La scelta di Bat-Erdene, quindi di uno sportivo pulito, invincibile, amatissimo dal popolo, rientra in un’ottica di maggior trasparenza e di  penetrazione delle masse popolari più colpite dall’ingiusta redistribuzione della ricchezza nazionale. Il cavallo di battaglia di Bat-Erdene è la lotta alla corruzione e alle attività illegali delle compagnie estrattive, che punta a riportare sotto il controllo dello Stato centrale, concedendo licenze solo in cambio di garanzie di serietà, legalità e convenienza per il popolo. A sostenere Bat-Erdene sono anche tre partiti minori: il Partito Verde Mongolo (da non confondere con quello che sostiene Ėlbėgdorž), dal Partito per la realizzazione della libertà e dal Partito Unito dei Patrioti.

Natsag Udval: esponente del Partito Rivoluzionario del Popolo Mongolo, nato da una scissione del Partito del Popolo, fondato dall’ex Presidente Nambaryn Ėnhbajar. È la prima donna candidata alla presidenza della Repubblica, attualmente occupa il dicastero della salute. Il partito che si richiama alla tradizione della sinistra comunista mongola, è caratterizzato da dure posizioni nazionaliste anti-cinesi (Ėnhbajar è inoltre seguace del Dalai Lama) e raccoglie molti consensi nelle masse popolari che vedono la Cina e la sua potenza come invasiva e imperialista. Il candidato del PRPM potrebbe erodere voti a Bat-Erdene.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail
Viewing all 107 articles
Browse latest View live